Una recente riunione del principale cartello dei produttori di petrolio ha portato alla luce lo scontro latente tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi, ufficialmente alleati e sulla stessa lunghezza d’onda circa le più importanti questioni energetiche e strategiche mediorientali. Il vertice della cosiddetta OPEC+ ha dovuto infatti riaggiornarsi senza nemmeno riuscire a fissare una nuova data per risolvere l’enigma delle quote di greggio da immettere sui mercati mondiali. Lo stallo è dovuto alle richieste avanzate dagli Emirati sulla quantità di petrolio prodotto, ma le insolite tensioni all’interno dell’organizzazione sembrano essere di più ampia portata e hanno a che fare sia con il futuro del mercato energetico sia con le ambizioni regionali delle due monarchie sunnite.

 

La OPEC+ include i paesi OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) in aggiunta ad altri tra i più importanti produttori del pianeta, tra cui la Russia. Da qualche tempo, le decisioni di maggiore peso riguardanti le politiche petrolifere sono appunto adottate da questo organo, sul quale hanno dominato di fatto le scelte di Mosca e Riyadh.

I ministri competenti dei vari paesi che formano la OPEC+ si erano riuniti in videoconferenza giovedì scorso, per poi chiudere i lavori il giorno successivo senza un accordo sulla possibile estensione dei tagli alla produzione di greggio fino al dicembre del 2022. Una nuova riunione era stata programmata per lunedì, ma è stata alla fine cancellata viste le scarse prospettive di un’intesa. Le incertezze così rimaste hanno subito determinato un’impennata delle quotazioni internazionali del greggio, poi solo parzialmente rientrata nella giornata di martedì.

Dopo la crisi causata dall’impatto della pandemia di COVID-19, lo scorso anno la OPEC+ aveva deciso una riduzione di quasi 10 milioni di barili al giorno per sostenere le quotazioni del petrolio. Con la ripresa dell’economia globale, questi limiti erano stati allentati e il taglio della produzione, rispetto ai livelli pre-COVID, è ora di circa 5,8 milioni di barili al giorno. La nuova proposta saudita per i prossimi mesi prevede un aumento della produzione di 2 milioni di barili al giorno da agosto a dicembre, assieme allo spostamento della data della cancellazione dei limiti da aprile, come concordato lo scorso anno, a dicembre 2022. Gli Emirati Arabi hanno accolto con favore la prima parte del piano di Riyadh, ma solo a patto di una revisione della propria quota base, cioè la quantità di petrolio a partire dalla quale vengono calcolati i tagli alla produzione di ogni singolo paese.

Abu Dhabi vuole infatti un aggiustamento verso l’alto della quota di petrolio estratto ed esportato. Per gli Emirati, la base di calcolo che aveva fissato la loro quota era troppo bassa, ma era stata accettata solo perché le limitazioni sarebbero finite nell’aprile del 2022. Il problema è che questo paese ha fatto ingenti investimenti per aumentare le proprie capacità estrattive e desidera quindi liberarsi al più presto dai vincoli OPEC+, che metterebbero a rischio l’obiettivo di arrivare a 5 milioni di barili al giorno entro il 2030.

Il sito web di consulenza energetica Energy Intelligence ha cercato di collocare in un quadro più ampio la diatriba tra Riyadh e Abu Dhabi sulle quote petrolifere. La “transizione energetica”, si legge in un’analisi pubblicata lunedì, è un elemento da considerare in questa dinamica, dal momento che “alcuni [paesi] produttori, a cominciare dagli Emirati Arabi, si chiedono sempre più se i loro interessi siano meglio serviti da un meccanismo collettivo che limiti la produzione [di greggio] per proteggere i ricavi o dall’espansione della produzione per difendere le quote di mercato e monetizzare le proprie risorse”.

Le preoccupazioni degli Emirati non sono peraltro nuove e già nel dicembre del 2020, dopo uno scontro sullo stesso argomento, questo paese aveva valutato l’ipotesi di uscire dall’OPEC. Il ministro dell’Energia, Suhail al-Mazrouei, in un’intervista a Energy Intelligence ha manifestato tutto il disagio per la situazione attuale, spiegando che “nessun altro paese ha accettato il congelamento di un terzo delle proprie capacità produttive”.

L’Arabia Saudita persegue al contrario politiche più “caute” per garantire la stabilità del mercato petrolifero, basate su una gestione collettiva con al centro la partnership che è espressione della formula OPEC+. L’estensione dei tagli alla produzione da aprile a dicembre 2022 è appunto funzionale a questo scopo e, l’eventuale accettazione delle richieste degli Emirati di rivedere la propria quota base, “minaccerebbe la coesione del gruppo [di produttori] aprendo la strada alle richieste di altri paesi”. Anche paesi come Iran, Kazakistan e Nigeria avevano espresso riserve a questo proposito nel recente passato.

