L’accelerazione impressa nel fine settimana all’offensiva contro la Cina da parte del governo americano ha scatenato la prevedibile durissima reazione di Pechino e segnato probabilmente un punto di svolta nel confronto tra le prime due potenze economiche del pianeta. Le nuove misure punitive nei confronti di Huawei rischiano però anche di trasformarsi in un boomerang per Washington, da dove, tuttavia, sembrano esserci sempre meno limiti o auto-restrizioni nel mettere in atto iniziative disperate, teoricamente volte a impedire il consolidarsi di minacce alla posizione internazionale degli Stati Uniti.

 

Nella tarda serata di venerdì, il dipartimento del Commercio americano aveva annunciato il divieto di vendita al colosso cinese di microchip realizzati utilizzando tecnologia USA. Qualsiasi transazione sarà proibita a meno che non venga esplicitamente autorizzata da una licenza dello stesso dipartimento del Commercio. La direttiva, che entrerà in vigore tra quattro mesi, riguarda i produttori di ogni paese e rappresenta un’escalation rispetto a quanto era già stato deciso lo scorso anno, quando Huawei era stata formalmente esclusa dalle forniture provenienti dalle sole compagnie americane.

La decisione dell’amministrazione Trump si è abbattuta come uno tsunami sull’industria del settore, che si regge su catene globali di approvvigionamento strettamente interconnesse. Visto anche che l’ultima provocazione americana si aggiunge a quelle in relazione al Coronavirus, il governo di Pechino ha risposto con toni accesi e aperte minacce di possibili pesanti ritorsioni, facilmente in grado di ripercuotersi su tutto il settore tecnologico.

L’organo di stampa ufficiale in lingua inglese Global Times ha parlato di vera e propria “guerra fredda tecnologica” tra i due paesi, per poi descrivere l’impulso ormai partito dalle autorità cinesi per sganciare la catena dei rifornimenti delle proprie aziende strategiche dal mercato americano. Nello stesso articolo, la testata on-line cinese ha in due occasioni definito come “virus politico americano” la strategia della Casa Bianca a sua volta diretta a boicottare le linee di approvvigionamento globali che passano in buona parte per la Cina.

Le impressioni raccolte da Global Times indicano uno stato d’animo pervaso da rassegnazione, per un percorso di scontro ormai segnato, e determinazione nell’attuare politiche industriali autonome per le quali le basi sono state già tempo gettate. Per quanto riguarda Huawei, sarà accelerata la tendenza a rifornirsi da aziende non americane, dopo che già le sanzioni dei mesi scorsi avevano spinto in questa direzione il gigante di Shenzhen.

Il governo cinese sta incoraggiando i produttori di “semiconduttori” sul proprio territorio, in modo da colmare il divario tecnologico con gli Stati Uniti. Global Times ha citato a questo proposito due investimenti, rispettivamente da 1,5 miliardi e 750 milioni di dollari, fatti da fondi governativi in concomitanza con la pubblicazione del nuovo divieto americano diretto contro Huawei.

Ciò che impressiona sono però soprattutto le minacce di ritorsioni contro gli interessi del business a stelle e strisce. Per la prima volta è apparso un riferimento a una possibile “lista nera” di compagnie USA, come Qualcomm, Cisco, Apple o Boeing, che potrebbero essere oggetto di misure restrittive o di indagini da parte cinese. L’attuale presidente di Huawei, Xu Zhijun, ha egli stesso ipotizzato misure per limitare la vendita di prodotti tecnologici americani, mentre un altro dirigente della stessa compagnia ha ricordato al governo degli Stati Uniti che la Cina odierna non è quella degli anni Novanta, ma dispone ormai della forza necessaria a creare seri problemi per l’economia USA.

Il mercato cinese rappresenta una fetta importantissima per molte di queste aziende americane. Il fatturato di Qualcomm, che produce anch’essa semiconduttori, deriva ad esempio dal mercato cinese il 65% del proprio fatturato e, come Apple o altre compagnie anche non americane ma interessate dal recente bando della Casa Bianca, appare particolarmente esposta a un intensificarsi della guerra tecnologica tra Pechino e Washington.

