Nella sua prima intervista televisiva da 46esimo presidente degli Stati Uniti, questa settimana Joe Biden ha tenuto a informare i telespettatori americani e di tutto il mondo che, secondo la sua opinione, il presidente russo Vladimir Putin è senza dubbio un “assassino”. Su questo giudizio e su colui che l’ha espresso ci sarebbe da discutere a lungo. Ciò che forse conta realmente è tuttavia il contesto di un’accusa che si accompagna a un’accelerazione coordinata della propaganda anti-russa in America, modello inequivocabile della sempre più pericolosa attitudine che l’amministrazione democratica adotterà nei confronti di Mosca.

 

L’occasione di denunciare Putin è stata offerta su un vassoio d’argento dall’intervistatore di Biden, l’ex consigliere del presidente Clinton e multimilionario George Stephanopoulos. Prevedibilmente, l’anchor della ABC ha scelto di circoscrivere all’inquilino del Cremlino la sua indagine sulla predisposizione omicida dei leader mondiali, tralasciando di sondare il presidente americano su individui come, ad esempio, l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman o il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Nessuno nel salotto della ABC, né tra i media ufficiali, è stato poi neanche lontanamente sfiorato dall’idea che la definizione di “assassino” potrebbe essere attribuita in maniera di gran lunga più opportuna a qualsiasi presidente americano degli ultimi decenni o a molti dei loro collaboratori più stretti. È facile poi immaginare, a parti invertite, quali sarebbero state le reazioni in America.

L’intervista di Biden è servita anche a minacciare provvedimenti non meglio definiti per contrastare e punire i presunti recenti cyber-attacchi russi contro gli Stati Uniti. Nel complesso, Biden ha preparato meticolosamente con lo staff della Casa Bianca la sua apparizione televisiva per proiettare un’immagine di forza nella fase iniziale di un mandato che, è facile prevedere, sarà all’insegna dell’isteria anti-russa più ancora di quanto lo è stato quello di Trump.

Dell’efficacia della mobilitazione in corso a Washington per indurre un qualche cambiamento nell’atteggiamento della Russia è quasi superfluo parlare. Ciò che il “deep state” USA vorrebbe da Mosca è un abbandono delle politiche che puntano a promuovere gli interessi russi in modo autonomo e, quindi, in contrasto con quelli americani. Qualsiasi iniziativa che gli Stati Uniti prenderanno per fare pressioni sul Cremlino, dalle sanzioni al sostegno a finte “rivoluzioni colorate”, avrà poco o nessun effetto in questo senso.

Esattamente questa conclusione ha lasciato intendere Putin giovedì nel rispondere all’accusa di essere un assassino rivoltagli da Biden. Il presidente russo ha spiegato che il giudizio potrebbe rappresentare piuttosto una “proiezione” delle responsabilità degli Stati Uniti o dello stesso Biden, per il quale Putin ha infine detto di augurarsi che possa rimanere in buona salute. Dietro ai toni sarcastici di Putin c’è comunque la presa d’atto da parte russa di come i rapporti con gli Stati Uniti siano difficilmente recuperabili. Un riesame delle posizioni del Cremlino in proposito è quasi certamente già in atto ed è testimoniato, tra l’altro, dal recente richiamo a Mosca dell’ambasciatore russo a Washington per “consultazioni”.

Va anche detto che, con ogni probabilità, il fanatismo anti-russo al limite del ridicolo che pervade politici e media americani è un segnale di disperazione, dettata dalla penuria di strumenti a disposizione, al di fuori forse di una guerra nucleare, per invertire il declino della posizione internazionale degli USA. Il senso di assedio provato di fronte a due potenze in ascesa – Russia e Cina – e la consapevolezza di vedere diminuire ogni giorno la propria supremazia militare contribuiscono a spiegare l’offensiva contro Mosca, così come contro Pechino.

Le priorità strategiche americane spiegano inoltre il motivo per cui l’etichetta di “assassino”, ma anche accuse o definizioni come “dittatura”, “genocidio” o “repressione”, si applicano in pratica solo ai nemici di Washington. L’insistenza nel caratterizzare in questi termini potenze come Russia e Cina serve a creare un ambiente tossico negli Stati Uniti, in modo da provocare nella popolazione un’ostilità irrazionale nei loro confronti e facilitare l’implementazione di rischiose politiche ultra-aggressive, decise peraltro dietro le spalle degli stessi americani.

Su un altro fronte, i messaggi di Biden sono destinati anche agli alleati europei per convincerli a tenere una linea unitaria – quella americana – contro la Russia, scoraggiando aperture o collaborazioni in ambito energetico, commerciale o, come si sta discutendo in queste settimane, dei vaccini anti-COVID.

Come accennato all’inizio, l’intervista di Biden alla ABC è seguita alla pubblicazione della sintesi di un rapporto riservato dell’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale sulle solite “interferenze” russe nei processi elettorali americani. Il contenuto stesso dell’indagine e le modalità con cui la stampa ufficiale ne dà notizia sarebbero sufficienti, a una lettura anche superficiale, a liquidare il tutto come propaganda priva di consistenza. Invece, le accuse fantasiose e senza una sola prova che si ripetono fino alla nausea continuano a occupare le prime pagine dei giornali, sempre con l’obiettivo di dipingere Putin e il suo regime come il male assoluto, intenti a cercare di distruggere l’altrimenti idilliaca società democratica americana.

La comunità dell’intelligence USA ha offerto così una serie di accuse sufficientemente generiche da includere qualsiasi tipo di intervento con intenzioni malevole da parte russa. Attacchi informatici contro le operazioni di voto e di spoglio del novembre scorso vengono in realtà escluse, anche perché finirebbero per assecondare in qualche modo le denunce di irregolarità di Trump. Attività sospette per “influenzare” il dibattito pubblico e gli elettori avrebbero invece avuto luogo, ad esempio tramite la promozione sui social media di argomenti tendenti a “dividere” l’opinione pubblica.

Se anche così fosse, è evidente che questo genere di “interferenze” russe, che dovevano favorire Trump, non hanno avuto alcun impatto e, perciò, appare decisamente ingiustificato il nuovo polverone sollevato dagli accusatori del Cremlino. Non solo, se si considerano nel concreto queste ultime attività di “disinformazione” riconducibili al governo di Mosca, emerge che i presunti “troll” russi sono colpevoli in sostanza di avere riportato notizie come tutti gli altri media sulla realtà politica e sociale americana, che di “divisioni” e “conflitti” ne ha già di per sé in abbondanza.

Aggressori informatici collegati al Cremlino avrebbero infine contribuito a screditare le operazioni post-voto e a diffondere la tesi dei brogli amplificata da Trump e i suoi sostenitori. Anche in questo caso, se l’accusa fosse dimostrata, qualsiasi piano orchestrato dalla Russia, oltre a risultare ancora una volta inefficace, impallidirebbe di fronte agli sforzi fatti alla luce del sole dallo stesso Trump e dagli ambienti a lui vicini, inclusi quelli dei media di estrema destra, per denunciare il furto elettorale che avrebbe subito l’ex presidente repubblicano.

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