La seconda procedura di impeachment contro l’ex presidente americano Trump entrerà nel vivo la prossima settimana con un vero e proprio processo al Senato di Washington. L’evento è di portata storica, non solo perché non è mai accaduto prima che un presidente sia stato incriminato due volte nel corso del suo mandato, ma anche e soprattutto per il contenuto e la gravità delle accuse. Malgrado ciò, il procedimento verrà sbrigato in tempi eccezionalmente rapidi e, visto il sostanziale ricompattamento del Partito Repubblicano attorno all’ex inquilino della Casa Bianca, si risolverà quasi di certo con un nuovo proscioglimento.

 

Il secondo impeachment in poco più di un anno ha provocato prevedibilmente polemiche e profonde divisioni a Washington. A differenza del primo, tuttavia, un certo numero di repubblicani lo ha appoggiato, probabilmente nella speranza di emarginare l’ex presidente e l’ala “trumpiana” del partito, sempre più protagonista di una deriva verso la destra estrema. Infatti, 14 deputati del partito di opposizione avevano votato a favore dell’impeachment nella risoluzione introdotta dai democratici e approvata dalla Camera dei Rappresentanti il 13 gennaio. Altri leader repubblicani che sembravano volere appoggiare l’impeachment, invece, hanno successivamente lasciato intendere di preparare una marcia indietro, a conferma di quanto Trump eserciti ancora un controllo decisivo sugli orientamenti del partito.

L’impianto accusatorio è stato comunque presentato questa settimana dai nove deputati democratici che, come in un processo, agiranno da pubblico ministero (“House managers”) nel dibattimento al Senato. In 80 pagine viene raccontata con estrema precisione e abbondanza di dettagli la condotta di Donald Trump fino al 6 gennaio, quando centinaia di suoi sostenitori hanno fatto irruzione nell’edificio del Congresso, minacciando i deputati e lo stesso vice-presidente Mike Pence, nel tentativo di fermare la certificazione ufficiale della vittoria di Joe Biden nelle elezioni del 3 novembre.

Nell’introduzione dell’accusa per “incitamento all’insurrezione” viene ricordato come, in tutta la storia degli Stati Uniti, non sia mai accaduto, prima di quest’anno, che un “nemico, straniero o domestico, abbia ostacolato il conteggio dei voti [elettorali] da parte del Congresso”. Ugualmente, “nessun presidente, prima di Trump, si era mai rifiutato di accettare un risultato elettorale o si era opposto ai procedimenti legali previsti per la risoluzione delle dispute” derivanti dal voto.

Oltre a descrivere i fatti del 6 gennaio, quando persero la vita quattro dimostranti e un agente della polizia del Congresso, i democratici hanno ripercorso tutta la campagna di discredito delle elezioni messa in atto da Trump. Già prima del voto, il presidente repubblicano aveva sollevato più volte la questione dei brogli, accendendo gli animi degli ambienti di estrema destra con la tesi che una sua eventuale sconfitta sarebbe stata possibile solo attraverso la manipolazione del processo elettorale da parte dei democratici.

I piani di Trump erano così proseguiti dopo il 3 novembre e anche dopo che era emerso chiaramente il vantaggio incolmabile di Biden nella manciata di stati in bilico. I ricorsi presentati davanti ai tribunali sarebbero stati poi respinti, ma Trump non ha mai ammesso la sconfitta e ha anzi continuato a sollecitare i suoi sostenitori, indirizzando speranze e aspettative sull’appuntamento del 6 gennaio. Appena prima della convocazione del Congresso, che avrebbe dovuto ratificare l’esito del voto favorevole a Biden, Trump aveva tenuto un accesissimo discorso davanti alla Casa Bianca, facendo sostanzialmente appello alla mobilitazione per “fermare il furto” delle elezioni. Nel corso del famigerato comizio, Trump aveva invitato più volte a “combattere” e a marciare sul Congresso. All’appello avevano risposto in centinaia, molti dei quali armati e decisi a usare la violenza per raggiungere il loro scopo.

