La fuga dei militari americani dalla base aerea di Bagram nella notte di venerdì ha riassunto in modo esemplare il disastro di vent’anni di occupazione dell’Afghanistan. Il ritiro definitivo ordinato dal presidente Biden è stato già completato al 90% e sta lasciando in fretta il controllo di un numero crescente di distretti del paese centro-asiatico nelle mani dei Talebani. La sconfitta degli USA e dei loro alleati assumerà dimensioni forse ancora più importanti nelle prossime settimane o, addirittura, nei prossimi giorni, ma l’elemento già acquisito è la ragione più profonda del disastro, derivante dalle motivazioni tutt’altro che nobili della guerra scatenata nell’autunno del 2001 e dall’opposizione che essa ha generato tra la popolazione afgana nei due successivi decenni.

 

Attorno alla questione dell’Afghanistan restano da sciogliere parecchi nodi da parte degli Stati Uniti, primo fra tutti quello dell’impronta che Washington intende conservare in questo paese per influenzarne le vicende o, più correttamente, per assicurare che i propri interessi siano in qualche modo difesi dopo la fine ufficiale dell’occupazione. Lo spettacolo a cui si sta assistendo con l’assottigliamento del contingente straniero lascia però moltissimi dubbi sulla capacità americana di pianificare una strategia coerente ed efficace per il futuro dell’Afghanistan.

La Associated Press ha raccontano nei giorni scorsi di come centinaia di soldati USA avessero ricevuto l’ordine di evacuare in fretta e furia la base di Bagram, mentre la decisione non era stata nemmeno comunicata al nuovo comandante afgano. Quest’ultimo ha così scoperto l’abbandono della struttura dopo due ore dalla partenza degli americani. La base, lasciata senza energia elettrica, è stata per più di un’ora a disposizione di una banda di saccheggiatori che hanno approfittato del materiale abbandonato, inclusi veicoli, armi, cibo e telefoni.

La sorte di Bagram è doppiamente emblematica del fallimento americano, poiché è stata per vent’anni il fulcro dell’occupazione. Di dimensioni enormi, la struttura situata a una sessantina di chilometri a nord di Kabul ha ospitato centinaia di migliaia di militari e da qui sono partiti gli aerei da guerra impegnati nei bombardamenti contro i “ribelli” o le missioni delle forze speciali USA, responsabili di innumerevoli massacri di civili afgani. A Bagram resta anche un famigerato carcere, dove gli americani e i loro partner afgani hanno ampiamente fatto ricorso a metodi di tortura, soprattutto nei primi anni seguiti all’invasione del paese.

I Talebani, intanto, continuano a dilagare in particolare nel nord dell’Afghanistan e in poche settimane hanno assunto il controllo di circa un quarto dei distretti del paese, che vanno ad aggiungersi al territorio che già detenevano in precedenza. Sono moltissimi i casi nei quali le forze di sicurezza del governo di Kabul si sono arrese e hanno consegnato le loro armi ai Talebani senza opporre resistenza. Lunedì, inoltre, di fronte all’avanzata talebana più di mille soldati afgani sono fuggiti oltre il confine con il Tagikistan, chiedendo protezione al governo dell’ex repubblica sovietica.

Uno degli elementi più rilevanti della campagna dei Talebani è rappresentato dal fatto che molte delle province finite di recente nelle mani degli “Studenti del Corano”, a maggioranza etnica uzbeka, tagika o hazara, erano per loro praticamente off-limits negli anni, tra il 1996 e il 2001, in cui governavano l’Afghanistan. Alcune di queste aree erano dominate ad esempio dalla cosiddetta “Alleanza del Nord”, storicamente ostile ai Talebani, che sono in gran parte di etnia Pashtun.

Questa situazione apparentemente insolita è dovuta a svariati fattori. Il primo è senza dubbio la frustrazione delle popolazioni di qualsiasi etnia nei confronti del governo sostenuto dagli Stati Uniti, che si traduce in un atteggiamento favorevole o, quanto meno, di passiva rassegnazione davanti al ritorno dei Talebani. È molto probabile infatti che questi ultimi, malgrado gli aspetti legati al fanatismo e alla brutalità dei metodi di controllo del territorio, riescano a offrire una prospettiva di stabilità e ordine dopo due decenni di violenze, povertà e corruzione dilagante.

