Se un accordo per il dopo Brexit dovesse alla fine esserci tra Londra e Bruxelles, è probabile che sarà siglato e finalizzato in extremis se non addirittura dopo la scadenza ufficiale del 31 dicembre prossimo. I negoziati tra il governo britannico e l’Unione Europea continuano infatti a essere prorogati vista l’impossibilità finora registrata di superare le divisioni attorno ad alcune questioni controverse. La decisione del primo ministro Boris Johnson e della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, di non rompere le trattative dopo la mancata intesa del fine settimana sembra comunque suggerire, anche se in maniera molto cauta, che una soluzione possa essere finalmente vicina.

 

Praticamente in tutte le dichiarazioni e le prese di posizione dei leader coinvolti c’è una buona dose di strategia per manovrare tra le forze contrastanti che chiedono alternativamente una linea dura oppure più morbida sia nel Regno Unito sia all’interno dell’Unione. In secondo luogo, entrambe le parti stanno cercando di fissare norme e condizioni il più favorevoli possibili per una futura relazione che, comunque si risolva, avrà riflessi negativi sia per Londra che per Bruxelles.

Johnson continua a ostentare un certo pessimismo, tanto che ancora venerdì scorso aveva giudicato “molto, molto probabile” un fallimento dei negoziati e assicurato che il suo governo sta continuando a prepararsi a una Brexit “senza accordo”, basandosi quindi sulle regole relative agli scambi commerciali stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Anche dopo l’ultimo colloquio con la von der Leyen, Johnson ha ribadito la lontananza delle rispettive posizioni, ma ha confermato la disponibilità a proseguire i negoziati ancora per qualche giorno, per poi garantire che non sarà Londra ad abbandonare il tavolo.

Il fissare scadenze apparentemente tassative per poi mancarle e proporne delle altre è stata una delle caratteristiche principali di tutto il processo della Brexit in questi quattro anni e mezzo. La posta in gioco è d’altra parte enorme e anche alcuni esponenti della fazione più anti-europeista del Partito Conservatore britannico si sono detti possibilisti circa la ratifica di un eventuale accordo con l’UE dopo il 31 dicembre 2020.

Sul fronte dell’Unione, la dichiarazione nel fine settimana a favore di un prolungamento delle trattative da parte della cancelliera tedesca Merkel ha senza dubbio contribuito a stemperare per il momento le tensioni. Johnson, tuttavia, era intenzionato a coinvolgere direttamente nei colloqui la stessa Merkel e il presidente francese Macron, ma la Commissione Europea ha respinto la richiesta. A discutere con i leader di Francia e Germania sarà invece la von der Leyen prima della ripresa dei negoziati con la delegazione britannica.

I temi attorno ai quali Londra e Bruxelles non sono ancora riusciti a trovare una convergenza sono principalmente due. Il primo è il diritto di pesca nelle acque del Regno Unito, garantito alle imbarcazioni dei paesi UE e che riguarda in gran parte i pescatori francesi. Per questi ultimi, la quota del pescato nelle acque britanniche è decisamente importante e rappresenta perciò un punto cruciale soprattutto per Parigi. A Londra, invece, la disputa viene rilanciata come una questione di sovranità e ancora nel fine settimana il ministro degli Esteri britannico, Dominic Raab, ha prospettato una linea dura sui diritti di pesca a partire dal primo gennaio, tanto più se non dovesse esserci un accordo con l’Unione.

A testimonianza dell’esplosività della questione e più in generale delle gravi tensioni tra il Regno Unito e l’Europa, il ministero della Difesa britannico ha fatto sapere che, con l’inizio del nuovo anno, quattro imbarcazioni della Marina militare di Sua Maestà saranno pronte a pattugliare le acque. Forti sono i timori di possibili scontri con i pescherecci francesi se dopo il 31 dicembre dovesse svanire il diritto di entrare nelle acque del Regno Unito, previsto finora dalle norme UE.

L’altro argomento di discussione aperto appare ancora più complicato e riguarda la parità dei livelli di competitività delle economie del Regno Unito e dei paesi UE dopo la Brexit. Lo scontro si gioca in questo caso sugli standard ambientali, sociali, dei diritti del lavoro e di altri ambiti previsti dalle norme europee e che, se non rispettati da Londra, potrebbero avvantaggiare la Gran Bretagna. Anche in questo caso, ufficialmente il governo Johnson agita il diritto del suo paese a imporre in autonomia le proprie regole.

Più che una questione di sovranità, si tratta di mettere in discussione uno degli elementi cardine della campagna pro-Brexit. I sostenitori più convinti dell’uscita di Londra dall’Unione Europea all’interno della classe dirigente d’oltremanica puntavano e continuano infatti a puntare alla creazione di condizioni super-favorevoli agli investimenti stranieri, in primo luogo attraverso la liquidazione dell’apparato di regolamentazioni previsto da Bruxelles.

