di mazzetta

Con la terza vittoria consecutiva dell'AKP e di Erdogan, si può considerare compiuta e matura la transizione della Turchia dal governo sotto tutela dei militari a una democrazia funzionante secondo gli standard europei. Condizione da soddisfare per accedere a pieno titolo nell'Unione Europea, ma soprattutto un guadagno netto per i cittadini turchi, che da un decennio di governi Erdogan hanno ricavato pace sociale e un indubbio sviluppo economico.

Queste ultime elezioni, pur assegnando la maggioranza assoluta dei consensi al partito islamico, hanno probabilmente segnato il limite massimo di penetrazione dell'AKP nella società turca. Il restante quasi 50% dell'elettorato è rappresentato da un partito repubblicano al 25%, un'estrema destra fascista e nazionalista che resiste al 16% e dal voto dell'elettorato curdo, che è riuscito comunque a eleggere qualche decina di parlamentari come indipendenti, per aggirare la clausola di sbarramento.

L'AKP può costituire un governo monocolore, ma non ha i numeri per procedere a riforme costituzionali senza passare per le forche caudine dei referendum confermativi e dovrebbe rendersi conto che il consenso di della metà dei turchi è il massimo cui può aspirare ed è, nello stesso tempo, tantissimo. Forte come non mai, Erdogan si è mosso con accortezza in questi anni ed è riuscito a rendere la Turchia un paese attivo e considerato sulla scena internazionale, in particolare sul delicatissimo scacchiere mediorientale. Erdogan non è mai apparso eccezionale, ma se l'è cavata con dignità in situazioni molto difficili e di questi tempi non è facile trovare leader e paesi che riescano a non perdere la faccia in mezzo agli stravolgimenti politici vicini e lontani.

Lo sviluppo economico di questi anni ha reso più forte il suo partito, finora molto simile a una Democrazia Cristiana di stampo islamico, eccessi bigotti compresi, ma ha fatto crescere moltissimo anche il resto della società turca secolarizzata, che si è emancipata in gran parte dalla tutela dell'esercito.

Militari che, da tempo, non hanno più occasione di atteggiarsi a protettori della laicità della repubblica turca e nell'ultimo decennio hanno perso peso sotto i colpi di numerosi scandali e della pressione europea, che governi militari o controllati dai militari in Europa non li vuole.

Peccato che l'anticamera per la Turchia sia destinata a durare fino a quando non si sfogherà l'ondata di consensi per la destra xenofoba europea, ormai unico vero ostacolo all'adesione turca all'UE. E peccato anche che i turchi se ne sentano giustamente offesi, non lo meritano.

In casa la quiete con i curdi regge, anche se non si può dire consolidata e le domande dei curdi sono ancora lontane dall'avere soddisfazione; ma oltre i confini turchi ci sono il Caucaso, l'Iran, l'Iraq e la Siria che adesso sforna migliaia di profughi. La Turchia resta una porta aperta verso i regimi difficili, in particolare quelli minacciati dalla primavera araba e quello iraniano, che però fino ad ora hanno educatamente rifiutato le mediazioni turche e hanno preferito giocare il tutto per tutto.

Anche la storica alleanza con Israele, costruita dal regime militare, è stata interpretata con misura e maggiore indipendenza di giudizio, tanto che è proprio nei momenti di frizione con Israele che Erdogan ha guadagnato punti presso le cancellerie occidentali, riuscendo ad affermare le ragioni del suo paese con grande dignità e misura.

Anche con la Siria Erdogan ha agito con il tempismo giusto e senza turbare nessuno dei numerosi occidentali dalle strane pretese. Prima ha avvicinato il governo di Assad e cercato di accompagnarlo per anni nella direzione gradita agli Stati Uniti, poi l’ha mollato all'unisono con l'Europa associandosi alla condanna britannica del regime quando il regime si è fatto sordo agli inviti a non massacrare i siriani. Facendo per di più una discreta figura, non come i voltafaccia del governo italiano su Gheddafi, Ben Alì e Mubarak. Erdogan non lo deride nessuno.

A meno di evoluzioni imprevedibili, l'AKP è destinato a rimanere a lungo il primo partito turco, ma  anche se il terzo mandato di Erdogan si dovesse confermare all'altezza dei due precedenti, non sembra proprio che ci sia da temere la trasformazione di uno stato islamico sul Bosforo.

Per ora, pur nella vittoria di un partito d'ispirazione confessionale, ci sarebbe da festeggiare la nascita di una democrazia compiuta, per le paranoie contro lo “Stato islamico di Turchia” e l'invasione dei musulmani in Europa non è tempo e non è luogo e si può sperare che non lo diventi mai.

 

 

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