di Giuseppe Zaccagni

Un’ondata di proteste sconvolge la Georgia e quella “Rivoluzione delle rose” - che gli americani - Casa Bianca, Cia, Pentagono - avevano organizzato e sostenuto con tutti i mezzi - si sta appassendo a gran velocità. Gli scontri nelle piazze ne sono la prova più lampante, con centinaia di migliaia di georgiani che attaccano il presidente Michail Saakasvili chiedendo le sue dimissioni immediate (accusandolo di abuso di potere e di cattiva gestione economica), elezioni anticipate e una riforma costituzionale che abolisca la carica di capo dello Stato. Il caos, intanto, regna in tutto il paese che conta 5 milioni di abitanti. Le manifestazioni più imponenti avvengono nella capitale Tbilisi, ma molte sono le notizie che si riferiscono ad analoghe azioni di protesta sia nelle oltre cinquanta province che in quelle repubbliche autonome da sempre in rotta con il potere centrale: Abchasija, Adzaria ed Ossezia del Sud. Situazione quindi più che mai a rischio, mentre si delinea all’orizzonte un vero e proprio pericolo di “guerra civile”. Il Paese - un assetto etnico a pelle di leopardo - sembra proprio giunto alla fase finale della resa dei conti. Escono dagli armadi della storia più recente i tanti scheletri di vicende politiche interne, tutte manovrate dalle forze d’oltreoceano che hanno sempre considerato la Georgia come un trampolino di lancio per sferrare l’attacco alla Russia e alla sua influenza nel Caucaso. E così, proprio in queste ore di sommovimenti, si torna a parlare di un georgiano come Scevardnadze che si conquistò una certa fama negli anni sovietici guidando la politica estera del Cremlino, pilotando la distruzione della Germania Democratica e trattando con Bonn le fasi dell’annessione della Rdt. Il personaggio - una volta distrutta l’Urss - si ritirò nella sua Georgia divenendone capo e padrone. E anche qui combinò guai provocando proteste e rivolte sino ad essere cacciato. Ma l’America non mollò mai la presa. Cominciarono le infiltrazioni di agenti Usa e cominciò una precisa campagna antirussa per staccare la Georgia da ogni rapporto d’amicizia e collaborazione con Mosca.

L’epoca - che passa alla storia con il nome di “Rivoluzione delle rose” - è così segnata dalla comparsa sulla scena di Michail Saakasvili (nato nel 1967), un personaggio legato agli ambienti della Casa Bianca e portato al potere presidenziale nel gennaio 2004. Di formazione giurista, ma americano per vocazione, Michail si è sposato un’olandese - Sandra Roelofs - e si è incamminato sulla strada segnata da un acceso occidentalismo in senso capitalista. Forte anche della conoscenza di molte lingue (l'inglese, il francese, l’olandese e il russo) ha stabilito rapporti con ambienti politici ed economici occidentali. Ma sempre ponendo come obiettivo centrale della sua azione quello del distacco da Mosca.

Ora la sua gestione è sotto accusa. A Tbilisi si ricorda, in particolare, quel novembre del 2003, quando migliaia di persone scesero in piazza per protestare contro i brogli elettorali che avevano consentito ad Eduard Scevardnadze di essere rieletto Presidente della Repubblica. Fu in quel momento che prese avvio la carriera di Saakasvili con la cosiddetta “Rivoluzione delle Rose”. E la Georgia entrò nella scena del mondo occidentale nel gennaio 2004, dovendo però affrontare una situazione particolarmente critica.

Il livello di vita, dal passaggio dell’epoca sovietica a quello dell’epoca capitalista, subiva un crollo pauroso con la stragrande maggioranza della popolazione che si trovava a vivere sotto la soglia minima della sopravvivenza. Saakasvili, comunque, è riuscito a formare una sua squadra e a mantenere saldo il potere conquistato con un 97% alle elezioni. Ma i voti sono stati solo una facciata, perché i risultati successivi hanno rivelato aspetti ben diversi evidenziando anche il vero spazio geostrategico della regione.