Se l’atto d’accusa presentato dal Partito Democratico ricostruisce una serie di eventi che lasciano poco spazio ai dubbi sulla colpevolezza di Trump, è altrettanto vero che il procedimento di impeachment serve più a insabbiare le responsabilità e le implicazioni di quanto accaduto a Washington che a fare luce sui fatti e a punire tutti i colpevoli. Innanzitutto, fuori dal quadro complessivo restano quegli stessi deputati e senatori repubblicani che hanno assecondato le falsità di Trump sui brogli elettorali e contribuito di fatto ai tentativi di ribaltare con la forza il risultato delle urne. Alcuni di essi hanno avuto addirittura legami ben documentati con ambienti e individui direttamente coinvolti nell’assalto al Congresso.

In questa prospettiva, è stato significativo il voto di settimana scorsa su una risoluzione presentata dal senatore repubblicano “libertario” Rand Paul per neutralizzare l’impeachment. La mozione intendeva dichiarare incostituzionale il procedimento perché rivolto contro un presidente che ha già concluso il proprio mandato. La risoluzione è stata bocciata, ma a favore avevano votato ben 45 senatori repubblicani su 50, nonostante la Costituzione USA non escluda questa possibilità e ci siano precedenti storici di incriminazioni di membri del gabinetto federale dopo l’abbandono del loro incarico. In caso di condanna, a Trump sarebbe impedito di ricandidarsi alla Casa Bianca nel 2024.

In altri termini, il voto per stoppare preventivamente l’impeachment è sembrato un tentativo fatto da molti repubblicani per nascondere le loro responsabilità. Molti di essi, in ogni caso, saranno a breve parte della “giuria” chiamata a considerare le accuse contro Trump malgrado siano stati di fatto complici nel tentativo di rovesciare l’esito delle elezioni presidenziali. Questa situazione non sfugge evidentemente ai democratici, ma a prevalere è la volontà di preservare un Partito Repubblicano “forte”, come ha spiegato recentemente Biden, così da ricostituire quella “unità” della classe dirigente americana imprescindibile per far fronte a una crisi sociale esplosiva e rilanciare gli sforzi per conservare la posizione internazionale degli Stati Uniti.

Il piano dei democratici, così come di una parte dei repubblicani, è dunque quello di portare avanti un impeachment che resti circoscritto al ruolo di Trump, in modo da ridurre il problema al comportamento eccezionale dell’ex presidente, per poi chiudere in fretta il capitolo dei fatti del 6 gennaio. Un’altra questione che resterà aperta sarà così anche quella del Partito Repubblicano come incubatore e ricettacolo di tendenze di estrema destra, se non apertamente fasciste.

In concomitanza con l’introduzione delle linee dell’accusa, anche i legali di Trump questa settimana hanno presentato la loro difesa. Il documento diffuso pubblicamente è apparso scarno e a tratti impreciso, a causa del cambio della squadra di avvocati all’ultimo minuto ma anche della totale mancanza di rispetto per il procedimento da parte dell’ex presidente. Nonostante ciò, è apparsa chiara la direzione che la difesa intende prendere. Da un lato insisterà sull’illegittimità dell’impeachment contro un presidente non più in carica e dall’altro sul diritto di quest’ultimo a esprimere liberamente le proprie opinioni.

Il secondo punto risulta particolarmente delicato e ha le implicazioni più inquietanti. I legali di Trump sostengono in sostanza che il presidente aveva la facoltà di esprimere la sua convinzione che il voto era stato manipolato, mentre le esortazioni del comizio precedente l’assalto al Congresso non costituivano un incitamento alla rivolta. Da ciò deriva la giustificazione per respingere i risultati di un voto certificato da ogni singolo stato e dai tribunali e, se la tesi fosse accettata, offrirebbe un qualche fondamento pseudo-legale per dichiarare nulla un’elezione democratica e favorire una spinta autoritaria.

Al di là delle manovre del Congresso e delle motivazioni del Partito Democratico nell’avviare il secondo impeachment contro Trump, resta l’estrema gravità di quanto è accaduto il 6 gennaio scorso a Washington. Il tentativo di minimizzarne la portata anche da molti negli ambienti di sinistra o dei media “alternativi” appare perciò preoccupante, soprattutto perché finisce per trascurare la natura delle forze ultra-reazionarie che si sono mosse e continuano a muoversi attorno a Trump, beneficiando delle politiche a senso unico della classe dirigente USA, nonché di un sistema totalmente bloccato e senza nessuno sbocco realmente progressista.

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