di Mario Lombardo

A differenza di quanto promesso a partire dal 2009 dal presidente Obama, la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan continuerà a protrarsi ancora a lungo e farà anzi segnare un’escalation degli scontri e delle violenze nel prossimo futuro. Questo è il senso della decisione presa qualche giorno fa dalla Casa Bianca e che garantisce maggiore discrezione ai vertici militari USA per partecipare alle operazioni belliche delle forze armate indigene contro gli “insorti” Talebani.

La guerra in Afghanistan sembra continuare a rappresentare poco più di un dettaglio per l’opinione pubblica internazionale, ma il governo di Washington e il Pentagono stanno da tempo apportando importantissime modifiche ai precedenti piani di “disimpegno” da questo paese dell’Asia centrale, in modo da assecondare l’evoluzione del quadro strategico della regione in base agli interessi degli Stati Uniti.

Il cambiamento più significativo consiste nella facoltà assegnata alle truppe di occupazione di prendere parte ai combattimenti dell’esercito regolare afgano contro i Talebani. La nuova autorizzazione non riguarda solo le forze di terra, bensì anche quelle aeree. Secondo quanto riportato dal New York Times, “i bombardamenti aerei non avranno più soltanto una funzione difensiva”, poiché “i comandanti americani potranno ricorrervi quando lo riterranno necessario” per colpire le forze talebane.

In precedenza, a partire dall’annunciata cessazione delle operazioni di combattimento da parte delle forze USA a fine 2014, il contingente residuo rimasto in Afghanistan aveva ufficialmente soltanto compiti di addestramento e poteva tutt’al più fornire “assistenza” alle forze speciali di Kabul durante operazioni “anti-terrorismo”.

La decisione di Obama sarebbe stata presa dopo un’elaborata discussione all’interno del governo e con i vertici militari, ma in realtà la nuova impennata delle operazioni belliche in Afghanistan era in preparazione da tempo. Gli eventi degli ultimi mesi, in particolare, hanno evidenziato la persistente fragilità del governo di Kabul del presidente, Ashraf Ghani, la cui sopravvivenza come strumento degli interessi americani può essere garantita solo da un rilancio dell’impegno militare di Washington.

Il presunto relativo disimpegno dall’Afghanistan propagandato da Obama avrebbe potuto concretizzarsi soltanto con la stabilizzazione del governo e della situazione interna. In uno scenario simile, gli Stati Uniti si sarebbero garantiti il controllo del paese e delle rotte energetiche e commerciali, al centro delle quali è posizionato, nella migliore delle ipotesi con uno sforzo militare e finanziario minimo.

Il continuo precipitare della situazione interna, in seguito all’avanzata dei Talebani, e l’acuirsi delle tensioni a livello regionale, principalmente proprio a causa della dissennata e spesso confusa politica estera dell’amministrazione Obama, hanno però rimesso in discussione questo progetto. La Casa Bianca e il Pentagono si sono visti così costretti a ripiegare nuovamente sulla soluzione bellica, in una spirale distruttiva che non vede esito diverso dalla perpetuazione del caos in un paese già devastato da quasi quindici anni di guerra.

Che l’attribuzione di maggiori responsabilità in combattimento alle forze di occupazione non sia un dettaglio insignificante o un evento isolato è confermato anche da un’altra probabile imminente decisione di Obama sull’Afghanistan. Citando fonti governative, questa settimana i media americani hanno dato l’impressione dell’esistenza di un dibattito interno anche sul piano di ridimensionamento del contingente di occupazione.

Obama, nel quadro del già ricordato “disimpegno” dalla guerra in Afghanistan, aveva promesso di portare da circa 10 mila a 5.500 il numero di soldati USA nel paese entro la fine dell’anno scorso, mentre per il dicembre 2016 la presenza militare sarebbe stata limitata agli uomini necessari alla difesa delle rappresentanze diplomatiche americane.

A ottobre 2015, però, questo piano era già stato stravolto e Obama, cercando disperatamente di minimizzare le nuove disposizioni, aveva annunciato il rinvio della riduzione delle forze di occupazione alla fine del 2016 o all’inizio del 2017, in concomitanza cioè con il suo addio alla Casa Bianca. In quell’occasione, pur avvertendo che l’aggiustamento della strategia afgana non sarebbe stato l’ultimo, il presidente aveva assicurato che le truppe nel paese centro-asiatico avrebbero continuato a non avere compiti di combattimento.