Le tensioni tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi possono essere lette all’interno di un panorama ancora più vasto e toccano anche l’ambito politico ed economico, oltre a quello militare. Le differenze stanno emergendo sempre più chiaramente in merito a svariate questioni calde in Medio Oriente. La guerra nello Yemen è il caso probabilmente più emblematico. I due regimi avevano inaugurato l’aggressione contro il più povero dei paesi arabi nel 2015 per impedire il dilagare dei “ribelli” Houthis e reinsediare il deposto governo del presidente-fantoccio Abd Rabbuh Mansour Hadi. Nel 2019, gli Emirati avevano finito per ritirare dallo Yemen il proprio contingente militare, fatto per lo più di mercenari, lasciando i sauditi nel pantano in cui si ritrovano tuttora. I regnanti di Abu Dhabi non avevano però perso interesse per questo paese, visto che hanno intensificato il loro sostegno ai separatisti nello Yemen meridionale, entrati in conflitto con la fazione appoggiata dall’Arabia Saudita.

Un recente bombardamento contro una base militare delle forze filo-saudite nello Yemen del sud ha rischiato di infiammare lo scontro tra i due presunti alleati. Il raid è stato attribuito dalla stampa internazionale agli Houthis, ma dal punto di vista strategico e militare questa ipotesi non ha molto senso, visto che i “ribelli” sciiti non sono impegnati in operazioni nella parte meridionale dello Yemen da molto tempo. In molti ritengono che l’attacco, condotto con i droni, sia piuttosto da ricondurre al conflitto interno all’asse Riyadh-Abu Dhabi.

Gli Emirati continuano inoltre a tenere un atteggiamento prudente in merito alla distensione con il Qatar, mentre l’Arabia Saudita ha da qualche mese ristabilito i rapporti con il piccolo emirato, contro il quale aveva deciso un vero e proprio blocco qualche anno fa principalmente a causa dei rapporti di quest’ultimo con l’Iran. Discorso opposto riguarda invece Israele. Abu Dhabi ha formalizzato le relazioni con lo stato ebraico sotto la spinta dei cosiddetti “Accordi di Abramo” promossi dall’amministrazione Trump. La monarchia wahhabita continua al contrario a respingere l’ipotesi del disgelo con Tel Aviv.

Un altro fronte dello scontro tra i due paesi si è aperto proprio a inizio di questa settimana con il provvedimento adottato da Riyadh per penalizzare le importazioni dagli Emirati Arabi. I sauditi hanno cioè modificato i propri dazi in modo da colpire quei beni la cui produzione può essere collegata in qualche modo a Israele o viene fatta con meno del 25% della forza lavoro indigena. La misura minaccia di aveva pesanti conseguenze sui prodotti provenienti dalle cosiddette “zone economiche libere”, aree speciali nelle quali le regolamentazioni sono scarse o inesistenti e che rappresentano un elemento importante per l’economia degli Emirati Arabi.

Quella in atto è insomma una competizione per estendere la propria influenza nella regione e per attrarre investimenti esteri, soprattutto in previsione di un futuro dove i combustibili fossili occuperanno un ruolo minore anche per i maggiori produttori mondiali.

Vista la posizione finora dominante nel mondo sunnita dell’Arabia Saudita, ha spiegato alla Reuters un economista della Saudi National Bank, la situazione descritta e lo stesso stallo all’interno della OPEC+ sono il risultato “dello sforzo di ampio respiro degli Emirati Arabi per affermare i propri interessi” in competizione con Riyadh. Anche se la “minaccia” dell’Iran e dei gruppi islamisti, come i Fratelli Musulmani, possono nel breve periodo mettere un freno alle divergenze di natura politica, spiega ancora un’analisi della Reuters, i due regimi del Golfo Persico sono destinati a scontrarsi sempre più frequentemente sul piano economico.

A tenere sott’occhio l’evoluzione del conflitto tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono soprattutto le due maggiori potenze globali con interessi in Medio Oriente, vale a dire Russia e Stati Uniti. Il blog MoonOfAlabama ha fatto notare come il presidente Biden tenda a favorire Abu Dhabi e Riyadh si trovi perciò in una posizione svantaggiata in un’eventuale escalation dello scontro in atto. La freddezza dell’amministrazione democratica per la casa regnante saudita è già emersa ad esempio con la conferma, tramite la pubblicazione di un rapporto della CIA, delle responsabilità del principe ereditario, Mohammad bin Salman (MBS), nel brutale omicidio del giornalista-dissidente Jamal Khashoggi.

Dal punto di vista delle capacità militari, inoltre, gli Emirati Arabi hanno dato prova negli ultimi tempi di avere raggiunto un livello notevole, mentre i sauditi continuano ad esempio a faticare nel tenere testa agli Houthis nello Yemen e recentemente hanno anche perso una parte dello “scudo” difensivo americano. Solo un paio di settimane fa, il Pentagono aveva infatti dato notizia del ritiro di svariate batterie di missili antiaerei da alcuni paesi mediorientali e quello più penalizzato era stato appunto l’Arabia Saudita.

In questo quadro, suggerisce ancora MoonOfAlabama, è del tutto comprensibile che Riyadh cerchi di diversificare la propria politica estera e i propri fornitori di armi, come in effetti sta già accadendo. In particolare, gli spazi lasciati liberi dagli USA possono essere occupati dalla Russia, con cui peraltro i sauditi hanno finora agito di comune accordo in sede OPEC+.

I rapporti tra i due paesi hanno già fatto segnare grandi progressi negli ultimi anni e le possibilità di espanderli erano già state discusse durante il vertice tra MBS e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, lo scorso mese di marzo. L’evolversi della situazione e il persistere dello scontro sulle questioni petrolifere potrebbero dare così un ulteriore impulso al rafforzamento delle relazioni tra Mosca e Riyadh.

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