Questo risvolto dello scontro in atto aiuta a comprendere l’inquietudine che ha pervaso i mercati di tutto il mondo dopo l’annuncio del fine settimana relativo a Huawei. L’agenzia di stampa Bloomberg ha citato svariati analisti finanziari che si sono già affrettati ad avvertire gli investitori di probabili scosse riguardanti il “complicato ecosistema della produzione di tecnologia per il consumo e le imprese in tutto il mondo”.

La stampa internazionale ha spiegato in questi giorni come la compagnia più penalizzata dal bando dell’amministrazione Trump sia probabilmente la taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Co.), per la quale Huawei costituisce il 14% del proprio giro d’affari. Lunedì, TSMC ha perso infatti il 2,5% del proprio valore di borsa, in conseguenza del ritrovarsi al centro dello scontro tra le due superpotenze.

Proprio il giorno prima dell’annuncio delle sanzioni contro Huawei, la compagnia di Taiwan aveva dato notizia dell’apertura di un impianto da 12 miliardi di dollari nello stato americano dell’Arizona. La Reuters ha citato un’analisi di Citi, secondo la quale la scelta di TSMC non sarebbe la più conveniente, ma quella più opportuna politicamente per “alleviare i timori americani”, ovvero per allentare le pressioni del governo di Washington ed evitare contraccolpi su un mercato, come quello degli Stati Uniti, da cui ottiene il 60% dei propri introiti.

Le più recenti iniziative contro Huawei confermano ancora una volta come gli Stati Uniti intendano provare a impedire a tutti i costi l’emergere di minacce alla propria supremazia tecnologica. Nello specifico, l’ossessione per la compagnia di Shenzhen, diventata rapidamente tra le più importanti del proprio settore a livello internazionale, è da collegare anche alle difficoltà nel penetrare i suoi prodotti per la macchina della sorveglianza americana. Se gli Stati Uniti accusano infatti Huawei di essere una sorta di cavallo di Troia del governo cinese nei paesi alleati di Washington, è piuttosto il timore di perdere l’accesso a strumenti di spionaggio consolidati ad alimentare la campagna USA contro l’azienda cinese.

A preoccupare è comunque soprattutto il moltiplicarsi delle linee d’attacco contro la Cina negli ultimi mesi, in parallelo cioè all’esplodere della crisi sanitaria negli Stati Uniti e al conseguente tracollo dell’economia. Sempre settimana scorsa, il presidente Trump aveva addirittura minacciato la sospensione di “tutte le relazioni” con Pechino, nell’ennesimo tentativo di attribuire alla leadership cinese la responsabilità della diffusione dell’epidemia di Coronavirus.

Menzogne spudorate sulla gestione cinese dell’epidemia continuano a essere vendute come fatti più o meno incontrovertibili da politici e media americani e servono alla Casa Bianca per lanciare ripetute minacce utili a dirottare verso Pechino la rabbia crescente per l’incapacità del governo USA nel far fronte al drammatico diffondersi del contagio. Trump ha così agitato lo spettro di nuove misure punitive, oltre a quelle già decise contro Huawei, come la cancellazione dell’accordo commerciale firmato a gennaio con Pechino o il divieto per i fondi pensionistici americani di investire in azioni cinesi.

Da ultimo, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha minacciato nel fine settimana una possibile ultra-provocatoria revisione dello status di Hong Kong in seguito a quelle che ha definito come “interferenze” cinesi nel lavoro dei giornalisti americani nell’ex colonia britannica. L’uscita di Pompeo rappresenta il culmine di uno scontro tra i due paesi che ha riguardato appunto anche l’ambiente del giornalismo, con espulsioni reciproche di reporter e altre clamorose iniziative registrate a partire almeno dallo scorso mese di febbraio.

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