di Eugenio Roscini Vitali

Il 28 settembre scorso, il presidente libanese Emile Lahoud ha chiesto alla comunità internazionale di adoperarsi affinché il confronto parlamentare, che entro novembre dovrebbe portare all’elezione del nuovo Capo dello Stato, non subisca ulteriori pressioni. Parlando dell’attuale situazione politico-istituzionale libanese, Lahoud ha rivolto la sua attenzione a quei membri del Consiglio di Sicurezza delle Onu, compresi gli Stati Uniti, che con il loro atteggiamento concorrono ad accrescere una situazione già difficile. Il presidente libanese ha precisando che questo tipo di interferenze potrebbe trascinare il Paese in una spirale di violenza che certamente determinerebbe il collasso istituzionale; un intervento negli affari interni che Lahoud ha definito “contrario a quanto stabilito dalle leggi internazionali” e che ha già provocato le reazioni degli shiiti e dei gruppi politici dell’opposizione. Le reazioni del mondo politico internazionale all’appello lanciato da Lahoud sono state subito contrastanti. Alcuni hanno letto l’intervento come un’iniziativa intesa a risolvere una situazione di stallo che sta andando avanti dallo scorso novembre, cioè da quando il governo anti-siriano del premier Fuad Siniora ha subito la defezione di sei ministri filo-siriani; per altri è stata l’ennesima dimostrazione che Lahoud è legato a Damasco a doppio filo e che sta lavorando per sostenere la candidatura di un uomo vicino alle posizioni di Hezbollah. Da qualsiasi angolazione venga visto, l’invito di Lahoud è comunque chiaro e non lascia adito ad altre interpretazioni: se l’elezione non dovesse trovare un vasto consenso, il Libano si ritroverebbe spaccato in due; una ripetizione di quanto già accaduto negli ultimi anni della guerra civile scoppiata nel 1975, aggravato però dalle forti pressioni “politiche” a cui è soggetto il Paese. In quella occasione furono i cristiano-maroniti del Generale Michael Aoun che, il 14 marzo 1989, diedero inizio alla “guerra di liberazione” contro le truppe siriane i loro alleati libanesi, sostenitori del presidente Rene Mouawad.

Che Emile Lahoud, in carica dal 1998, tre anni in più del normale mandato istituzionale, abbia sempre mantenuto rapporti di grande amicizia con la Siria non è una novità, così come sono altrettanto note le ingerenze di Damasco nella storia libanese. Iniziata nel 1976 con la Forza Araba di Dissuasione e terminata, ufficialmente, nell’aprile 2005, con il ritiro dei 15 mila soldati siriani presenti lungo la valle della Bekaa, l’invasione siriana ha sicuramente segnato la storia del Libano. Durante questi 30 anni sono stati molti i rappresentanti di Damasco che hanno frequentato i saloni del palazzo presidenziale di Baabda: uomini politici, militari, agenti dei servizi segreti. Tra loro, quello che ha consolidato più di ogni altro l’influenza siriana in Libano è stato certamente Rustom Ghazali, capo dell’intelligence siriano in Libano dal 2002 e tra i principali indiziati per la morte del premier libanese Rafic Hariri. Il legame che ha unito Lahoud, Assad e Ghazali si è pero interrotto subito dopo l’aprile 2005, anche se in molti credono che durante la guerra con Israele, Hezbollah abbia ricevuto consistenti forniture di armi da Damasco.

Per ora, il boicottaggio messo in atto da Hezbollah ha reso nulla la sessione di voto del 25 settembre e ha fato slittare la prossima votazione al 23 ottobre. Solo qualche giorno prima, a Beirut, migliaia di libanesi davano l’ultimo saluto al deputato cristiano falangista Antoine Ghanem, ucciso alle 17.20 del 19 settembre dall’esplosione di un Mercedes 270 imbottita con più di 20 chili di esplosivo. Un omicidio che secondo l’ex Generale Michel Aoun, il cristiano maronita che gli Hezbollah appoggiano nella corsa alla presidenza, poteva essere evitato. Un’accusa certamente grave ma se la teoria di Aoun fosse giusta, la morte di Ghanem dimostrerebbe come in Libano chi mette le bombe è colluso con chi dovrebbe assicurare i fondamentali principi della democrazia. D’altra parte il ministro Ahmet Fatfat ha denunciato un complotto che punterebbe a eliminare i deputati della maggioranza e, secondo la stampa internazionale, l'intelligence sapeva di un piano che mirava a colpire alcuni tra i politici più in vista del blocco contrario alla Siria.

Da Beirut il premier Fuad Siniora continua a promettere che i responsabili degli attentati non rimarranno a lungo impuniti e, cercando di rassicurare il popolo libanese sull’elezione del prossimo presidente, dichiara che il Libano non si lascerà intimidire dalle minaccerei terroristi; la maggioranza intanto continua ad accusare il governo di Damasco di voler destabilizzare il Paese per evitare nuove elezioni presidenziali e mantenere al potere l’attuale presidente Lahoud.

