La quarta elezione in due anni per il parlamento israeliano (Knesset) sembra avere creato un quadro politico molto simile a quelli precedenti, cioè senza un chiaro percorso verso la formazione di un governo stabile. I risultati parziali e gli exit poll, nelle ore successive alla chiusura dei seggi, hanno fornito alternativamente uno scenario nel quale il primo ministro Netanyahu e il Likud apparivano in grado di mettere assieme una fragile maggioranza e un altro che escludeva invece per un soffio questa opzione. Maggiore chiarezza arriverà forse dopo il conteggio di un numero insolitamente alto di voti espressi “a distanza” per via del Coronavirus, anche se è facile prevedere che il baricentro del prossimo esecutivo sarà spostato ancora di più a destra.

L’ennesimo voto anticipato in Israele era stato indetto in sostanza dopo il crollo dell’improbabile alleanza di governo tra Netanyahu e l’ex capo di stato maggiore, Benny Gantz, provocato formalmente dal mancato accordo sul bilancio del paese. In realtà, le elezioni sono state un’altra manovra disperata di Netanyahu per restare aggrappato al suo incarico ed evitare una condanna nel processo in corso per corruzione. Se il gabinetto uscente fosse rimasto al suo posto, nei prossimi mesi Netanyahu avrebbe dovuto fare spazio a Gantz, come previsto dall’accordo tra i due, vedendosi costretto ad affrontare il procedimento giudiziario senza la protezione che gli garantisce la carica di primo ministro.

Per rimanere in sella, Netanyahu puntava in primo luogo sull’efficacia del piano vaccinale anti-Covid promosso dal suo governo e che ha fatto finora di Israele il paese con la percentuale più alta di inoculazioni. I recenti accordi per la normalizzazione dei rapporti con alcuni paesi arabi dovevano essere un’altra arma elettorale del premier, anche se poco prima del voto una diatriba con la Giordania gli ha impedito di volare negli Emirati Arabi, dove intendeva trasformare l’incontro previsto con il principe ereditario, Sheikh Mohammed bin Zayed al-Nahyan, in una sorta di comizio.

In ogni caso, il Likud rimane di gran lunga la prima forza politica israeliana e ha ottenuto, secondo i dati parziali, 30 seggi sui 120 totali, con una perdita però di sei rispetto a un anno fa. Con quelli che vengono considerati i suoi alleati (più o meno) naturali, potrebbe arrivare molto vicino a quota 61, ma gli ultimi aggiornamenti prospettano un possibile stop a 59 o forse a 60 seggi. Oltre al Likud, la potenziale coalizione includerebbe gli alleati storici ultra-ortodossi – Shas e Giudaismo Unito nella Torah – più il partito di estrema destra Yamina dell’ex ministro della Difesa, Naftali Bennett, e quello apertamente anti-arabo e razzista Tkuma (Sionismo Religioso).

La partecipazione di Bennett a un nuovo governo guidato da Netanyahu sembrava non essere scontata, visto che il leader di Yamina punta a diventare egli stesso primo ministro e con lo stesso Netanyahu aveva rotto dopo essere stato il suo capo di gabinetto. In campagna elettorale, Bennett si era però sempre rifiutato di escludere il suo ingresso in un governo Netanyahu, ma anzi aveva insistentemente affermato che l’obiettivo principale era quello di evitare una quinta elezione anticipata, dando così di fatto un segnale di disponibilità al suo ex superiore.

Per quanto riguarda Tkuma, la sua presenza in un esecutivo rappresenterebbe in teoria un motivo di grave imbarazzo, viste le inclinazioni del suo leader, Bezalel Smotrich. Quest’ultimo e i suoi sostenitori si ispirano al defunto rabbino Meir Kahane, noto per gli incitamenti alle violenze contro gli arabi e alla loro espulsione da Israele e dai territori occupati. Smotrich è anche alleato con il leader del partito Potere Ebraico, Itamar Ben-Gvir, ex militante del movimento terrorista Kach e già aperto ammiratore del suo più famigerato seguace, Baruch Goldstein, responsabile nel 1994 del massacro di 29 palestinesi in preghiera in una moschea della Cisgiordania.

Gli scrupoli personali di Netanyahu nell’accogliere simili alleati in un suo eventuale gabinetto sono con ogni probabilità trascurabili. Nelle scelte politiche, “Bibi” è notoriamente motivato quasi del tutto dalla sua ambizione personale e, in questo caso, dalla necessità di evitare il carcere. Infatti, uno dei provvedimenti che Netanyahu intende varare se dovesse riuscire a mettere assieme un nuovo esecutivo è una legge che gli garantisca l’immunità dai procedimenti penali. Questo argomento sarà senza dubbio al centro dei negoziati di governo delle prossime settimane.

