di Carlo Benedetti

MOSCA.Sulle elezioni da poco concluse c’è molta confusione. In pratica ha vinto Viktor Janukovic che si è aggiudicato - con la sua lista del “Partito delle Regioni” - un onorevole 43,2% confermandosi come il primo partito, tenendo anche conto che nelle ultime consultazioni il risultato era stato del 32,14%. Ma nell’arena irrompe subito la miliardaria Julia Timoschenko, nota come principessa del gas ed animatrice - per conto degli Usa - di quella “rivoluzione arancione” che ha segnato (e segna ancora) la vita politica dell’Ucraina. Il suo partito - un vero blocco di potere - ha ottenuto oltre il 26% consentendole, di fatto, di tornare a correre insieme al suo ex alleato, il presidente Jushenko (che si limita ad ottenere ora un risicato 14%), in un’alleanza che potrebbe di nuovo farla salire al trono di primo ministro se riuscirà a trovare collegamenti con le liste minori che hanno superato la cortina stabilita per entrare nel parlamento. E qui c’è da rilevare il successo dei comunisti che hanno raggiunto, per la prima volta, il 5,35%. E si delinea anche un buon successo del “Blocco di Lytvyn” e del Partito socialista, rispettivamente arrivati quarto e quinto nelle preferenze. I risultati elettorali in Ucraina dimostrano ancora una volta che esistono due Ucraine. Una “orientale” - quella dei bacini industriali di Karkov - che si sente più vicina alla Russia, ed una “occidentale” - quella pre-carpatica di Leopoli - che guarda all’Europa e, in particolare, agli Usa. E sono proprio gli Usa di Bush a considerare il paese una loro terra di conquista, dove sviluppare azioni di destabilizzazione nei confronti dell’intero campo dell’ex Urss. E a Kiev, non è un segreto, che gran parte del sostegno logistico e dei fondi elettorali in funzione anti-Mosca sono sempre giunti dagli Stati Uniti, che hanno elargito ai movimenti “arancioni” e alle cosiddette associazioni non governative (via Polonia) quasi sessanta milioni di dollari.

Ed è stata, questa, una pratica sviluppata (anche sotto l’egida del papa polacco) negli anni che sono seguiti al crollo dell’Urss ed è questo, ora, il motivo per cui la forte ed influente diaspora ucraina (che si trova in America e che svolge una precisa funzione di lobby nei confronti della Casa Bianca) sta giocando tutte le sue carte per mettere le mani sul futuro di Kiev. I problemi economici, intanto, sono sempre più al centro dell’arena post-elettorale.

L'Ucraina - dicono le fonti ufficiali di Kiev - si ritrova con un saldo attivo della bilancia commerciale ed ha ripreso con un certo vigore la sua produzione industriale. Le origini delle gravissime e prolungate difficoltà in cui si è dibattuta vanno fatte risalire alla perversa combinazione costituita dalla produzione in progressivo calo e dall’incapacità d’introdurre le indispensabili innovazioni tecnologiche che caratterizzarono l’ultima fase dell’epoca sovietica. Egualmente deleteria si è rivelata la velleità del periodo gorbacioviano d’introdurre alcune delle impellenti e profonde riforme sollecitate dagli economisti riformatori (maggiore autonomia decisionale di aziende e ministeri, riduzione delle spese militari, avvio dello smantellamento dei grandi monopoli), senza peraltro avere il coraggio di abbandonare chiaramente i postulati di alcuni dogmi marxiani come la proprietà della terra e delle aziende sempre in mano allo Stato; la libera iniziativa privata soffocata dalla mancanza di adeguate risorse; la pianificazione di fatto ancora invasiva; l’uso puramente nominale del denaro; un sistema bancario meno che embrionale; l’assenza pressoché totale degli altri moderni strumenti finanziari.

Con la fine dell’Urss e la nascita della nuova Ucraina la crisi di transizione dall’economia pianificata a quella di mercato ha poi subito un’accelerazione irresistibile. La causa va cercata in fattori concomitanti. In particolare la mancata privatizzazione sostanziale del sistema economico. Con il complesso di misure necessarie a creare una vera economia di mercato, che non è mai stata adottata e con le aziende spesso finite in mani d’incerta capacità e di dubbia reputazione. Con la lobby affaristica interna che così si è formata e che ha ottenuto il vergognoso privilegio di gestire le aziende cadute sotto il suo controllo a proprio esclusivo beneficio, spremendone ogni possibile risorsa, utilizzandole per creare imperi di chiara natura mafiosa, ma lasciando allo Stato l’onere sempre più insostenibile di stipendi arretrati per svariati miliardi di dollari.

La tesi che avanza ora (al di fuori delle soluzioni di alchimia politica per risolvere la crisi in parlamento) è quella che si riferisce alla possibile soluzione delle tante questioni. Ci si chiede, in particolare, se la via d’uscita sia pur sempre quella del liberismo, del dirigismo di Stato, della pianificazione economica in un clima di libero mercato.