Continuare a puntare il dito contro la Siria sta diventando però sin troppo facile; in molti iniziano a pensare che dietro questa ondata di violenza potrebbero esserci anche altre trame e che comunque da dopo l'assassinio dell'ex premier Rafiq Hariri, avvenuto il 14 febbraio 2005, poco o nulla è stato fatto per proteggere i probabili obbiettivi degli attentati. Il timore di uno stallo istituzionale e la possibilità di vedere nominati due governi autonomi e opposti è senz’altro condiviso dallo stesso segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon che si è detto preoccupato per le sorti del Paese. La scelta della massima carica istituzionale ripropone la fragilità di un Paese straziato da anni di guerra civile, dall’occupazione straniera e dal terrorismo e per le strade della capitale l’atmosfera è pregna di tensione e il clima sembra preludere a una nuova ondata di violenze.

Dopo le dimissioni dal governo Siniora dei sei ministri filo-siriani appartenenti a Hezbollah, Amal e ai cristiano maroniti di Auon, dopo i tentativi del leader shiita Sayyed Hassan Nasrallah di imporre la convocazione di elezioni anticipate e dopo il tentativo di formare un governo di unità nazionale, lo strappo tra maggioranza e opposizione sembra insanabile. Le divergenze riguardanti l'istituzione di un Tribunale internazionale sull'assassinio dell'ex premier Rafiq Hariri e la richiesta, non accolta, di un rimpasto di governo che assegni maggiore rappresentanza alla componente sciita sono le principali ragioni della crisi. In base agli equilibri politico-religiosi e confessionali, il presidente della Repubblica deve essere un cristiano maronita. La coalizione anti-siriana, conosciuta come “14 marzo”, appoggia Nassib Lahoud, ex ambasciatore negli Stati Uniti dal 1990 al 1991 e cugino del presidente uscente. Legato da vincoli di parentela al Re saudita Abdullah e apprezzato nel mondo diplomatico occidentale, Nassib Lahoud è stato parlamentare dal 1992 al 2005 e ha fondato una delle maggiori società di ingegneria del Paese.

Il generale Michel Suleimane, capo dell'esercito dal 1998, è sicuramente un buon compromesso, soprattutto per come è riuscito a tenere le Forze Armate fuori dalle dispute di potere e dalle manifestazioni di violenza che in questi ultimi anni stanno dividendo il Libano. Strenue combattente del terrorismo islamico, Suleimane non ha però il pieno appoggio degli anti-siriani proprio perché non ha mai dato l’ordine di reprimere le dimostrazioni di piazza organizzate da Hezbollah. Per la sua elezione sarebbe comunque richiesto un emendamento alla Costituzione in quanto è vietata la nomina a presidente di chi già ricopre un incarico statale. Nelle stesse condizioni si trova il governatore della Banca centrale, Riad Salameh, considerato un pretendente credibile anche se nessuna delle parti politiche lo ha ancora candidato. A Salameh, presidente dell’Istituto dal 1993, va riconosciuto il merito di aver saputo gestire la crisi economica dovuta alla guerra Hezbollah-Israele. Oltre a lui si fanno i nomi di Boutros Harb, avvocato ed ex ministro dell’Istruzione e dei Lavori pubblici e Trasporti, e Jean Obeid, ministro degli Esteri dal 2003 al 2004 e consigliere per le relazioni con la Siria e con il mondo Arabo degli ex-presidenti Elias Sarkis e Amin Gemayel. Infine, Michel Edde, responsabile del quotidiano in lingua francese L'Orient-Le Jour ed in ottimi rapporti con il Patriarca Maronita Nasrallah Sfeir. Dal 1980 ha ricoperto numerose cariche istituzionali e numerosi ministeri, incluso quello dell’Informazione e della Cultura.

In cima alla lista dei candidati dell’opposizione compare il nome del capo del Movimento patriottico libero, il settantaduenne cristiano maronita Michel Aoun, detto il Generale. Appoggiato dagli sciiti Hezbollah e da Amal, Aoun e sicuramente il più forte dei nomi finora in corsa. Pur essendo considerandolo dai maroniti un traditore a causa delle sue nuove alleanze e dei rapporti con la Siria, nemico giurato, punta a raccogliere il consenso quella parte dei cristiani che vogliono trovare una soluzione alla crisi. Ex comandante dell’esercito libanese, Aoun è stato primo ministro dal 1988 al 1990 di uno dei due governi che per due anni si sono spartiti il Libano. Dopo aver perso la guerra di liberazione contro l’occupazione siriana, nell’agosto del 1991 è stato estradato in Francia dove ha trascorso 15 anni di esilio forzato. Rientrato in Patria il 7 maggio 2005, subito dopo il ritiro delle truppe siriane dalla valle della Bekaa, ha partecipato alle elezioni parlamentari ed è stato eletto deputato con il Movimento patriottico libero. Oppositore del governo filo-occidentale di Seniora, Aoun ha trovato un compromesso ideale con Hezbollah, un’alleanza che forse gli permetterà di rientrare nel palazzo presidenziale di Baabda, questa volta con il sostegno di Damasco.

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