di Michele Paris

La missione in Medio Oriente del nuovo inviato dell’ONU e della Lega Araba per la Siria, il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, prende il via questa settimana in un clima di crescenti tensioni e con le principali potenze occidentali che stanno moltiplicando i loro sforzi per cercare di rovesciare il regime di Bashar al-Assad. I governi che si adoperano per la fine di quest’ultimo continuano a sostenere materialmente i “ribelli” siriani nonostante si moltiplichino le prove di una massiccia presenza tra le loro fila di estremisti islamici, così come i resoconti di atrocità commesse contro civili e membri delle forze di sicurezza.

Il sostituto di Kofi Annan è giunto lunedì al Cairo per incontrare i vertici del governo egiziano e della Lega Araba ed ha annunciato che si recherà a Damasco nei prossimi giorni, dove incontrerà il presidente Assad. Le difficoltà che attendono il veterano algerino della diplomazia internazionale nel suo nuovo incarico sono tuttavia enormi ed egli stesso ha riconosciuto gli ostacoli che troverà sulla sua strada e che hanno portato alle dimissioni del suo predecessore.

Infatti, mentre Brahimi e il piano di pace che dovrebbe promuovere raccolgono il sostegno nominale degli Stati Uniti e dei loro alleati, questi ultimi stanno facendo tutto il possibile per soffocare sul nascere qualsiasi speranza di una risoluzione negoziata del conflitto.

La contraddizione è stata sottolineata qualche giorno fa anche dal governo di Damasco che ha risposto duramente alla precedente dichiarazione della Francia di voler aumentare gli aiuti diretti ai ribelli, ufficialmente sotto forma di assistenza umanitaria e di materiali per la ricostruzione, in cinque città sotto il loro controllo. Il portavoce del ministero degli Esteri siriano ha accusato l’ex potenza coloniale di “schizofrenia”, dal momento che essa afferma di volere una soluzione pacifica e contemporaneamente fornisce appoggio alla rivolta armata contro Assad, contribuendo di fatto ad alimentare le violenze nel paese.

Proprio il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, inoltre, assieme al suo omologo italiano, Giulio Terzi, la settimana scorsa hanno inviato una lettera alla responsabile della diplomazia europea, Catherine Ashton, sollecitando un maggiore impegno in Siria. Terzi e Fabius hanno anche chiesto un vertice straordinario dei ministri degli Esteri UE a margine dell’annuale riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU, in programma questo mese a New York. Nel corso di un vertice UE andato in scena a Cipro, infine, i partecipanti hanno deciso di adottare ulteriori sanzioni contro Assad e la sua cerchia di potere.

Dietro la retorica dei diritti umani e la volontà di favorire la ricostruzione dell’economia e delle istituzioni siriane, i due ministri hanno manifestato dunque tutta la loro impazienza per il protrarsi di una crisi che essi stessi, assieme agli USA, alla Gran Bretagna e agli alleati nel mondo arabo, hanno contribuito in maniera determinante ad infiammare, così da far cadere un regime che rappresenta un ostacolo all’espansione dell’influenza occidentale in Medio Oriente.

A questo scopo, i governi e i principali media allineati alla posizione americana continuano incessantemente a dipingere la situazione in Siria come un conflitto che mette di fronte un regime sanguinario ad un’opposizione pacifica che si batte per un futuro democratico.

In realtà, nulla potrebbe essere più lontano dal vero. L’Occidente e paesi come Turchia, Arabia Saudita e Qatar sono ben consapevoli che quello in corso in Siria è ormai un conflitto settario e che la rivolta contro Assad è condotta da gruppi armati di varia natura, poco o per nulla popolari nel paese, tra cui svolgono un ruolo fondamentale numerosi guerriglieri fondamentalisti sunniti affiliati a gruppi terroristici come Al-Qaeda.