Ora l’eventuale arrivo alla guida del governo di una convinta sostenitrice del mercato come la Timoschenko dovrebbe portare a un ruolo più incisivo dello Stato nell’economia. A meno che la “Pasionaria di Kiev” non ci faccia assistere ad una riedizione di quanto ha già combinato in passato. E cioè lotte di potere, ricatti e conti da saldare con il mondo politico locale. In tutto questo potrebbe essere aiutata ancora una volta da quell’oligarca ucraino che l’ha portata all’altare e da quel figlio ribelle esponente della nomenklatura. Pagine già viste e che finirono nel 2001 quando la bella Julia - passata da piccola proprietaria di un negozietto di videocassette a magnate degli idrocarburi - se ne andò in carcere per contrabbando di metano e fu poi sottoposta a indagini in Russia con l’accusa di aver corrotto, quando era responsabile del settore energetico ucraino, quattro funzionari. Poi nel 2004 avvenne la sua “santificazione” in chiave antirussa e filoamericana. Salì alla carica di premier, prima donna in Ucraina nella stanza dei bottoni. Ma poco dopo Jushenko la liquidò tra reciproche accuse di incompetenza e favoritismi e lei si trasformò in sua acerrima rivale. Ora la storia continua. E c’è solo da sperare che non si ripeta.

Per gli americani, comunque, la bionda Julia è sempre un agente da tenere d’occhio, curare, pagare e controllare. Tanto più che a Kiev, ormai, ci sono tutti i maggiori istituti di “ricerca” che fanno capo alla Casa Bianca, al Pentagono e alla Cia. La Timoschenko sa di avere solidi alleati nella sua battaglia contro la Russia. Ma la Russia sa bene, nello stessi tempo, che gli americani non mollano e che puntano sempre alla destabilizzazione dell’intera area eurasiatica.

Ed è noto che nel territorio russo (dopo il via libera offerto dalla perestrojka di Gorbaciov) operano alcune delle maggiori organizzazioni di intelligence della Casa Bianca. Tra queste la "Rand Corporation" e cioè la "Research and Development". Specializzata nei settori scientifici e tecnologici (operativa presso la Us Air Force e la Douglas Aircraft di Santa Monica) che si è subito inserita tra i tanti enti impegnati nel fronte della guerra fredda contro Mosca ampliando notevolmente il suo raggio d'azione praticamente in ogni campo che potesse essere utile alla Cia: dalla fisica alle scienze informatiche, dalla psicologia alle scienze sociali e del comportamento, dall'economia ai mass-media, dalle scienze politiche e diplomatiche alla linguistica. La "Rand" è divenuta così - grazie ad un lavoro di intelligence a livello mondiale - una vera e propria riserva di cervelli e di informazioni su tutto lo scibile umano. Naturale, in questo contesto, la particolare attenzione nei confronti della Russia e del suo mondo accademico.

La "Rand" ha una serie di collaboratori russi ed ucraini, ben pagati, che riferiscono sulle questioni "interne" e in particolare su quelle relative alla "sicurezza nazionale". Una sorta di quinte colonne che, al servizio degli americani, contribuiscono a formare la politica statunitense nei confronti del Cremlino. La "Rand Corporation" opera con uno status speciale con corsi universitari dedicati alla preparazione di cittadini russi. E in questo programma si avvale della collaborazione di cremlinologi americani come Francis Fukuyama; del direttore dell'emittente "Europa libera" finanziata dalla Cia; di Robert Bekrs e R.L. Hartkof autore di un’importante opera sulla strategia militare russa; di Konstantin Melnik ex cittadino russo passato allo spionaggio francese…

Ma la “Rand” non è l’unica organizzazione “culturale” degli Usa. Un ruolo di primo piano spetta, infatti, anche alla “Psychological Strategy Board” costituita a Washington come centro nevralgico della controffensiva verso l’Europa orientale. Lo scenario “antirusso” è, quindi, variegato e complesso. Ed è naturale che Mosca mostri un’attenzione particolare verso un’Ucraina che si avvia sempre più ad essere una sorta di quinta colonna nel cuore dell’Est. Ma ora arriva anche un messaggio distensivo nei confronti di Julia Timoschenko. L’ambasciatore russo che opera nella capitale ucraina - un personaggio di spicco che fu anche primo ministro, Viktor Cernomyrdin - annuncia che il Cremlino “lavorerà con qualsiasi governo che si formerà a Kiev”. Ma nell’aria - a parte le buone “intenzioni” - c’è sempre quella possibile minaccia di una riedizione di quanto accadde nel 2005. Allora il monopolista del gas russo Gazprom minacciò di tagliare le forniture della materia prima all’Ucraina se questa non avesse saldato il proprio debito, pari a 1,3 miliardi di dollari. Ed ora Mosca potrebbe tornare a far sentire la sua pressione utilizzando - come sempre - l’arma delle fonti energetiche. Le risposte e le chiarificazioni arriveranno a stretto giro di posta non appena il contenzioso post-elettorale avrà trovato un binario istituzionale tale da calmare gli animi e riportare a Kiev la normalità.

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