Se quest’ultima promessa è saltata qualche giorno fa, nelle prossime settimane si attende la marcia indietro anche sui tempi della riduzione del numero delle truppe di occupazione. La decisione dipenderebbe dal risultato di una valutazione in corso della situazione in Afghanistan condotta dal nuovo comandante delle forze USA in questo paese, generale John Nicholson.

Il clima venutosi a creare attorno alle sorti della guerra, le pressioni dei militari e la recente direttiva firmata da Obama rendono però praticamente certo un altro rinvio del ridimensionamento del contingente di occupazione. La decisione ufficiale potrebbe essere annunciata in occasione del summit della NATO in programma a Varsavia l’8 e il 9 luglio prossimo.

A spingere per il mantenimento dei circa 9.800 soldati attualmente in Afghanistan anche dopo il gennaio 2017 sono stati anche alcuni ex generali e diplomatici americani, i quali hanno indirizzato recentemente una lettera aperta al presidente Obama, invitandolo a rimandare indefinitamente la riduzione del numero delle truppe. Più che un intervento indipendente, quest’ultima mossa sembra essere un’operazione concordata con la Casa Bianca per dare una qualche copertura alla decisione di Obama di fare marcia indietro dalla promessa di porre fine a una guerra che dura dall’autunno del 2001.

Il rilancio delle operazioni belliche USA in Afghanistan non è comunque determinato soltanto da fattori indipendenti dalla volontà americana. Anzi, Washington ha agito e continua ad agire attivamente per creare condizioni che facciano apparire inevitabile la permanenza di un cospicuo contingente militare in Afghanistan.

In questo senso va letta l’eccezionale decisione di assassinare con un missile lanciato da un drone il leader dei Talebani, Mullah Aktar Mansour, il 21 maggio scorso. Il raid era avvenuto in territorio pakistano al di fuori delle aree tribali di confine con l’Afghanistan, dove operano solitamente i droni americani con il tacito consenso del governo di Islamabad, il quale ha infatti immediatamente manifestato la propria irritazione.

L’uccisione di Mansour ha rappresentato secondo molti un messaggio esplicito di Washington alle parti coinvolte nelle difficili trattative per portare i Talebani e il governo-fantoccio di Kabul al tavolo delle trattative e, in particolare, alla Cina e al Pakistan. Evidentemente, le discussioni in corso avevano convinto gli Stati Uniti dell’impossibilità di impostare gli eventuali colloqui di pace sui binari desiderati per la salvaguardia dei propri interessi strategici nella regione.

La decisione di colpire il numero uno dei Talebani, favorendo l’installazione di un nuovo leader considerato un fautore della linea dura, ha posto così le basi per un inasprimento del conflitto e il raffreddamento del Pakistan nei confronti di un possibile processo diplomatico.

Il riassestamento della strategia americana in Afghanistan, incrociandosi con la cosiddetta “svolta” asiatica finalizzata all’accerchiamento e al contenimento della Cina, costituisce dunque un ulteriore fattore di destabilizzazione per i già precari equilibri che caratterizzano l’Asia centrale.

La conferma di questa preoccupante evoluzione si è avuta dagli scontri registrati a inizio settimana tra le forze armate di Pakistan e Afghanistan. I militari dei due paesi si sono scambiati colpi di artiglieria nell’area di confine di Torkham, risultando in un numero imprecisato di feriti e provocando la morte di almeno un agente di frontiera afgano e di un ufficiale dell’esercito pakistano.

I combattimenti sarebbero esplosi in seguito alla costruzione in territorio pakistano di una barriera di confine, a cui l’Afghanistan si oppone perché in violazione di un accordo che prevederebbe la cooperazione tra i due paesi nella realizzazione di strutture di qualsiasi genere nelle aree di frontiera.

Gli scontri s’inseriscono però in un’atmosfera di crescenti tensioni e di deterioramento delle relazioni bilaterali, la cui origine va ricercata principalmente proprio nelle manovre destabilizzanti condotte dagli Stati Uniti nella regione centro-asiatica.

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