di mazzetta

L’Egitto è un paese nominalmente repubblicano e sostanzialmente dittatoriale, come se ne vedono tanti. A officiare l’aspetto sostanziale in barba a quello nominale, ha contribuito con decisione il suo presidente, Hosni Mubarak. Questi, coccolato dall’Occidente, giunse al potere oltre un quarto di secolo fa dopo il provvidenziale (almeno per lui) assassinio di Sadat. A comandare il paese si è trovato bene e ha deciso che non avrebbe più cambiato lavoro. Oggi, giunto alla vecchiaia (78 anni), sta cercando di predisporre le condizioni perché i suoi beni e il suo potere passino alla sua discendenza senza possibilità di sorprese. Diversamente da altri padri di famiglia, Mubarak possiede un intero paese e non può quindi limitarsi ad un semplice testamento o a sistemare i suoi assetti patrimoniali per salvarli dalle tasse di successione. Altri leader sono più fortunati, vuoi perché la leadership è assicurata loro dal sangue reale, vuoi perché le istituzioni nei loro paesi sono puramente decorative. In Egitto invece c’è una Costituzione e un sistema giudiziario, ma anche la storia di una de-colonizzazione che è passata attraverso le idee del socialismo e un presente fatto da un popolo che non è certo sottosviluppato culturalmente. L’Egitto fino pochi giorni fa era quindi una dittatura formalmente non tale, comunque generalmente giudicato un paese con un forte deficit democratico, tanto da finire, fin dal 2001, nell’elenco dei pesi mediorientali nei quali i piani e le azioni di Washington avrebbero “portato la democrazia”. Condoleeza Rice fino a pochi mesi fa visitava Il Cairo suggerendo riforme democratiche e spingendo per un allentamento della presa della dittatura sulla società. Richieste che da anni sono rivolta anche all’Arabia Saudita e che servivano fondamentalmente a giustificare l’invasione dell’Iraq di fronte a quanti facevano notare che Saddam non fosse certo l’unico dittatore mediorientale. L’affondare dell’amministrazione USA nel pantano iracheno ha portato altri pensieri e reso inutile questo esercizio di retorica, visto che ormai è chiaro a chiunque che, qualsiasi motivo abbia veramente spinto Bush ad invadere l’Iraq, l’idea di portarvi la democrazia non era in agenda.

Liberato da questo peso, Mubarak ha deciso un serie di modifiche costituzionali che dovrebbero facilitare molto la conservazione del potere nelle mani del suo partito e la conseguente trasmissione di questo potere al figlio Gamal al termine del mandato presidenziale in corso (termina nel 2011). La cosa non piaceva all’opposizione e nemmeno all’opinione pubblica, quindi il National Democratic Party ( che possiede una robusta maggioranza) ha dovuto fare di necessità virtù e giocare un po’ sporco. Gli emendamenti sono stati votati nottetempo tra il 19 e il 20 di marzo e subito il presidente ha fissato il necessario referendum confermativo per il 26 marzo seguente. Sei giorni per organizzare una minima discussione o uno straccio di campagna elettorale sono sempre pochi, ma quando la discussione riguarda metà della Costituzione di un paese, sono una truffa. Per questo fin dalla mattina del 20 la zona del parlamento è protetta, fino ad essere isolata, da un gran numero di militari.

Secondo Amnesty International le modifiche rappresentano per l’Egitto la maggiore erosione dei diritti umani dal 1981, anno nel quale proprio Mubarak prese il potere e varò le prime leggi a detrimento della democrazia sull’onda dell’emozione dell’attentato a Sadat. Scontate le proteste dell’opposizione, alle quali si sono unite quelle dei giudici e dell’intellettualità egiziana non allineata al NDP.

