A dieci giorni di distanza dall’intervista che ha fatto crollare le fondamenta delle accuse rivolte dal governo degli Stati Uniti a Julian Assange, sulla stampa ufficiale in Occidente, a cominciare da quella americana, si continua a registrare un vergognoso silenzio in merito alla vicenda del fondatore di WikiLeaks. Il comportamento dei media non è in sé una notizia, visto che è perfettamente coerente con la loro sostanziale complicità nella persecuzione del giornalista australiano, ma offre un contributo importante per comprendere il ruolo della stampa “mainstream” e del suo rapporto con le strutture del potere.

 

Le dichiarazioni rilasciate alla rivista islandese Stundin dal testimone-chiave dell’accusa contro Assange, l’ex sostenitore di WikiLeaks Sigurdur “Siggi” Thordarson, avevano confermato come il procedimento di estradizione in corso a Londra fosse il risultato di un accordo, promosso dal dipartimento di Giustizia USA, basato su nient’altro che menzogne. Thordarson, dopo avere avuto svariati guai legali, in cambio dell’immunità aveva accettato di infangare Assange, consentendo a Washington di dipingere quest’ultimo più come un “teppista informatico” che un giornalista.

Thordarson sosteneva di avere collaborato con Assange o, comunque, di avere agito su sua richiesta per intercettare le comunicazioni telefoniche ed elettroniche di membri del parlamento islandese e dei vertici di una banca in crisi di questo stesso paese. Grazie a questa testimonianza, il dipartimento di Giustizia americano nel giugno dello scorso anno aveva aggiustato le accuse contro Assange davanti alla giustizia britannica, così da rendere più pesante la sua posizione. L’accusa, infatti, sembrava sempre più traballante, viste le implicazioni per la libertà di stampa nella persecuzione di un giornalista che aveva solo pubblicato informazioni riservate ricevute da fonti interne al governo di Washington.

Alla luce dell’importanza del caso Assange, ci si sarebbe aspettata una mobilitazione della stampa di tutto il mondo per denunciare il gioco sporco degli Stati Uniti, venuto definitivamente alla luce con la smentita delle accuse da parte di Thordarson. Al contrario, invece, all’intervista di Thordarson non è stata praticamente dedicata una sola riga da giornali come New York Times, Washington Post, Guardian e molti altri della galassia “mainstream” anglo-americana e occidentale in genere.

La vigliaccheria di questi giornali è tanto più grave se si considera che essi, assieme ad altri in svariati paesi europei, avevano pubblicato spesso in esclusiva le prima rivelazioni di WikiLeaks negli anni scorsi. Negli ultimi mesi avevano anche iniziato a proporre commenti critici della condotta del governo americano e delle ripercussioni del caso Assange sui limiti alla libertà di stampa. Chiaramente, i loro scrupoli erano di diversa natura. Oltretutto, nemmeno l’attendibilità dell’esclusiva pubblicata da Stundin può avere rappresentato un freno per i media ufficiali. Infatti, il giornale islandese non solo ha proposto la smentita fatta dall’accusatore in prima persona, ma le sue parole sono state avvalorate dall’analisi delle chat di Thordarson e di altri documenti ufficiali.

Il silenzio di oggi nasconde il timore che la “riabilitazione” di Assange come giornalista, cosa peraltro mai seriamente in discussione, renda ancora più lampante il ruolo dei media ufficiali, diventati, soprattutto per i temi della “sicurezza nazionale”, poco più che stenografi dei governi e delle loro agenzie di intelligence. Riguardo Assange, questa stampa ha assecondato quasi del tutto le posizioni del governo di Washington e, così facendo, anche le domande più logiche sono state accantonate.

Riguardo la figura di Thordarson, la già scarsa credibilità di quest’ultimo non era mai stata messa in discussione e, come per tutti gli altri elementi che hanno concorso a creare la ragnatela in cui è stato intrappolato Assange, i media “mainstream” anche per questa vicenda hanno dato un contributo determinante per far passare la versione di Washington come la più attendibile. Allo stesso tempo, questo atteggiamento è stato utile a contenere e scoraggiare le manifestazioni popolari a sostegno del fondatore di WikiLeaks.

Da un'altra prospettiva, il silenzio della stampa ufficiale sulla situazione di Assange ha impedito di far conoscere a un pubblico più vasto i contorni di un’operazione persecutoria fondata su pratiche illegali e sulla falsificazione dei fatti. Il mancato racconto delle ammissioni di Thordarson è il culmine di questo black-out informativo, costituito da una lunga serie di questioni attorno alle quali è scattata una vera e propria forma di auto-censura.

Basti pensare a tutti i nuovi elementi che sono emersi negli ultimi anni, in particolare dopo l’arresto illegale di Assange all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra nell’aprile del 2019. Praticamente sotto silenzio era passato ad esempio il devastante rapporto del relatore speciale ONU sulla tortura, Nilz Melzer, secondo il quale la detenzione di Assange era equiparabile a tortura. Stesso discorso per il crollo delle accuse di stupro della giustizia svedese, di cui notizia era stata data ma senza spiegarne le implicazioni e l’utilizzo di questa minacciata incriminazione per incastrare Assange e favorirne l’estradizione negli USA.

Oppure le rivelazioni del complotto della CIA per sorvegliare costantemente Assange e i suoi visitatori nella sede della rappresentanza diplomatica ecuadoriana di Londra o, ancora e più recentemente, le testimonianze della difesa durante le udienze nel processo di estradizione, che avevano disegnato un quadro più adatto a un regime dittatoriale che a un paese democratico.

Il boicottaggio delle notizie sulla situazione di Julian Assange rivela anche il vero obiettivo dei recenti editoriali che denunciavano l’accanimento del governo americano e di cui si è accennato in precedenza. Oltre ai media come il Times o il Guardian, a questa operazione si sono aggiunti politici soprattutto del Partito Laburista britannico, ma le loro preoccupazioni non sono tanto per Assange o la libertà di stampa in sé, quanto per una questione per così dire di immagine. Continuare a tenere in carcere un giornalista solo per avere svolto il proprio lavoro scredita infatti i governi di Londra e Washington, togliendo loro credibilità nella campagna in atto contro rivali come Cina e Russia, basata sulla finta difesa dei diritti umani e democratici.

Anche per questa ragione, gli appelli che stanno aumentando in queste settimane a lasciar cadere le accuse contro Assange rischiano di finire in un vicolo cieco o, comunque, di sminuire la portata della battaglia per la difesa della libertà di stampa. Negli Stati Uniti, d’altra parte, la caccia ad Assange è un affare bipartisan e ha come obiettivo di fare del giornalista australiano un esempio per chiunque intenda documentare i crimini americani. Il Joe Biden a cui oggi si chiede di rinunciare all’estradizione è stato il vice-presidente di un’amministrazione che aveva dato il via all’incriminazione di Assange, arrivando addirittura a definirlo, in un’uscita pubblica nel 2010, come un “terrorista hi-tech”.

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