La decisione dell’Unione Europea di allinearsi agli Stati Uniti e di imporre sanzioni contro la Cina per il trattamento della minoranza musulmana uigura non ha nulla a che fare con questioni legate alla difesa dei diritti umani. L’annuncio congiunto di questa settimana, che ha incluso anche il Canada e il Regno Unito, rappresenta piuttosto un attacco calcolato, oltre che rischioso e controproducente, per alzare il livello dello scontro con Pechino, da ricondurre in primo luogo al riassestamento in corso delle relazioni transatlantiche dopo l’ingresso di Joe Biden alla Casa Bianca.

 

In un quadro più ampio, le misure punitive coordinate tra Washington, Bruxelles, Ottawa e Londra fanno parte della strategia subito implementata dalla nuova amministrazione democratica USA per fronteggiare la “minaccia” cinese e che si sta svolgendo su più fronti con un’intensità per molti sorprendente. Non è un caso infatti che le sanzioni per i fatti dello Xinjiang, dove avrebbe luogo la repressione della popolazione di etnia uigura, arrivino a pochi giorni di distanza dall’incontro estremamente teso in Alaska tra i rappresentanti dei governi di Stati Uniti e Cina.

L’Unione Europea ha dato notizia per prima lunedì della decisione di punire quattro esponenti del Partito Comunista e una “entità” cinese, presumibilmente coinvolti nella violazione dei diritti umani nello Xinjiang. Washington e gli alleati di Canada e Gran Bretagna hanno emesso comunicati identici a distanza di poche ore, con il chiaro obiettivo di proiettare un’immagine di unità tra le potenze “democratiche” occidentali, decise a contrastare in tutti i modi la brutale “dittatura comunista” cinese.

Il dipartimento di Stato americano ha anche emesso una dichiarazione assurda, quanto ipocrita, per accusare Pechino di “genocidio” e “crimini contro l’unità” contro gli uiguri, nonché per chiedere il rilascio di “tutti coloro che sono arbitrariamente detenuti in campi di concentramento” nello Xinjiang. L’accusa totalmente infondata di “genocidio” è un’eredità dell’amministrazione Trump che Biden, in maniera significativa, ha fatto propria. Nelle dichiarazioni sugli uiguri dell’Europa, invece, per il momento non viene fatto alcun riferimento all’accusa di “genocidio”.

Dal momento che i governi europei, a differenza degli Stati Uniti, non vedono la Cina come una minaccia strategica e, sia pure in un clima di accesa competizione, hanno sviluppato un sistema complesso di interconnessioni con Pechino, è legittimo chiedersi le ragioni di un’escalation come quella di lunedì, che rischia di mettere Bruxelles sullo stesso piano di Washington per ciò che riguarda il confronto con la Repubblica Popolare.

La necessità di bilanciare le relazioni tra grandi potenze è senza dubbio un fattore, ma va considerato, più nello specifico, che buona parte della classe dirigente europea continua a puntare sugli USA e la NATO come elementi determinanti nella promozione dei propri interessi globali. Ciò non significa che ci siano posizioni unanimi sulla “questione cinese”, soprattutto in determinati ambienti con interessi direttamente collegati alla locomotiva cinese.

L’uscita di scena di Trump e, per quanto possibile, il ritorno a politiche coordinate tra le due sponde dell’Atlantico ha tuttavia spinto l’Europa a dare un’altra chance, per così dire, all’alleato americano. Che, poi, in termini concreti l’atteggiamento europeo sulla repressione cinese degli uiguri serve anche e soprattutto a garantire a Bruxelles un qualche capitale politico in previsione delle discussioni che avranno luogo con l’amministrazione Biden per ricalibrare i rapporti transatlantici. A conferma di ciò, le sanzioni europee contro la Cina sono state annunciate ufficialmente alla vigilia della visita in Europa del segretario di Stato, Anthony Blinken.

Il livello della retorica e la gravità delle iniziative anti-cinesi sono tali in ogni caso da ricordare la consolidata strategia a cui ricorrono gli Stati Uniti per screditare un determinato paese che, impossibile da piegare ai propri interessi, finisce per essere oggetto di un’offensiva sempre più intensa che, come è accaduto più volte nel recente passato, può anche sfociare nell’azione militare.

