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di Rosa Ana De Santis
Il linguaggio della politica, che ormai da quasi venti anni ha subito un progressivo svilimento di toni e contenuti, nell’ultimo periodo ha offerto una misera rappresentazione dell’oscena volgarità che tanti uomini e donne di partito non hanno più vergogna di esibire. Voci da stadio, da tifoserie inferocite, discorsi da bar. Ultimo, in ordine di tempo, l’immancabile Borghezio, sospeso dal gruppo Europa della Libertà e della Democrazia, per gli ultimi insulti al Ministro dello Sport, Josefa Idem. “Puttane” questo il termine con cui appella un Ministro della Repubblica e i suoi avversari politici: uomini o donne che siano.
Sempre lui si era unito al coro degli insulti razzisti dagli inizi dell’incarico del Ministro per la Cooperazione, Cecilie Kyenge, quando aveva annunciato la proposta di legge sullo ius solis. E sempre contro di lei era addirittura arrivato dalla pagina facebook, in una battuta di rabbia - come ha provato a difendersi Dolores Velandro consigliera della Lega a Padova - una frase shock del tipo “Nessuno che stupri la Kyenge?”, come a voler rammentare che gli stupri avvengano solo per mano degli stranieri. La Lega Nord non è al corrente, evidentementi, dei numeri del femminicidio, che vedono mariti e fidanzati italiani doc carnefici delle loro donne: stupratori, stalker e killer spesso mandati in carcere con pene ridicole, altro che immigrati irregolari.
In Italia, doloroso riconoscerlo, avere un Ministro con la pelle nera, scatena reazioni xenofobe a tutti i livelli e senza pudore, dentro le stesse aule istituzionali o davanti alla stampa. Siamo messi proprio così, mentre andiamo a Berlino a raccontare di essere “molto europei”. Sono arrivati a darle dell’ “ebete” per aver detto che gli stranieri immigrati rappresentano una risorsa per l’Italia. E’ nata addirittura una simpatica disquisizione etimologica sul significato di ebete in dialetto veronese attraverso cui il segretario della sezione locale, Marco Pavan, ha provato penosamente a salvare la faccia di un partito ormai sempre più sovrapponibile a un manipolo di beoni da osteria.
E’ormai diventata un’emergenza democratica vera e propria, troppo sottovalutata, quella di un partito che insulta un Ministro del governo e si fa portavoce delle più basse e meschine sotto idee razziste. Non che la storia della Lega sia nota per pensiero di spessore e raffinata diplomazia, ma mai si era arrivati al coro dell’insulto tanto volgare nei riguardi di un Ministro che ha la colpa di non essere bianca e di rappresentare tutto quello che il Carroccio non vuole: un Paese di seconde generazioni e multiculturale.
La parabola dell’orrore razzista aveva visto un altro pregiato esemplare nel post di una candidata leghista di Monza che sulla tragedia del canale di Sicilia e degli immigrati sopravvissuti aggrappati alle gabbie dei tonni aveva scritto quanto fosse un danno per gli italiani onnivori e vegetariani privarsi dei tonni piuttosto che salvare le vite dei migranti.
Anche questa volta il segretario della Lega Nord di Monza ha preso successivamente le distanze, ma la ferocia di certe troppe affermazioni è diventata a tutti gli effetti un leit motiv purtroppo prevedibile e tollerato. Una nota stonata con gli appelli di accoglienza che sono arrivati dal presidente Napolitano e dalla Boldrini alla vigilia della giornata del rifugiato.Se la questione è quella della legalità basta ricordare ai Borghezio di occasione che sono i padroncini italiani a voler mantenere gli stranieri in clandestinità garantendo la sopravvivenza di un autentico sistema di capolarato che non fa eccezione al Nord del Tevere, anzi. Succede in Franciacorta e sulle colline di Brescia per la vendemmia. Succede che gli stranieri lavorino mesi e mesi per leggere in busta paga di qualche giornata, succede che la paura alimenti un sistema di bieco sfruttamento che fa guadagnare soltanto i padroncini nazionali in una modalità che non era certamente quello che intendeva il Ministro Kyenge quando parlava di risorsa per la nostra economia.
Ma se la Lega vanta un glorioso primato di xenofobia, il vento del razzismo, come sempre accade nei periodi di crisi e come la storia insegna, non risparmia proprio nessuno. E’ stata infatti Caterina Marini, consigliera di Prato del PD, a scrivere su facebook ”Extracomunitari ladri dovete morire subito”. La frase, a seguito di un momento di rabbia personale, è stata subito cancellata, ma il PD sta maturando l’idea di espellerla.
La zona di Prato vive una conflittualità altissima con il lavoro straniero della comunità cinese, che ha ucciso di competizione sleale e illegale il tessile su cui la provincia viveva ed è come tante altre zone italiane spremuta dalla crisi con l’inevitabile odio sociale tra poveri che si chiama razzismo e xenofobia. Ma è doveroso alzare il livello di guardia quando sono figure politiche, partiti e istituzioni a tutti i livelli, e non la gente comune, a diventare il megafono di sentimenti di pancia pericolosi e bassi.