Qualche commentatore ha fatto notare anche un altro aspetto interessante. La quasi totale assenza di resistenza e di scontri armati in alcuni distretti settentrionali, dove è risaputa la presenza di milizie teoricamente anti-talebane, ha sollevato cioè l’ipotesi di un qualche accordo segreto tra i leader di queste ultime e gli “studenti del Corano”.

La questione non è affatto trascurabile, dal momento che, se così fosse, le probabilità di assistere a una nuova sanguinosa guerra civile in Afghanistan una volta completato il ritiro delle forze di occupazione occidentali verrebbero ridimensionate. Gli elementi concreti a supporto di questa tesi sono ad ogni modo scarsi, ma non è sorprendente che i media americani l’abbiano finora ignorata. Al contrario, la stampa d’oltreoceano è dominata da notizie e analisi che prospettano un tracollo delle fragili strutture statali afgane, con un conseguente e pressoché inevitabile scontro fratricida.

Questa versione, peraltro non inverosimile, risponde a un obiettivo ben preciso di almeno una parte dell’apparato militare e della sicurezza nazionale USA, vale a dire il mantenimento di una forza militare residua in Afghanistan o l’individuazione di una base in un paese vicino, da cui continuare a condurre operazioni di “anti-terrorismo”. Che poi la minaccia terroristica sia un pretesto è ormai risaputo e il gioco è stato svelato recentemente anche dai giornali ufficiali, come Washington Post e Wall Street Journal. Su entrambi sono apparsi editoriali nei giorni scorso che hanno messo in guardia dalle conseguenze strategiche di un ritiro totale dall’Afghanistan e dai vantaggi che raccoglierebbero paesi come Cina, Russia e Iran.

Il futuro dell’Afghanistan non è comunque scontato, anche se la previsione degli stessi vertici militari americani, circa il possibile crollo del governo-fantoccio del presidente Ashraf Ghani dopo sei mesi dal ritiro delle forze di occupazione, appare probabile se non addirittura troppo ottimistica. Da valutare saranno in primo luogo i negoziati di pace di Doha tra i Talebani e il governo di Kabul, per il momento in pieno stallo.

A dominare è per ora evidentemente il fattore militare, ma i Talebani hanno appena fatto sapere che il prossimo mese presenteranno nella capitale del Qatar una loro proposta scritta per una soluzione diplomatica. Malgrado la visione interamente pessimistica dei media occidentali, non va trascurato il fatto che i Talebani potrebbero non voler ripetere l’esperienza degli anni Novanta al potere e che, quindi, intendano istituire un sistema relativamente aperto che garantisca maggiore stabilità e riduca l’esposizione alle pressioni esterne. A differenza di due decenni fa, poi, chiunque si installi al potere a Kabul avrà in teoria l’opportunità di agganciare il paese alle dinamiche regionali in pieno fermento, alimentate in primo luogo dai progetti della “Belt and Road Initiative” (“Nuova Via della Seta”) cinese.

La relativa scarsità di episodi di sangue che stanno segnando l’avanzata talebana, quanto meno in alcune parti del territorio afgano, è però tutta da verificare. Per il momento, i Talebani hanno per lo più occupato le aree rurali e periferiche dei distretti strappati al controllo governativo, mentre si sono in larga misura astenuti dall’entrare nelle rispettive capitali. Ciò potrebbe dipendere da una questione di strategia decisa ai vertici oppure dal vincolo imposto dall’accordo di pace siglato con l’amministrazione Trump nel febbraio del 2020, che prevedeva appunto la rinuncia a qualsiasi attacco contro le capitali delle province.

Un cambiamento di rotta in questo senso e, quindi, una futura campagna militare diretta contro le principali città afgane potrebbe perciò incontrare una maggiore resistenza e scatenare conflitti sanguinosi che getterebbero il paese ancora di più nel baratro, rimettendo forse in discussione anche i contorni del disimpegno americano.

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