Il personaggio ha puntato tutte le sue carte sul “cambiamento” di indirizzo, orientando la Georgia verso gli Usa e verso obiettivi “europei”. Ha dimenticato però le tradizioni della Georgia, i rapporti antichi con la Russia e, soprattutto, non ha tenuto conto della realtà geopolitica del Caucaso. E Mosca, in un certo senso, - troppo occupata con la rivolta cecena - ha subìto le manovre della nuova compagine di Tbilisi.

Saakasvili si è così subito caratterizzato come un leader capace di pilotare il “distacco” da Mosca. Ha annullato la concessione per le basi militari russe nel territorio nazionale ed ha ripetuto più volte l’importanza dell’unità del paese respingendo le mire dei secessionisti filorussi. Quindi, forte dell’appoggio di Washington per l’ammodernamento dell’esercito e favorendo l’afflusso di crediti da parte del FMI e della World Bank, ha accelerato le trattative per l’ingresso del Paese sia nella NATO che nella UE. Sul piano delle grandi opere ha poi inaugurato l’oleodotto più lungo del mondo: il Baku-Tbilisi-Cheyan (BTC) che trasporta petrolio dal Mar Caspio fino alle coste della Turchia. L’obiettivo finale è sempre stato, comunque, quello di avviare una nuova politica energetica, nel tentativo di ridurre le dipendenze da Mosca.

Sin qui i fatti e i successi. Ma a poco a poco si è rivelato un altro aspetto della gestione di Saakasvili, precisamente quello relativo al forte accentramento di poteri, seguito da una politica tesa a criminalizzare l’opposizione. E così tutte le forze politiche del Paese, già messe in forse da una soglia di sbarramento in Parlamento del 7%, si sono trovate a fare i conti con un Presidente vero padrone del Paese. Si è scoperto un Saakasvili dittatore. Che non ha rispettato le promesse pre-elettorali, non ha affrontato le riforme necessarie nell’apparato produttivo. Non solo, ma si è nascosto anche dietro ad una cortina di forte nazionalismo. E a poco a poco la società georgiana ha cominciato ad aprire gli occhi ricordandosi anche che fu Brzezinski a definire la Georgia come “chiave del Sud Caucaso”. E si è visto che gli interessi degli Usa, mascherati con le sovvenzioni per lo sviluppo economico e sociale, sono stati un vero e proprio “grande gioco”.

Ora è caos in tutto il Paese. “Vogliamo andare al voto, subito e non alla fine del 2008, andatevene”, dice Davit Berdzenishvili, leader del Partito repubblicano, nel corso di un grande comizio davanti a cinquantamila persone riunite dinanzi alla sede del governo. Un altro esponente dell’opposizione, l’ex ministro degli Esteri, la signora Salome Zurabishvili, chiede le elezioni per il prossimo aprile. Ma su queste dichiarazioni di ordine politico arriva anche la notizia dell’arresto di Georgi Khaindrava, un leader dell’opposizione. Tutto avviene mentre aumentano le accuse a Saakasvili. Si diffondono notizie su un’incredibile gestione personale del suo potere, sull’erosione sistematica dei diritti, su conflitti di interesse, su giri di tangenti e di conti all’estero. E, soprattutto, sul coinvolgimento di alcune rappresentanze diplomatiche di Tbilisi in vari paesi europei che sarebbero state utilizzate per trasferire conti “personali” in istituti finanziari occidentali. Tante, quindi, le miscele esplosive.

Saakasvili, intanto, passa all’attacco. Accusa i “servizi speciali della Russia” di aver organizzato la protesta e di soffiare sul fuoco. Risponde con lo stato d'emergenza dopo che il suo primo ministro Zurab Nogaideli rende noto che “c’è stato un tentativo di un colpo di stato” e comincia la repressione diretta fatta di arresti ed aggressioni. Anche quelle poche voci di stampa indipendente cadono sotto la mannaia del presidente. La rete televisiva “Imedi” viene attaccata dalle forze speciali e cessa le trasmissioni.

Ma la calma non regna a Tbilisi. "Le autorità hanno usato le armi contro manifestanti pacifici e quindi le autorità subiranno quel che meritano dal popolo", prevede il capo dell'opposizione Kakha Kukava. E per l’americano Saakasvili si prevedono brutti giorni. La protezione d’oltreoceano non lo salverà, perché la sua caduta in Georgia è già iniziata. Le “rose” che lo hanno portato al potere dittatoriale perdono già molti petali. Restano solo le spine.

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