Se pure Washington sembra manifestare qualche dubbio o timore circa la presenza di terroristi tra i ribelli, l’amministrazione Obama utilizza senza troppi scrupoli queste formazioni estremiste per dare un spallata al regime di Damasco. Tale politica, va ricordato, viene messa in atto dopo che per più di un decennio la lotta senza quartiere al terrorismo di matrice islamica ha rappresentato la motivazione ufficiale per giustificare gli abusi e le guerre lanciate dagli Stati Uniti su scala planetaria in seguito agli attentati dell’11 settembre.

A confermare il profilo inquietante dell’opposizione siriana è stata, tra l’altro, anche una recente intervista rilasciata alla Reuters da un medico francese di ritorno dal paese mediorientale. Il 71enne Jacques Bérès fa parte di "Medici Senza Frontiere" ed ha svolto opera di volontariato in un ospedale controllato dai ribelli ad Aleppo. Bérès si è detto sorpreso dal numero di militanti islamici provenienti dall’estero e che si sono uniti alla battaglia contro Assad.

Secondo il medico transalpino, costoro non sarebbero tanto interessati alla caduta del regime, quanto al modo con cui “prendere il potere e creare uno stato islamista in cui viene applicata la Sharia”. Da quanto ha potuto osservare sul campo, poi, dei circa 40 pazienti curati ogni giorno, il 60% erano combattenti armati, la metà dei quali stranieri.

Il New York Times ha inoltre pubblicato un’intervista ad un giovane libanese che, al confine con la Siria, facilita l’ingresso in questo paese di guerriglieri estremisti. Secondo il giovane, tra coloro che vanno ad ingrossare le fila della rivolta ci sono moltissimi stranieri - sauditi, americani ed europei - e tutti invariabilmente sostengono di volersi battere per la “jihad”.

Negli ultimi giorni sono stati caricati in rete anche svariati filmati che documentano vere e proprie esecuzioni di soldati dell’esercito regolare per mano di gruppi ribelli. Queste testimonianze si aggiungono ad altre delle scorse settimane che avevano mostrato come a cadere vittima della giustizia sommaria dei guerriglieri anti-Assad erano civili accusati di aver collaborato con le forze del regime.

Simili episodi hanno spinto lunedì l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ad affermare nel corso di un suo intervento a Ginevra che anche i membri dell’opposizione armata potranno essere perseguiti per gli abusi di cui si stanno rendendo protagonisti. L’ex giudice della Corte Penale Internazionale ha ricordato che in Siria sono in aumento le violazioni dei diritti umani da parte dei ribelli, inclusi rapimenti ed esecuzioni sommarie, perciò “le forze di opposizione non devono illudersi di poter rimanere immuni dai processi”.

In realtà, in caso di caduta di Assad e con l’instaurazione di un nuovo regime più docile al volere dell’Occidente, i ribelli non avranno nulla da temere dalla giustizia internazionale, proprio come è accaduto in Libia, dove i crimini dei “rivoluzionari” appoggiati dalla NATO sono tuttora impuniti, nonostante le abbondanti prove di violenze e assassini ai danni di presunti sostenitori del regime, di immigrati di colore e dello stesso Gheddafi durante l’assedio di Sirte.

In questo scenario, ben poche possibilità di riuscita sembra avere la più recente iniziativa diplomatica per risolvere la crisi siriana, cioè quella lanciata dal governo islamista egiziano. Il presidente, Mohamed Mursi, ha ricevuto lunedì al Cairo alcuni diplomatici di Iran, Arabia Saudita e Turchia, con i quali dovrebbe gettare le basi per colloqui di alto livello da tenere nei prossimi giorni con i rispettivi ministri degli Esteri.

Le profonde divisioni e gli interessi in gioco in Siria, con l’Iran da una parte e l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Turchia dall’altra, trasformeranno però con ogni probabilità il vertice del Cairo nell’ennesimo sterile tentativo di fermare le violenze, tanto che, secondo la maggior parte degli osservatori, l’incontro sembra essere soltanto un tentativo da parte del presidente Mursi di risollevare l’immagine del proprio paese nella regione.

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