L’emergenza reale è questo abbassamento della politica all’ordinarietà popolare e le parole, come teorizzava Habermas, sono fatti. Fatti che insegnano che la politica, aldilà dei colori, non sa più guidare, istruire, assegnare un progetto alle azioni del giorno. Non sa più aggiungere un orizzonte al provvedimento di turno. E’ questa fine dell’idea a consegnare, specialmente le persone più semplici, all’illusione che l’odio per la differenza sia la cura della propria miseria.
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di Fabrizio Casari
L’ultima a ricevere il regio-decreto di espulsione è stata Adele Gambaro, senatrice, colpevole di aver detto ciò che pensa e non ciò che gli è permesso dire. Espulsa da un ridicolo referendum via web che ha fatto seguito ad una ancor più ridicola riunione dei parlamentari del M5S che sembrano non riuscire a fermare la tendenza al grottesco. Di espulsione in espulsione, di scissione in scissione, ciò che fu assoluta novità politica delle ultime elezioni sta progressivamente diventando una vicenda tragicomica.
Autoavvitatosi su se stesso, il M5S continua da mesi ad offrire uno spettacolo penoso sotto il profilo delle più elementari norme di democrazia interna. Sanzioni verso chi pensa, espulsioni verso chi parla, gogna mediatica per chi addirittura “dissente”. Il loro capo, Beppe Grillo, minaccia, grida, insulta e accenna a presunti ritiri del simbolo; somiglia ormai sempre più al “Caro leader” Kim-Il-Sung in versione 2.0 e i meccanismi di discussione interna al movimento appaiono sempre più come copie del modello nordcoreano.
Grillo ormai sembra in preda dei suoi istinti isterici; non riesce più a parlare ma solo a urlare e, nel pieno di una crisi da ego ipertrofico, indice referendum su se stesso e invoca il pubblico ludibrio a chi osa criticarlo. In un rovesciamento folle del primato tra il primario e il secondario, può divenire capogruppo la “cittadina” Lombardi che scopre nascoste virtù nel fascismo ma non può rimanere nel gruppo chi ritiene che sia Grillo a sbagliare. E’ probabile del resto che un modello di organizzazione che prevede il Capo e gli adepti, non possa avere diverso delinearsi e quello dei partiti personali è ormai un virus diffuso che vede nella dialettica politica e nella democrazia interna le sue prime vittime.
Grillo, bisogna ammetterlo, si è trovato assolutamente spiazzato dai risultati elettorali, che mai avrebbe previsto nella portata quantitativa poi verificatasi. L’assoluta incapacità politica, miscelata con un senso d’onnipotenza, è stata la combinazione fatale che gli ha fatto perdere la rotta insieme alla ragione.
Una flotta di eletti senza capo né coda, in molti casi privi di ogni cultura politica e istituzionale, si sono trovati alle prese con problemi enormi nel processo di trasformazione dalle urla e dai luoghi comuni in proposte politiche concrete e il loro guru, come uno Schettino qualunque, li ha portati a rovesciarsi su un fianco. La diaria e i rimborsi, lo streaming (ma solo per gli altri), i denari di cui non si parla e le liti da cortile interne per un po’ di visibilità hanno sostituito proposte e azioni che avrebbero dovuto rappresentare la nuova politica.Si deve però precisare, per chiarezza, che quando si parla di “grillini” s’incorre in errore: i grillini non esistono, esistono Grillo e Casaleggio. Sono loro che decidono, loro che dispongono, loro che designano e loro che ammoniscono e sanzionano. Esistono, e sono numerosi e degni di assoluto rispetto, gli elettori del M5S, ma non il M5S.
La storiella dell’uno che vale uno è roba per web-gonzi. Come quella della trasparenza nelle decisioni, che propone in diretta web le riunioni con gli altri partiti, ma nulla fa sapere delle riunioni interne, soprattutto quando sono indette per dare luogo a rese dei conti. Il che non toglie valore ad alcune delle loro proposte né riduce il peso degli errori e delle castronerie già abbondanti; semplicemente dà a Grillo quel che è di Grillo.
In qualche modo, l’involuzione rapida del “grillismo” non è una sorpresa assoluta; in fondo, del ventennio berlusconiano Grillo è un prodotto, per quanto s’immaginava un percorso diverso. Solo dopo questo ventennio di ubriacatura totale delle coscienze, di azzeramento pressocchè definitivo della dignità di nazione, della nostra stessa storia, ha potuto affermarsi un modello di partito personale a struttura proprietaria, amministrato come un’azienda e concepito come una protesi degli interessi del padrone.
Con la distruzione delle identità popolari è venuta meno l’idea di partito come intellettuale collettivo, come comunità di uguali e come luogo di studio e di militanza, di elaborazione, di analisi e proposte destinate ad un progetto politico e ideale. Quell’idea della politica è stata azzerata dall’ingresso sulla scena di miliardi e televisioni, di guitti e capocomici, di ribaltonisti di professione, revisionisti a tempo pieno e affaristi dal fiuto sviluppato e dalle potenti mascelle.
