di Cinzia Frassi

Da qualche tempo il ministro Mastella si occupa anche dei palinsesti televisivi, mettendoli a soqquadro. “La vita Rubata”, film diretto da Graziano Diana, che doveva andare in onda il 27 novembre sugli schermi di mamma Rai, racconta la drammatica vicenda di una ragazza di 17 anni, Graziella Campagna, freddata a colpi di lupara. Un brutale omicidio di mafia nel quale ha trovato la morte la sera del 12 dicembre 1985 a Villafranca Tirrena (Me) una ragazzina che lavorava presso la lavanderia La Regina e che, suo malgrado, aveva visto qualcosa che non avrebbe proprio dovuto vedere. Per quello che ha visto è stata barbaramente uccisa. Suo malgrado. E’ la mafia. Qualche giorno prima di essere uccisa, mentre svolgeva il suo lavoro in lavanderia, Graziella trova nel taschino di una camicia alcuni documenti, probabilmente un’agendina. E’ così che si imbatte con la vera identità di Toni Cannata e Gianni Lombardo. Gerlando Alberti jr, nipote di Gerlando Alberti sr, alias “u paccarè”, (il furbo), è il braccio destro di Pippo Calò e Giovanni Sutera. I due latitanti sono ricercati per associazione mafiosa e traffico di droga e dal timore di essere scoperti al risolvere con un omicidio ci mettono un attimo. Graziella commette l’errore di consegnare ciò che aveva trovato per puro caso alla titolare della lavanderia. A quanto sembra, raccogliendo l'appello del presidente della Corte d'Appello di Messina - dove il prossimo 13 dicembre si celebrerà il processo di secondo grado per l’omicidio di Graziella Campagna - il guardasigilli ha sottoposto la questione al direttore generale della Rai Claudio Cappon. Il risultato è stata la sospensione dal palinsesto della fiction.

Ma cosa avrebbe dovuto turbare il processo d’Appello? Il delitto di Graziella Campagna non ha mai captato molto l’attenzione dei media. Non solo. Dopo il suo omicidio si è snodata una vicenda giudiziaria raccapricciante zeppa di intoppi, ritardi, collusioni, depistaggi, atti annullati dal lento scorrere del tempo. Sono in molti a sospettare connivenze e ammiccamenti tra i famosi "poteri forti". Indagini fin dall'inizio tolte alla Polizia per delegarle ai Carabinieri del Nucleo Operativo di Messina, che avevano ipotizzato si trattasse di omicidio passionale.

Il primo rinvio a giudizio arriva nel 1989, ma a causa della mancata notifica della comunicazione necessaria, la Corte d’Assise di Messina dichiara la nullità degli atti e soprattutto dell’ordinanza di rinvio a giudizio. Poi, nel 1990, la prima sentenza di non luogo a procedere nei confronti dei due imputati. Il caso venne riaperto solo nel 1996, prendendo in considerazione le testimonianze di alcuni pentiti. La Procura di Messina revoca la sentenza di proscioglimento e riapre le indagini. La sentenza di primo grado arriva nel dicembre 2004 e condanna all’ergastolo Alberti Jr e Sutera per l’omicidio di Graziella e, per favoreggiamento, la collega Agata Cannistrà e la titolare della lavanderia Franca Federico. I giudici di Messina però, dopo quasi due anni, non depositano le motivazioni della la sentenza nei termini previsti, tanto da far annullare per decorrenza dei termini la custodia cautelare per Alberti.

Ora la sospensione della fiction suona come l’ennesima beffa. La sceneggiatura è stata scritta con l'aiuto della famiglia Campagna e soprattutto di Pietro (il fratello carabiniere che non si è mai arreso continuando a chiedere giustizia) e dell'avvocato Fabio Repici che ha curato gli interessi di parte civile della famiglia. Il regista Graziano Diana, al suo debutto nella regia, è stato autore di sceneggiature che hanno portato sul grande schermo mafia e misteri all’italiana. Al suo attivo ha film di grande successo popolare e di critica, come “Ultras” sul tifo calcistico, “La scorta” e “Un eroe borghese”, sulla vicenda dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso da un killer della mafia nel 1979.

Ma tutto ciò può turbare lo svolgimento del processo, dicono i giudici, appoggiati dal ministro e dal direttore generale della Rai. Intanto montano le polemiche e Viale Mazzini fa sapere che la fiction andrà in onda il prossimo 24 febbraio. Per il guardasigilli, tuttavia, non è ancora sufficiente. Le polemiche attorno alla vicenda Campagna non si sono ancora calmate quando eccolo tuonare contro un’altra fiction, Il capo dei capi che racconta la storia di Totò Riina e che secondo lui avrebbe dovuto essere sospesa. Fa sapere di non condividere la fiction su Totò Riina, conclusasi con un record di ascolti pochi giorni fa, insistendo sul fatto che secondo lui si corre il rischio di innescare deliri da emulazione. Come ce ne fosse bisogno, ci sarebbe da aggiungere.

E’ un fatto risaputo che nel nostro paese esiste una cultura mafiosa radicata che si sovrappone in alcuni casi alla sensazione che il boss sia in qualche modo percepito come personaggio temuto ma di successo. Laddove lo Stato latita si verifica proprio questa pericolosa sovrapposizione.

Restano le dichiarazioni al riguardo del guardasigilli: "Non credo che la tv, neppure quella privata, possa inneggiare al Capo dei capi. Non credo si possa battere la mafia se non crescono certi valori nella società. Questa fiction fornisce una pedagogia all’inverso. Il Capo dei capi è un farabutto e basta. Non vorrei che una fiction come questa fornisse dei modelli da emulare".

Ma il copione è ormai noto. Se il direttore generale Cappon spiega che “abbiamo avuto una richiesta ed è la prima volta che accade nella storia dell’azienda” sappiamo tutti come trasmissioni scomode e inchieste giornalistiche siano state nel mirino di un servizio pubblico che si risolve sempre più nell’emulazione della tv commerciale di basso profilo.

Resta da chiedersi come si sia finiti con il domandarsi oggi e da più parti se sia il caso di parlare di mafia, rappresentarla per ciò che è anche attraverso la fiction, raccontarla al grande pubblico oppure no. Resta da chiedersi cosa spinge, ad esempio, un autorevole scrittore siciliano come Andrea Camilleri a dichiarare che "ritengo che l'unica letteratura che tratti di mafia debba essere quella dei verbali di polizia e carabinieri e dei dispositivi di sentenze della magistratura. A parte i saggi degli studiosi".

Il dibattito sfociato proprio su questa opportunità è un inversione di quella tendenza che negli ultimi anni ha convinto tutti che il tessuto sociale sul quale cresce fertile la cultura mafiosa sia da disinnescare con la conoscenza della mafia stessa. Raccontare non esaurisce solo il diritto all’informazione, bensì consente la comprensione del fenomeno e la consapevolezza nella gente. Così almeno ci avevano detto.


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