Per quanto riguarda la Cina, agli USA, all’UE, al Canada e al Regno Unito si sono unite nella condanna dei “crimini” commessi contro gli uiguri anche Australia e Nuova Zelanda. Questi ultimi due paesi non hanno per il momento imposto sanzioni, probabilmente perché i rispettivi legami economico-commerciali con la Cina sono tali da rendere problematica un’azione di questo genere. Entrambi sono però in prima linea nell’offensiva anti-cinese pilotata da Washington ed entrambi rischiano di pagare un prezzo carissimo nel caso la situazione dovesse precipitare nel prossimo futuro.

La serietà delle accuse mosse contro Pechino e le conseguenze che esse comportano contrastano con la mancanza di prove convincenti delle responsabilità cinesi. In effetti, gli elementi su cui si basano le denunce occidentali vengono essenzialmente dalle testimonianze, spesso contraddittorie, di profughi uiguri inquadrati in organizzazioni manovrate dalla CIA, come il World Uyghur Congress e la American Uyghur Association. L’altra fonte di informazioni sulle condizioni della minoranza musulmana nello Xinjiang cinese sono indagini e rapporti realizzati da “accademici” e istituti di ricerca nominalmente indipendenti ma che sono animati da personalità ultra-compromesse con il governo americano e sostenitori delle aggressive politiche “umanitarie” che si nascondono dietro le mire imperialistiche di Washington.

Svariati media indipendenti hanno da tempo mostrato la tendenziosità e l’inattendibilità delle accuse rivolte alla Cina riguardo i campi di concentramento e le pratiche di “genocidio” contro gli uiguri. Il sito web The Grayzone Project è tra quelli che ha fornito analisi più esaustive sulle forze che operano per offrire ai governi occidentali il materiale su cui si fondano le denunce e le sanzioni punitive come quelle appena annunciate. In un articolo di settimana scorsa, ad esempio, è stata fatta luce sui precedenti e sulla composizione di due “think tank”, il cui recente studio la stampa ufficiale ha citato con insistenza per dimostrare i crimini cinesi nello Xinjiang. Uno è il Newlines Institute for Strategy and Policy, l’altro il Raoul Wallenberg Centre for Human Rights. Entrambi hanno precedenti ben poco imparziali, visto che si dedicano con preferenza ad attaccare guarda caso quei paesi che non intendono piegarsi ai diktat di Washington (Venezuela, Siria, Russia, Iran).

Le modalità con cui conducono le loro indagini rimandano poi a materiale reperito da testimonianze screditate o da fonti pseudo-accademiche con curriculum a dir poco discutibili, come il presunto “esperto” di Cina, Adrian Zenz, fondamentalista cristiano tedesco con legami ad ambienti di estrema destra. Lo stesso Grayzone Project aveva già dimostrato come il lavoro di Zenz sia caratterizzato da manipolazioni di dati statistici e occultamento deliberato di informazioni che contraddicono la tesi sul “genocidio”. La composizione del Newlines Institute, poi, rivela la presenza di numerosi ex funzionari del governo americano, in particolare del dipartimento di Stato, o di membri di “think tank” che creano in sostanza le basi ideologiche dell’interventismo “umanitario” americano, come Stratfor, Atlantic Council, Foreign Policy Research Institute o Freedom House.

Non molto diverso è il profilo del Wallenberg Centre. Con sede a Montréal, quest’ultimo è stato fondato dall’ex ministro canadese Irwin Cotler, secondo Grayzone Project sostenitore irriducibile della dottrina che promuove la cosiddetta “responsabilità di proteggere” e “l’interventismo umanitario”. Cotler è stato infatti in prima linea nel denunciare i crimini e le atrocità di regimi poi bersaglio delle aggressioni militari occidentali, dall’Iraq alla Libia fino alla Siria. Ben nota è anche la sua attitudine verso la Cina, testimoniata tra l’altro dai legami con il “dissidente” con inclinazioni “neo-con”, Lu Xiaobo, e dalle accuse rivolte alla Cina per avere provocato l’epidemia di Coronavirus.

Gli ultimi sviluppi segnano dunque una nuova escalation preoccupante dello scontro tra l’Occidente e la Cina. Pechino ha infatti subito risposto alle sanzioni adottando a sua volta provvedimenti punitivi nei confronti di dieci europarlamentari e quattro organizzazioni, tra cui la Alliance of Democracies Foundation creata dal segretario-generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen. La presa di posizione decisa della Cina è stata coerente con la fermezza con cui il Direttore dell’Ufficio della Commissione Centrale degli Affari Esteri del Partito Comunista, Yang Jiechi, settimana scorsa in Alaska aveva strigliato la delegazione americana, mostrando come Pechino non intenda più tollerare interferenze esterne su questioni che hanno a che fare con la sovranità e gli interessi vitali della Repubblica Popolare.

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