Va tuttavia considerato che un gabinetto sbilanciato verso l’ultra-destra e dipendente da forze estreme anche per gli standard israeliani rischierebbe di complicare i rapporti con l’amministrazione Biden. Non tanto per le preoccupazioni americane riguardo la deriva anti-democratica dell’alleato mediorientale, quanto per gli ostacoli che un governo di questo genere creerebbe al rilancio della farsa del processo di pace con i palestinesi o al ritorno di Washington nell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA).

Proprio la predisposizione degli Stati Uniti, assieme al discredito sul fronte domestico di Netanyahu, bersaglio di ripetute proteste popolari negli ultimi mesi, lasciano aperto uno spiraglio alla formazione di un governo senza il primo ministro. L’ipotesi appare al momento molto lontana, ma non impossibile, soprattutto se i risultati definitivi del voto di martedì dovessero essere aggiustati a sfavore del Likud.

Il campo anti-Netanyahu è comunque composto da partiti molto diversi fra loro, uniti, a livello teorico, dal solo impegno per impedire la formazione di un nuovo governo guidato dal premier in carica. I dati più significativi usciti dal voto sono la prestazione relativamente solida di Yesh Atid (C’è un Futuro) dell’ex ministro delle Finanze, Yair Lapid, e il fallimento della candidatura a possibile successore di Netanyahu dell’ex esponente di spicco del Likud, Gideon Saar. Per il partito che ha recentemente fondato – Nuova Speranza – erano stati pronosticati ad un certo punto addirittura più di venti seggi, mentre alla fine ne dovrebbe raccogliere appena sei.

Yesh Atid è diventato la seconda forza politica israeliana con 17 seggi e il suo leader potrebbe essere il punto di riferimento di un’eventuale coalizione anti-Netanyahu. Questo progetto, sempre che i numeri lo permettano, dovrebbe però tenere assieme forze di destra, come appunto il partito di Saar o Ysrael Beiteinu (Israele, Casa Nostra) dell’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, non solo con partiti moderati o di centro-sinistra, ma anche con la Lista Comune che rappresenta gli arabi-israeliani.

Nella giornata di mercoledì, la stampa israeliana ha dato spazio all’idea di un clamoroso appoggio a Netanyahu di un altro partito arabo, quello conservatore Ra’am (Lista Araba Unita), che potrebbe ottenere cinque seggi nella Knesset. Il suo leader, Mansour Abbas, non lo ha escluso, ma la sola ipotesi ha già scatenato la reazione contraria di alcuni esponenti del Likud. Pensare a un accordo tra Ra’am e i partiti ultra-ortodossi alleati di Netanyahu sconfina inoltre nella fantascienza.

Se gli equilibri dovessero essere quelli prospettati dai dati non definitivi, è del tutto possibile che a essere decisiva sarà la diserzione di qualche singolo deputato, ovviamente se ricompensato in maniera adeguata. Ciò potrebbe accadere durante i negoziati delle prossime settimane e i principali indiziati sono i membri delusi del partito di Gideon Saar, usciti dal Likud con l’aspettativa di rimpiazzare Netanyahu al governo.

Ad ogni modo, le elezioni di martedì hanno confermato l’estrema instabilità del quadro politico israeliano, diretta conseguenza non solo dei guai giudiziari del primo ministro, ma anche e soprattutto delle persistenti problematiche economiche e sociali, nonché della deriva criminale dello stato ebraico e dei riflessi della situazione geo-politica regionale. Il livello di partecipazione al voto è poi in netto calo. L’affluenza è stata la più bassa dal 2013 (67%) e contribuisce in parte a smentire la tesi che vorrebbe un elettorato e una società appiattiti sulle posizioni di destra di gran parte della classe politica israeliana.

Ciò a cui si assiste da due anni è dunque il lento epilogo dell’era Netanyahu e il faticoso emergere di un progetto politico alternativo in un panorama dominato sempre più da soggetti che continuano ad alimentare forze e sentimenti ultra-reazionari. In questo scenario, l’agonia politica di Israele rischia di protrarsi ancora a lungo, tanto che subito dopo la chiusura delle urne in molti hanno addirittura ipotizzato una quinta elezione anticipata già nei prossimi mesi.

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