di Eugenio Roscini Vitali

“La provincia del Kosovo e Metohija è parte delle Serbia e la sovranità e l’integrità territoriale del Paese sono garantiti dalla Costituzione, dalla Carta delle Nazioni Unite, dall’Atto finale di Helsinki e dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ogni soluzione per il futuro status del Kosovo e Metohija deve partire da questo principio e deve rispettarlo. Qualsiasi altra azione sarebbe dichiarata nulla e metterebbe in pericolo l’esistenza della Repubblica di Serbia che, in conformità con quanto sancito dal diritto internazionale, sarebbe costretta a reagire”. Questa è in sostanza la posizione serba sul Kosovo, un parere confermato anche durante i colloqui di Baden, dove il ministro degli Esteri serbo, Vuk Jeremic, ha dichiarato che qualsiasi soluzione unilaterale della crisi equivarrebbe all’apertura del Vaso di Pandora, con un effetto a catena che coinvolgerebbe i Balcani occidentali e che si propagherebbe anche in altre regioni del mondo. Jeremic ha ricordato i principi su cui si basa la Risoluzione 1244 approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 10 giugno 1999: prevedere l’autonomia del Kosovo mantenendo comunque la sovranità e integrità territoriale della Serbia. In una intervista al giornale britannico Daily Telegraf, il presidente serbo Boris Tadic ha ammonito la comunità internazionale sulle pericolose conseguenze che potrebbero scaturire dalla proclamazione unilaterale dell’indipendenza nel Kosovo. Prima dei negoziati di Baden, Tadic aveva rassicurato le Nazioni Unite sul fatto che la Serbia non ha nessuna intenzione di destabilizzare la regione ma, viste le posizione albanesi, non esclude questa possibilità. Il presidente serbo ha sottolineato che la crisi potrebbe coinvolgere la Bosnia ed Erzegovina dove vivono quasi 1,5 milioni di serbi e che i sostenitori dell’indipendenza kosovara non hanno compreso a pieno la complessa situazione interetnica nei Balcani, così come non lo è stato in Iraq e in altre regioni mediorientali.

Alle delegazioni di Pristina e Belgrado non sono bastati sei incontri in quattro mesi per trovare un accordo sul Kosovo. La crisi torna quindi al mittente e ad indirizzarla al Palazzo di Vetro è proprio il premier serbo Vojislav Kostunica che, senza mezzi termini, ha dichiarato che lo status del Kosovo non può essere deliberato dalla sola maggioranza albanese e che qualsiasi decisione spetta solo e soltanto all’Onu. Dopo due anni di negoziati non si è aperto il benché minimo spiraglio e un compromesso sembra ormai impossibile; la crisi sta nuovamente incancrenendosi su posizioni radicali e Kostunica è convinto che in Kosovo gli albanesi si stanno preparando a dichiarare l'indipendenza, con il bene placet degli alleati occidentali.

Mentre la Serbia cerca di preservare il controllo dei propri confini e continua ad offrire un’autonomia più o meno effettiva, Pristina offre cooperazione e apertura al dialogo solo a condizione della piena indipendenza. Secondo le autorità kosovare, Belgrado non propone niente di nuovo e cerca di riportare le condizioni al passato. Se per alcuni esponenti del governo la Serbia sta cercando di creare i presupposti per un nuovo conflitto, per altri non ci sarà più nessuna guerra e non ci saranno nemmeno ulteriori ritardi nel riconoscimento del nuovo status del Kosovo. In questa confusione generalizzata spicca la dichiarazione del presidente Fatmir Sejdiu, il quale comunque conferma che sarà il Parlamento del Kosovo a dire l'ultima parola.

A prescindere dai futuri sviluppi, il vertice austriaco ha messo in evidenza la fragilità del sistema politico internazionale e ha dimostrato che per il successo di qualsiasi processo di pace è necessario prima valutare attentamente situazioni complesse e spesso secolarizzate, di cui molti ignorano le origini storiche. Aver supposto che in pochi anni sarebbe stato possibile risolvere la crisi del Kosovo e aver paventato la possibilità dell’indipendenza è stato un errore politico che ha soprattutto alimentato il sogno dei gruppi più radicali: riunire tutte le comunità albanese che vivono nel sud dei Balcani sotto una sola bandiera.

Che la definizione dello status giuridico del Kosovo apra la questione delle frontiere balcaniche è ormai un fatto assodato: la totale indipendenza appare impossibile; l’autonomia non verrà mai accettata; la divisione in due Stati equivarrebbe a fomentare l’insurrezione albanese che coinvolgerebbe Serbia, Montenegro e Macedonia. Il 10 dicembre la trojka Unione Europea, Russia e Stati Uniti non potrà fare altro che certificare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il fallimento negoziale; un insuccesso che potrebbe scatenare la rabbia degli albanesi contro la minoranza serba. Una nuova crisi che vedrebbe la Nato ancora in prima fila, obbligata a contenere le violenze e paradossalmente impegnata a difendere gli interessi serbi per evitare il legittimo intervento dell’esercito di Belgrado a difesa del territorio nazionale.

La crisi dei Balcani è quindi lungi dal vedere la sua fine e le promesse di pace, benessere e democrazia ricordano sempre di più quelle già fatte in Iraq e in Afghanistan. L'indipendenza condizionata appare l’unica soluzione possibile per il Kosovo, ma la sua realizzazione deve avvenire negli anni e con un processo assistito dalla presenza militare e civile della comunità internazionale, che deve continuare a garante i diritti della minoranza serba e deve sostenere la costruzione dello stato di diritto.


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