La prima uscita pubblica ufficiale da segretario di Stato americano di Anthony Blinken non ha lasciato molte speranze per un rapido ritorno degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) abbandonato da Trump nel 2018. Nonostante i propositi di Biden in campagna elettorale, la nuova amministrazione democratica sembra voler imporre una serie di condizioni che, legittimamente, la Repubblica Islamica ha già respinto in partenza.

 

Il senso della posizione americana è in sostanza il seguente: le responsabilità del quasi naufragio dell’accordo di Vienna è degli USA, ma Washington non intende riparare all’errore di Trump e tornare semplicemente a farne parte. Ciò accadrà invece solo dopo che l’Iran sarà tornato a rispettare tutti i termini del JCPOA, anche se le “violazioni” di questi mesi non sono che la conseguenza inevitabile della decisione dell’ex presidente americano.

Il ribaltamento delle responsabilità tra Stati Uniti e Iran è stato spiegato questa settimana da Blinken nella prima conferenza stampa dopo la conferma del suo incarico al Senato di Washington. A ben vedere, l’ex funzionario dell’amministrazione Obama ha prospettato almeno un passo avanti. Infatti, sembra essere stata abbandonata la richiesta di includere nelle trattative per il ritorno nel JCPOA questioni come il programma missilistico convenzionale dell’Iran o le “attività maligne” di questo paese in Medio Oriente.

L’invito a Teheran per ridurre i livelli di arricchimento dell’uranio e per abbandonare i progetti di riavvio di impianti nucleari civili contestati dall’Occidente, cioè le principali iniziative adottate dopo l’uscita di Trump dall’accordo e la reintroduzione di sanzioni punitive, sono sufficienti in ogni caso a complicare la strada della diplomazia. La posizione dell’amministrazione Biden implica d’altra parte una rottura della catena di causa-effetto, attribuendo la responsabilità del fallimento dell’accordo del 2015 al solo comportamento iraniano. Secondo questa logica, una volta che Teheran tornerà al rispetto dei termini previsti dal JCPOA, Washington accetterà di fare lo stesso e, presumibilmente, di cancellare le sanzioni.

Già sul fatto che l’Iran sia disposto ad accettare queste condizioni ci sono forti dubbi. A complicare ulteriormente la situazione ci sono poi i piani futuri della Casa Bianca e del dipartimento di Stato. Sempre Blinken ha affermato che, nel caso la Repubblica Islamica torni a rispettare il JCPOA, gli Stati Uniti si adopereranno per un “accordo più forte e di più lunga durata”. In apparenza, questa sembra una proposta allettante, ma in realtà è esattamente l’opposto. Il segretario di Stato USA ha infatti aggiunto che nell’ipotetico accordo di più ampio respiro entreranno altre questioni “estremamente problematiche” e decisamente tossiche per Teheran.

Queste ultime sono le stesse che rischiavano di essere introdotte da subito nelle discussioni per cercare di rianimare l’accordo sul nucleare e, come già anticipato, corrispondono appunto alle limitazioni dei missili balistici iraniani e alla collaborazione tra la Repubblica Islamica e i suoi alleati regionali (Siria, Hezbollah, Iraq, Houthis). Per non lasciare dubbi sulle probabilità di un’intesa in tempi brevi, Blinken ha giudicato l’Iran “inadempiente su svariati fronti” e assicurato che, se anche dovesse decidere di comportarsi come desiderato da Washington, “ci vorrà del tempo” prima che ciò accada, per non parlare di quanto ci metteranno gli Stati Uniti ad accertare il cambiato atteggiamento iraniano.

Le dinamiche emerse nei primi giorni dell’amministrazione Biden sembrano dunque confermare come le differenze tra il nuovo presidente democratico e il suo predecessore relativamente all’Iran siano più di forma che di sostanza. Alla politica della “massima pressione” promossa da Trump si sta sostituendo così la tattica di agitare una proposta diplomatica, ma sempre vincolata all’accettazione di condizioni onerose imposte da Washington.

Come se non bastasse, le schermaglie sul ritorno al rispetto del JCPOA si stanno svolgendo in un clima che il nuovo governo americano sembra volere infiammare deliberatamente, anche in questo caso assecondando le mosse dell’amministrazione Trump. Ad esempio, martedì hanno sorvolato il Medio Oriente altri due B-52 dotati di armi nucleari, con l’obiettivo specifico di mettere pressione sulla Repubblica Islamica. La decisione, tutta del neo-presidente USA, fa seguito al massiccio dispiegamento di sottomarini, aerei e navi da guerra ordinato da Trump nelle settimane precedenti il passaggio di consegne alla Casa Bianca.

Da parte iraniana, è stata comunque confermata più volte la disponibilità a trattare con la nuova amministrazione americana, ma è evidente che da Teheran ci si aspetti la decisione in teoria più logica, ovvero il puro e semplice ritorno degli Stati Uniti nel JCPOA dopo le scelte disastrose fatte da Trump. Un nuovo irrigidimento da parte americana finirebbe per distruggere anche quel poco di fiducia che resta in una parte della classe dirigente iraniana, con implicazioni molto cupe per il futuro della diplomazia. Tanto più se si considera che tra pochi mesi lo spazio del dialogo potrebbe chiudersi definitivamente, visto che le elezioni presidenziali in Iran vedranno quasi di certo prevalere un candidato conservatore e anti-occidentale.

Nell’intera vicenda relativa all’Iran, la questione centrale non è ad ogni modo rappresentata dal programma nucleare di questo paese. I leader della Repubblica Islamica hanno escluso da tempo che le loro intenzioni siano quelle di dotarsi di armamenti di questo genere. In gioco ci sono piuttosto fattori che riguardano la supremazia e l’influenza strategica sul Medio Oriente. Gli stessi nemici di Teheran, nonostante i proclami ufficiali, riconoscono con ogni probabilità che il problema non sono ordigni nucleari che l’Iran non sta perseguendo e che, se anche intendesse perseguire, non sarebbero certo un’opzione realistica per gli scenari mediorientali.

Sul fronte militare, il nodo più caldo per Israele, per le monarchie sunnite del Golfo Persico e, di riflesso, per gli Stati Uniti è invece l’arsenale convenzionale dell’Iran, diventato decisamente minaccioso anche grazie alla stretta collaborazione con gli alleati regionali del cosiddetto “asse della resistenza”. È esattamente in questo ambito che si giocano le rivalità in Medio Oriente ed è anche il motivo per cui lo stato ebraico intende ostacolare il rilancio del JCPOA, temendo un accordo più ampio e a proprie spese tra Washington e Teheran.

Agitare lo spettro delle armi nucleari ha tuttavia un appeal maggiore rispetto a quelle convenzionali, soprattutto in Occidente, e consente a Israele di lanciare minacce deliranti contro l’Iran, sempre con l’obiettivo di fare pressioni sull’alleato americano. Nella partita sull’Iran, infatti, circolano sempre più anche le ipotesi di un attacco militare israeliano contro la Repubblica Islamica, addirittura in risposta al solo eventuale accordo tra Washington e Teheran sul JCPOA. L’ultima autorità israeliana a esprimersi in questo senso è stata qualche giorno fa il comandante delle Forze Armate, Aviv Kohavi, il quale ha rilanciato le accuse fantasiose sulla “bomba atomica” iraniana e promesso che il suo paese predisporrà al più presto “nuovi piani per future operazioni militari”.

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