L’evoluzione del quadro siriano, seguita all’invasione delle forze armate turche e delle milizie islamiste appoggiate da Ankara, continua a indicare il possibile formarsi di un quadro generale destinato a stabilizzare, nel breve o medio periodo, questa porzione di territorio del paese mediorientale in guerra dal 2011. Forze contrastanti contribuiscono però a rendere precari i piani di Putin, Erdogan e Assad, non solo a causa degli interessi non completamente allineati dei tre leader e dei loro paesi, ma anche e soprattutto per il ruolo degli Stati Uniti.

Il fattore che maggiormente influisce sul persistere di una situazione confusa in Siria nord-orientale è rappresentato dalle fortissime pressioni esercitate sulla Casa Bianca da quegli ambienti di potere americani decisamente contrari a un disimpegno dalla Siria, auspicato dal presidente Trump con l’avvicinarsi della campagna elettorale del 2020.

Queste spinte sono alla base della decisione di Trump, rivelata dal New York Times nella serata di domenica, di rinunciare a una smobilitazione completa dei militari USA in Siria e di mantenere sul campo almeno 200 uomini delle forze speciali, con ogni probabilità al confine con l’Iraq. Il parziale passo indietro del presidente americano, se confermato, ricorda quello di quasi un anno fa, quando l’annuncio del ritiro dei duemila uomini stanziati senza alcun fondamento legale in Siria fu seguito da accesissime polemiche, culminate nelle dimissioni del segretario alla Difesa Mattis, e da un sostanziale contrordine di lì a qualche settimana.

Anche lo stesso presunto accordo di settimana scorsa ad Ankara tra Erdogan e il vice-presidente americano, Mike Pence, che avrebbe portato alla tregua di cinque giorni tuttora in vigore, è sembrato a molti commentatori al di fuori del circuito dei media ufficiali come poco più di una messa in scena. Essa sarebbe cioè servita più che altro a Trump per allentare le pressioni bipartisan del Congresso e dei vertici militari, presi dal panico all’idea di veder svanire gli investimenti fatti sulla Siria in quasi nove anni di guerra.

I termini del cessate il fuoco, ufficialmente negoziato da Pence, prevedono un processo di de-escalation che in larga misura era già stato stabilito dalla triangolazione strategica tra Mosca, Ankara e Washington, con Damasco e Teheran sullo sfondo. In altre parole, la pausa delle operazioni turche per consentire alle milizie curde dell’YPG di ritirarsi dalla “zona di sicurezza” voluta da Erdogan non aggiunge praticamente nulla alle dinamiche già in corso e innescate dall’ingresso in Siria delle forze di Ankara dopo il sostanziale via libera di Trump ai primi di ottobre.

Salvo imprevisti tutt’altro che improbabili, il quadro che dovrebbe delinearsi vede nella migliore delle ipotesi una neutralizzazione della minaccia curda per la Turchia – vera o presunta che sia – tramite l’accordo tra l’YPG e il regime di Assad, diventato inevitabile dopo il “tradimento” di Trump. La presenza delle forze governative siriane dovrebbe appunto costituire l’assicurazione contro il separatismo curdo che Erdogan sta cercando con l’invasione oltre il confine meridionale. La riconquista di una parte importantissima di territorio da parte di Assad è stata a sua volta resa possibile sia dal ritiro del contingente americano in Siria sia dalla mediazione russa con Ankara.

Che le decisioni fondamentali vengano prese senza gli Stati Uniti è apparso chiaro anche dagli sviluppi diplomatici che hanno accompagnato il vertice tra Erdogan e Pence. Come ha ricordato la testata on-line Al-Monitor, proprio mentre il vice-presidente americano era ad Ankara per annunciare la tregua, nel palazzo presidenziale turco si trovavano anche due inviati di Putin per discutere della situazione in Siria. I diplomatici russi avevano poi riaffermato tre punti cruciali, vale a dire il “legittimo diritto” della Turchia di eliminare la “minaccia terroristica” oltre il confine meridionale e, nel contempo, il rispetto della “integrità territoriale” della Siria assieme all’impegno per la risoluzione della crisi secondo i principi fissati dal formato di Astana, a cui partecipano appunto Ankara, Mosca e Teheran.

Il governo turco, a sua volta, ha nuovamente garantito il rispetto di questi principi e, se mai ci fossero stati dubbi, lo stesso Erdogan già venerdì scorso aveva assicurato che il suo obiettivo era di giungere a un accordo con la Russia sui nodi aperti in Siria nord-orientale, aggiungendo chiaramente che un eventuale ritorno di questo territorio sotto il controllo di Assad, con conseguente ridimensionamento delle ambizioni curde, non avrebbe creato alcun problema per Ankara. Erdogan e Putin si vedranno inoltre martedì a Sochi e in molti vedono in questo vertice l’occasione per riaffermare la collaborazione dei due paesi sul fronte siriano, se non addirittura per elaborare un piano a lungo termine per la soluzione della crisi.

Da questi scenari in divenire dovrebbe o avrebbe dovuto beneficiare anche l’amministrazione Trump, finalmente in grado di chiudere o ridurre drasticamente la disastrosa, quanto illegale, avventura siriana inaugurata da Obama. Ciò è tuttavia in forte dubbio vista l’opposizione di svariate sezioni dell’apparato di potere USA, tanto più in presenza di una procedura di impeachment che minaccia seriamente la prosecuzione del mandato presidenziale.

Le mosse di Trump sulla Siria hanno infatti provocato, oltre alle critiche di democratici e repubblicani, l’intervento contro la Casa Bianca di numerosi esponenti dei vertici militari, solitamente riluttanti a partecipare al dibattito politico. Evidentemente, l’abbandono o il “tradimento” dei curdi e il possibile disimpegno dalla Siria sono visti in questi ambienti come una decisione che rischia di creare un vuoto strategico intollerabile e del quale Russia e Iran intendono approfittare, consolidando la posizione di Assad.

Nei giorni scorsi, è stato difficile tenere il conto degli alti ufficiali, più o meno recentemente ritiratisi dal servizio nelle forze armate USA, che hanno attaccato sui media in modo esplicito le politiche di Trump in Medio Oriente. Dall’ex comandante delle Operazioni Speciali, ammiraglio William McRaven, all’ex comandante delle forze di occupazione in Afghanistan ed ex direttore della CIA, generale David Petraeus, fino all’ex numero uno del Comando Centrale, generale Joseph Votel, in TV e sui giornali in molti hanno dato voce alle ansie di quanti, nel governo e nelle forze armate, temono le conseguenze del comportamento di Trump per la posizione internazionale degli Stati Uniti.

Quasi tutti hanno condannato l’abbandono degli alleati curdi, mentre è stato chiaro il risentimento per avere consegnato una sorta di assist a Putin e Assad dopo anni di operazioni pianificate per cercare di rovesciare il regime di Damasco e trascinare la Russia in un pantano che avrebbe dovuto indebolire il Cremlino.

Gli attacchi sulla Casa Bianca avrebbero ad ogni modo ottenuto il risultato quanto meno di ritardare il ritiro del contingente militare USA dal paese mediorientale e saranno proprio le manovre di questi stessi settori della classe dirigente americana a influire sulla condotta futura di Trump, determinando in buona parte il successo o il fallimento dei tentativi di stabilizzazione in corso nel sempre più intricato teatro di guerra siriano.

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