La perdita dei benefici derivanti dall’accesso privilegiato al mercato europeo doveva essere appunto compensata dalla libertà di manovra nel promuovere una realtà all’insegna del turbo-capitalismo senza regole, così da fare di Londra una sorta di “Singapore sul Tamigi”. È superfluo aggiungere che a fare le spese del paradiso dell’ultra-liberismo e della deregulation finanziaria immaginato dagli anti-europeisti britannici sarebbero in particolare i diritti dei lavoratori.

D’altro canto, soprattutto nell’immediato, l’uscita definitiva dall’Unione senza un accordo comporta serie conseguenze per il Regno Unito. L’abbandono del mercato unico e del regime doganale europeo riporterebbe gli scambi commerciali sotto la normativa generica del WTO, con tutto il corollario di dazi e di aumento dei costi per il business britannico, nonché il ritorno di onerosi controlli burocratici per le merci in entrata e in uscita.

Sempre nell’ottica dei fautori della Brexit, questi aspetti negativi dovevano essere bilanciati dalla libertà riconquistata per stipulare accordi bilaterali di libero scambio con altri paesi, come in effetti è già avvenuto ad esempio con Giappone e Australia. L’obiettivo più importante in questo senso resta un possibile trattato con gli Stati Uniti, anche per ratificare un riallineamento strategico più generale di Londra. Questi piani sono stati messi però in crisi dalla sconfitta di Trump nelle presidenziali americane.

Negli ultimi quattro anni, l’amministrazione repubblicana di Washington si è data da fare per ribaltare il tradizionale approccio all’Europa degli Stati Uniti, favorendo politiche tendenti a dividere il vecchio continente e promuovendo appunto un allineamento con Londra in contrapposizione alle altre potenze europee. Con il ritorno dei democratici al potere, invece, Johnson ha visto crollare i propri piani per la Brexit, dal momento che Biden già in campagna elettorale aveva fatto capire che non avrebbe negoziato un trattato di libero scambio in assenza di un accordo con l’UE. L’amministrazione americana entrante tornerà così a prediligere il mantenimento di relazioni strette tra Regno Unito ed Europa, in modo da utilizzare il primo per influenzare le politiche della seconda.

Il primo ministro britannico, che pare abbia già avviato frenetici contatti con Biden e i suoi consiglieri, si ritrova ora dunque a rischiare pesantissime conseguenze nell’eventualità di un mancato accordo con Bruxelles, ma allo stesso tempo deve fare i conti con una parte consistente del suo partito ferocemente anti-europeista e che vede qualsiasi concessione all’Europa come un fattore in grado di far saltare la trattativa in corso. Quest’ultima posizione è inoltre osteggiata dalla maggior parte degli ambienti finanziari e industriali britannici che ritengono fondamentale per i loro interessi il rimanere agganciati al mercato unico europeo.

Per quanto riguarda l’Europa, è evidente la volontà di ridurre al minimo le concessioni al Regno Unito, in primo luogo per evitare un effetto domino in presenza di altri focolai di disgregazione all’interno di un’Unione in profondissima crisi. In gioco ci sono anche questioni di competitività in uno scenario internazionale segnato da crescenti rivalità non solo economiche, ma anche militari e strategiche. In caso di mancato accordo, perciò, da Bruxelles fanno sapere che saranno garantite solo alcune misure minime per limitare il caos, come ad esempio il libero movimento degli aerei cargo, mentre in generale sarà la linea dura a prevalere nei confronti di Londra.

Se il pessimismo di questi giorni è giustificato o meno lo si vedrà probabilmente già nel corso della settimana. La sensazione prevalente tra osservatori e commentatori è che alla fine un qualche accordo sarà sottoscritto una volta trovata una mediazione magari transitoria o comunque traballante sulla questione dei diritti di pesca e, ancor più, sulla competitività. Voci insistenti, a proposito di quest’ultima, stanno circolando da giorni. La proposta più morbida di Bruxelles potrebbe prevedere una clausola “evolutiva”, in base alla quale verrebbero fissate alcune normative di base in materia di ambiente e diritti del lavoro a cui il Regno Unito dovrebbe adeguarsi, per poi appunto “evolversi” in futuro così da evitare differenze troppo marcate tra i due sistemi.

La riuscita delle trattative sarà vincolata soprattutto alla capacità del governo Johnson di bilanciare le richieste delle due fazioni opposte del suo partito e di tutta la classe dirigente britannica. Se il Partito Laburista all’opposizione si è detto pronto ad approvare un eventuale trattato con Bruxelles, garantendo da un punto di vista matematico maggiori spazi di manovra a Downing Street, un accordo considerato troppo favorevole all’Europa potrebbe finire per spaccare il Partito Conservatore, portando forse ugualmente a compimento la Brexit ma mettendo a serio rischio la tenuta dell’esecutivo.

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