Scendendo nel dettaglio si capisce che i provvedimenti sono orribili e la legalizzazione di una dittatura assoluta. Le modifiche coprono un ampio spettro, cominciando dal sistema elettorale. Poiché le ultime elezioni avevano scontentato parecchi giudici, che sfrontatamente hanno denunciato alcuni degli estesissimi brogli che caratterizzano le elezioni egiziane ai tempi di Mubarak, si è pensato di attribuire il controllo sul processo elettorale ad un organismo indipendente nominato dal governo e privo di reali poteri di indagine o sanzionatori. Quindi sarà Mubarak a stabilire se Mubarak ha barato alle elezioni e come eventualmente punire sé stesso. Alla tecnica elettorale attengono anche due divieti di nuova introduzione. Non sarà possibile presentare partiti di ispirazione religiosa (il che è come vietare la Democrazia Cristiana) e non sarà possibile per i singoli candidati correre alle elezioni se non patrocinati da un partito con almeno il 3% dei seggi in parlamento. Il provvedimento stronca i Fratelli Musulmani, che pur essendo un partito già vietato erano riusciti comunque ad ottenere 88 seggi grazie a candidati che si sono presentati come indipendenti, ma stronca anche la possibilità di presentare nuove formazioni e candidati al giudizio degli elettori.

La parte peggiore riguarda comunque la gestione della giustizia ed i poteri del governo in materia di ordine pubblico. Mubarak (il governo) potrà, secondo la nuova costituzione, disporre arresti, perquisizioni e intercettazioni a piacimento, citare in giudizio di fronte alle Corti Militari (inappellabili) chiunque sia sospettato di tramare contro l’ordine costituito. A tal fine la nuova Costituzione recepisce anche le leggi emergenziali e temporanee in materia di ordine pubblico, quelle appunto varate nel 1981. Per finire, Mubarak si è riservato il potere di sciogliere il Parlamento.

Gli USA ci sono rimasti male, ma non hanno fatto la voce grossa (Sean McCormack, delicatissimo, ha dichiarato che le modifiche “sicuramente pongono interrogativi sul fatto che il governo dell’Egitto abbia rispettato i suoi stessi standard e limiti) e nel resto del mondo, Amnesty a parte, nessuno è parso scandalizzarsi. Anche il internazionale si è limitato a riferire i fatti senza calcare la mano, è molto difficile trovare un paese nel quale l’infosfera riconosca a Mubarak la qualifica di dittatore, ma in fin dei conti accade lo stesso per i vicini dittatori di Libia e Tunisia, non c’è da stupirsi troppo, funziona così da sempre per gli amici. Trovare qualcuno che attacchi Mubarak o chieda di far pressione su di lui per riportarlo a più miti consigli è un’impresa quasi disperata, ancora meno facile è trovare qualcuno preoccupato della sorte degli egiziani.

Mentre attendevano i dati dello scrutinio i parlamentari di Mubarak hanno cantato in aula “con il nostro sangue e le nostre anime, noi sacrifichiamo noi stessi per te, Mubarak” testimoniando così l’esistenza di un culto della personalità che richiama infauste memorie di altre dittature. Il ministro degli Esteri Ahmed Aboul Gheit ha respinto le poche critiche sostenendo che gli stranieri non hanno il diritto “nemmeno di esprimere la loro opinione” sulla costituzione egiziana. Mubarak ha dichiarato senza esitazione che le modifiche sono parte di un pacchetto di riforme (il che farebbe supporre che non sia finita qui) che mirano ad aumentare la democrazia. C’è da credere che dal referendum del 26 uscirà il risultato gradito a Mubarak e che quindi l’Egitto uscirà dal novero dei paesi dotati di una costituzione più o meno democratica, per entrare in quello delle dittature poliziesche. Pare proprio che invece di portare la democrazia i piani americani abbiano favorito il rafforzamento dei governi dittatoriali ed autoritari in Medioriente. Mai come oggi gli autocrati dell’area hanno potuto dormire sonni tanto tranquilli; sfortunatamente non si può dire lo stesso per i loro amministrati, per i quali le speranze riformatrici vengono rimandate ad altra epoca.

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