di Michele Paris

La diffusione in rete del filmato che ha documentato la decapitazione del secondo giornalista americano in due settimane per mano dei militanti fondamentalisti dello Stato Islamico (ISIS) è stata subito sfruttata negli Stati Uniti e non solo per giustificare un maggiore coinvolgimento in Iraq e una sempre più probabile azione militare in Siria.

Il video della brutale esecuzione è stato giudicato autentico nella prima mattinata di mercoledì dall’intelligence americana ma, ancor prima di questa conferma ufficiale, politici e media da entrambe le sponde dell’oceano non avevano perso tempo a lanciare appelli all’amministrazione Obama per intensificare il proprio intervento in Medio Oriente contro i jihadisti sunniti.

Quasi tutti i giornali “mainstream” in Occidente hanno dato conto tra martedì e mercoledì delle voci di coloro che chiedono un’azione più incisiva, riportando quasi parola per parola lo stesso commento in relazione al filmato dell’ISIS e cioè che quest’ultimo non fa che aumentare le pressioni sul presidente Obama per ordinare bombardamenti aerei sull’organizzazione terroristica in territorio siriano.

Negli Stati Uniti, numerosi membri del Congresso hanno chiesto apertamente una strategia bellica da implementare con urgenza in Medio Oriente, facendo eco ai guerrafondai d’oltreoceano che in questi giorni stanno invocando l’invio di armi al regime golpista ucraino.

Il senatore democratico Bill Nelson della Florida, da dove veniva il giornalista ucciso, in qualità di membro della commissione per le Forze Armate, ha così annunciato di volere presentare una legge che autorizzi il presidente a ordinare attacchi aereri sulla Siria. Questa iniziativa giunge pochi giorni dopo che a Washington era infuriato il dibattito sull’opportunità da parte della Casa Bianca di procedere con l’allargamento del fronte di guerra in Medio Oriente con o senza il via libera del Congresso.

Alla Camera dei Rappresentanti, invece, il presidente della commissione Esteri, il repubblicano Ed Royce, ha fatto appello agli alleati degli Stati Uniti, raccomandando un’accelerazione delle forniture di armi ai peshmerga curdi e, anch’egli, bombardamenti mirati contro le postazioni dell’ISIS in Siria.

Al coro si sono aggiunti anche il primo ministro britannico, David Cameron, e quello australiano, Tony Abbott, i quali, oltre a minacciare iniziative belliche, hanno fatto a gara nel condannare nella maniera più ferma possibile la barbara uccisione del giornalista americano.

La decapitazione del 31enne free-lance Steven Sotloff, così come quella avvenuta il 19 agosto scorso di James Foley, è senza dubbio la conferma del carattere ultra-reazionario dei fanatici dell’ISIS che operano in Iraq e in Siria. Tuttavia, le reazioni di sdegno dei leader occidentali non devono in nessun modo ingannare.

Per cominciare, le atrocità commesse dall’ISIS non sono cosa nuova. Il gruppo armato fondamentalista è responsabile di esecuzioni sommarie (decapitazioni comprese) nei confronti di civili, membri di minoranze religiose e soldati dell’esercito regolare in Siria. Questi atti, compiuti a partire dai mesi succesivi all’esplosione della “rivolta” contro il regime di Damasco, erano stati tutt’al più citati senza nessuna critica sui media occidentali e mai condannati dai governi che oggi mostrano tutta la loro indignazione.

Malgrado le riserve, d’altra parte, l’ISIS e altre formazioni integraliste - come il Fronte al-Nusra, ufficialmente affiliato ad al-Qaeda - facevano e fanno parte dell’opposizione anti-Assad, sponsorizzata, finanziata e armata proprio dagli USA e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente, la cui versione dei fatti in Siria fino a poco fa classificava in gran parte questi stessi gruppi come guerriglieri per la libertà e la democrazia.

Solo dopo che l’ISIS è dilagato in Iraq, minacciando il governo di Baghdad e quello autonomo curdo, Washington ha suonato l’allarme e denunciato l’ennesima minaccia terroristica, sostanzialmente però, come di consueto, di propria fabbricazione.

