La sconfitta di Trump nelle elezioni presidenziali ha rimesso in discussione il piano di ritiro delle truppe di occupazione in Afghanistan e i negoziati di pace con i Talebani che erano scaturiti dall’accordo sottoscritto dall’amministrazione repubblicana nel febbraio dello scorso anno. Il neo-presidente Biden ha fatto intendere anch’egli di voler chiudere la più lunga delle guerre condotte dagli Stati Uniti, ma i contorni dell’eventuale disimpegno sono tutti da decifrare e non è da escludere un possibile naufragio del fragilissimo processo diplomatico in corso.

 

Secondo i termini dell’intesa, entro maggio dovrebbero lasciare l’Afghanistan i 2.500 soldati americani rimasti nel paese asiatico dopo la partenza di duemila uomini appena prima dell’addio di Trump alla Casa Bianca. L’amministrazione democratica entrante ha però fatto sapere di voler “rivedere” i contenuti dell’accordo stesso, secondo alcuni con l’obiettivo di mantenere in Afghanistan almeno un piccolo contingente militare ufficialmente con incarichi di “anti-terrorismo”.

Questo concetto lo ha espresso il nuovo segretario di Stato, Anthony Blinken, durante la sua recente audizione al Senato di Washington. L’ex funzionario dell’amministrazione Obama ha spiegato in particolare che, prima di prendere qualsiasi decisione, Biden dovrà analizzare il documento segreto annesso all’accordo con i Talebani stipulato dal suo predecessore. In questo allegato potrebbe esserci un piano per un governo provvisorio che, in parallelo a un cessate il fuoco, sostituisca quello dell’attuale presidente, Ashraf Ghani, e conduca all’integrazione dei Talebani nel sistema politico creato dopo l’invasione del 2001.

Questa ipotesi solleva il delicato problema della posizione del governo-fantoccio di Kabul, da sempre freddo alla prospettiva di trattare con i Talebani, nonostante i colloqui siano in effetti già in corso a Doha. I timori di Ghani per il proprio futuro potrebbero così sovrapporsi alle riserve dell’amministrazione Biden, anche se in quest’ultimo caso sono gli interessi strategici degli Stati Uniti a rappresentare il fattore cruciale nella decisione che dovrà essere presa.

Non c’è dubbio che il nuovo presidente americano condivida con Trump il desiderio di concludere la disastrosa avventura bellica in Afghanistan per mezzo di un accordo politico con i Talebani. La stessa predisposizione sembrano averla anche i vertici militari USA, a differenza di quanto accadde un decennio fa quando la loro influenza fu determinante nello spingere Obama ad aumentare sensibilmente il numero delle forze di occupazione. A testimoniarlo è anche l’incontro del dicembre scorso a Doha tra i rappresentanti talebani e il capo di Stato Maggiore USA, generale Mark Milley.

Il governo afgano è però già in pressing sul nuovo inquilino della Casa Bianca quanto meno per “ricalibrare” l’accordo negoziato da Trump, senza dubbio per garantirsi la sopravvivenza politica. Da qui le denunce ripetute delle violazioni dell’accordo da parte dei Talebani e il presunto mancato sganciamento degli “studenti del Corano” da organizzazioni terroristiche come al-Qaeda. Le violenze in Afghanistan sono effettivamente proseguite e nell’ultimo periodo anche intensificate, ma l’accordo del febbraio 2020 imponeva ai Talebani di astenersi soltanto da attacchi contro interessi e militari americani. La guerra contro il governo e le forze di sicurezza indigene è perciò proseguita e, anzi, i Talebani sembrano avere sfruttato la situazione creatasi attorno al processo diplomatico per avvantaggiarsi militarmente in vista di una tregua o di un trattato di pace.

Per la fine della guerra e dell’occupazione spinge anche il resto della comunità internazionale, sia pure in modo prudente. Un sintomo del raffreddamento nei confronti dell’Afghanistan è stato il contributo finanziario promesso nella recente conferenza di Ginevra sul paese occupato, in calo rispetto agli anni precedenti e secondo le Nazioni Unite insufficiente a coprire i progetti di ricostruzione e sviluppi previsti. Forze contrarie non sono tuttavia difficili da trovare e faranno probabilmente leva nelle prossime settimane su rapporti come quello di inizio anno del dipartimento del Tesoro americano, secondo il quale al-Qaeda starebbe recuperando terreno in Afghanistan grazie anche alla “protezione” e all’assistenza finanziaria dei Talebani.

Un altro segnale delle intenzioni dell’amministrazione Biden è il ricomporsi delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan. Quest’ultimo paese svolge un ruolo cruciale per la pace in Afghanistan, sia per ragioni geografiche sia soprattutto per l’ascendente che ha sempre mantenuto sui gruppi armati in guerra contro gli USA e il governo di Kabul. Il ministro degli Esteri pakistano, Shah Mahmood Qureshi, in un’intervista rilasciata settimana scorsa ad Al Jazeera ha espresso il fermo auspicio che il neo-presidente democratico segua le orme di Trump in relazione ai negoziati con i Talebani.

A Washington, il nuovo segretario alla Difesa, Lloyd Austin, ha a sua volta definito il Pakistan come un “partner essenziale in qualsiasi processo di pace per l’Afghanistan”, per poi assicurare che la nuova amministrazione americana farà “ogni sforzo” per giungere una soluzione diplomatica. Il coinvolgimento del Pakistan è da collegare non solo all’influenza di Islamabad sui Talebani, ma anche al tentativo di rallentare il consolidamento della partnership di questo paese con Pechino, determinato in questi ultimi anni dalle tensioni con Washington a causa soprattutto dell’integrazione dell’India nei piani anti-cinesi degli Stati Uniti.

In ogni caso, il vero nodo dell’occupazione afgana verrà sciolto solo dopo che gli USA avranno ricevuto sufficienti rassicurazioni circa i propri interessi. L’incognita non è tanto, come continua a spiegare la stampa ufficiale, il rispetto da parte dei Talebani delle regole democratiche o dei diritti di donne, minoranze etniche e religiose una volta rientrati politicamente in gioco. D’altra parte, gli Stati Uniti avevano appoggiato in buona parte il regime talebano prima dei fatti dell’11 settembre 2001.

Fuorviante è anche l’insistenza sulla necessità di impedire che l’Afghanistan torni a essere la base di organizzazioni terroristiche, per combattere le quali, appunto, Washington vorrebbe mantenere un contingente militare nel paese. Oltretutto, questa condizione rischia seriamente di far saltare i negoziati, come hanno fatto intendere esponenti dei Talebani in concomitanza con il passaggio di consegne alla Casa Bianca.

Ciò che determinerà la fine della guerra o, quanto meno, l’inizio della transizione verso una qualche forma di normalità è piuttosto la garanzia che gli Stati Uniti potranno continuare a esercitare una certa influenza in Afghanistan. L’America ha investito enormemente in questo paese allo scopo di instaurare una presenza in grado di promuovere e difendere i propri interessi strategici in una regione importantissima, sia per la presenza di risorse energetiche enormi sia per la posizione che occupa, al cuore stesso delle dinamiche multipolari e di integrazione euro-asiatica in atto e che vedono coinvolte potenze come Cina, Russia, Iran, India e Turchia.

In definitiva, il disimpegno militare americano e il successo del processo di pace in Afghanistan dipenderanno dagli orientamenti dei Talebani dopo il loro più che probabile ritorno al potere a Kabul, cioè se saranno disposti a garantire o meno gli obiettivi e gli interessi che sono stati fin dall’inizio alla base dell’intervento degli Stati Uniti nel loro paese.

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