Il nuovo spietato nemico è servito così a riportare un contingente di soldati americani in un Iraq da tempo sotto l’influenza iraniana e, in fin dei conti, a trascinare gli Stati Uniti sulla soglia di un intervento armato in Siria che sembrava essere stato scongiurato esattamente un anno fa con l’accordo tra Mosca e Washington per la rimozione dell’arsenale chimico di Damasco.

Se in Iraq gli USA hanno già condotto oltre 120 incursioni aeree contro l’ISIS a partire dalla decapitazione di James Foley, Obama ha per ora autorizzato solo voli di ricognizione in Siria che appaiono però il preludio a bombardamenti che potrebbero essere imminenti. Al contrario di quanto suggerirebbe la logica, il governo americano ha escluso ogni collaborazione con le forze di Assad nella guerra all’ISIS, prospettando quindi un intervento in Siria che possa avere come possibile obiettivo finale proprio la deposizione del regime.

Intanto, martedì la Casa Bianca ha annunciato l’invio in Iraq di altri 350 militari, ufficialmente per contribuire alla difesa dell’ambasciata americana a Baghdad, portando a oltre mille il numero complessivo di propri uomini nel paese. Lo stimolo ad agire sembra venire anche dalla polemica iniziata la scorsa settimana, quando Obama era stato criticato da più parti sul fronte interno per avere affermato che la sua amministrazione non aveva ancora predisposto una strategia d’azione per contrastare l’ISIS.

Della decapitazione di Sotloff, Obama è stato informato a Tallin, in Estonia, nell’ambito di una trasferta europea con al centro dell’attenzione la crisi in Ucraina e le minacce alla Russia. In una conferenza stampa con il presidente del paese baltico, Toomas Hendrik Ilves, l’inquilino della Casa Bianca ha promesso vendetta, sostenendo che gli USA “non si faranno intimidire” da simili gesti di violenza.

Sempre da Tallin, il presidente democratico ha poi fatto sapere mercoledì che utilizzerà il vertice NATO in Galles di questa settimana per convincere gli altri paesi dell’Alleanza a unire le proprie forze contro i jihadisti, così da “continuare a restringere la sfera d’influenza dell’ISIS, la sua efficacia, le sue fonti di finanziamento e le sue capacità militari fino a ridurlo a un problema gestibile”.

Il totale naufragio della strategia occidentale in Medio Oriente, che sta destabilizzando in maniera preoccupante l’intera regione, sta avendo riflessi inquietanti anche sul fronte domestico in Occidente. Gli assassini dei due giornalisti americani, a quanto sembra eseguiti materialmente da un jihadista di nazionalità britannica, hanno spinto ad esempio il governo conservatore di Londra non solo a minacciare a propria volta bombardamenti aerei sull’ISIS in Siria, ma anche a dare un’ulteriore stretta ai diritti civili in patria.

La Gran Bretagna, infatti, nei giorni scorsi ha annunciato misure più restrittive per i propri cittadini che viaggiano o intendono viaggiare verso paesi dove sono attivi gruppi fondamentalisti, visto che svariate centinaia di britannici si sono già uniti all’ISIS per combattere in Iraq e in Siria. Anche in questo caso, l’indignazione di Londra è solo a uso e consumo del pubblico, poiché la Gran Bretagna, come altri paesi alleati, quanto meno non aveva scoraggiato i viaggi dei militanti stessi verso il Medio Oriente, dal momento che questi ultimi andavano a unirsi a una guerra contro il regime di Assad che li vedeva alleati del loro governo.

Il coinvolgimento del governo Cameron in Iraq e in Siria, in ogni caso, potrebbe ricevere un’ulteriore accelerazione nel prossimo futuro, se a subire la sorte di Foley e Sotloff dovesse essere l’ostaggio britannico nelle mani dell’ISIS, David Haines, anch’egli minacciato di morte questa settimana nel filmato della decapitazione del secondo giornalista americano.

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