Nella crisi del M5S sembra di rivedere la storia di fenomeni come L’Uomo Qualunque, nel primo dopoguerra, e il più recente Patto Segni, meteore del gioco politico in poco tempo esplose e poi implose, fagocitate dal sistema e suicidatesi grazie agli errori dei suoi capi.
Un cupio dissolvi che però, nel caso del M5S, lascia l’amaro in bocca a chi ha creduto potesse essere l’inizio di una nuova storia. Ormai le accuse di complotto, le minacce via web e le espulsioni non fanno nemmeno più notizia, sono entrate a pieno titolo nel dizionario penoso del ceto politico, sancendo così la definitiva normalizzazione di ciò che si riteneva diverso dal resto.
Per chi, pur senza votarlo, aveva intravisto però nel Movimento 5 Stelle una possibilità di recupero dal basso delle ragioni per un nuovo impegno politico, che aveva trovato nell’idea orizzontale dell’organizzazione politica un modo per superare i sepolcri imbiancati delle consorterie di partito, è l’ennesima, cocente delusione. Li si voleva vedere all’opera, si voleva toccare con mano la praticabilità dell’utopia, l’irruzione gentile del male di vivere nelle segrete del privilegio.
Sì, la speranza è che il teatro dell’assurdo veda rapidamente la fine, che le energie migliori di questo percorso possano trovare un luogo libero da dove ripartire, ma la delusione è grande. Il rischio è che di fronte a tanto sprezzo del ridicolo qualcuno possa riassegnare, di converso, una qualche credibilità ai partiti attuali, così da delineare il danno oltre che la beffa. Ci si aspettava la fine di Berlusconi e grazie a manovrette alla Mastella ce lo troviamo al governo; ci si aspettava la cacciata del partito dei manager e ce li ritroviamo al governo anch’essi, benché trombati. Ci aspettavamo il governo del cambiamento e ci troviamo davanti alla realtà che non cambia, ci aspettavamo che il Movimento ci portasse allo scontro, salvo scoprire che si arena sugli scontrini. Andiamo avanti. Sarà per la prossima volta.
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di Fabrizio Casari
Un sedici a zero è punteggio per il quale, normalmente, non servirebbero commenti. La forza dei numeri, come quella dei fatti, risiede nell’oggettività e mal si adatta a tentativi di piegarli verso un’interpretazione o un'altra. Ma la debacle del centrodestra e il trionfo del centrosinistra nelle amministrative necessitano comunque di alcune osservazioni a margine, se non altro per capire cause e riflessi si un voto che sembra così distinto e distante da quello delle politiche di tre mesi addietro.
Particolarmente significativa la vittoria di Ignazio Marino a Roma, che ha doppiato il sindaco uscente Ale-danno, mettendo così fine ad una amministrazione capitolina rivelatasi la peggiore nella storia della città. Ma complessivamente la vittoria del centrosinistra ha assunto forma di valanga. Un centrosinistra che sembra ritrovare una parte del suo elettorato e, spesso, si mobilita sul piano locale, cioè nelle occasioni di relazioni di prossimità maggiore tra elettore ed eletto.
Molti dei candidati del PD - Marino soprattutto - sono poi decisamente più progressisti e laici del profilo medio dei dirigenti nazionali del proprio partito e propongono accordi politici a sinistra invece che l’inciucio con il PDL. Se il PD però ritenesse che la vittoria dei suoi candidati segni l’inversione di tendenza e in qualche modo attenui dibattito e scontro congressuale, commetterebbe un marchiano errore di valutazione.
La destra, invece, si dimostra un contenitore vuoto. Oltre alla scarsa presentabilità di alcuni candidati, trova nell’assenza del suo leader dalla competizione l’assenza tout-court di affascinamento politico. Berlusconi, infatti, è l’unico a poter ingaggiare una competizione elettorale con capacità di proporre magari il nulla ma comunicandolo benissimo; le sue campagne, infatti, pur se sostenute da bocche di fuoco impressionanti della propaganda, si giovano comunque della sua capacità indiscussa sul terreno della comunicazione-marketing. Senza Berlusconi che la guida, la destra italiana è una marmaglia di capi bastone e picciotti senza spessore, che si mordono vicendevolmente per accaparrarsi la maggior quota possibile di bottino, ma risultano privi di qualunque capacità di seduzione. Evocano mazzette più che sogni.
Del resto, in vista del “rompete le righe”, gli ex-AN si sono costruiti il partitino domestico, il PDL è ormai tavolo sotto il quale si consumano le diverse rese dei conti e la Lega, pure impegnata nella guerra interna tra Bossi e Maroni, paga il malgoverno di questo ventennio nelle città del Nord. Il venir meno fisiologico prima che politico, della ledership di Berlusconi, se oggi lo si misura con la debacle elettorale a livello amministrativo, più avanti lo si verificherà nell’impossibilità di mantenersi come progetto unitario. L’uscita di scena di Berlusconi, infatti, porterà ai mille rivoli della destra, conseguenza inevitabile della miscela ideologica contenuta e controllata solo dalla difesa degli interessi del capo che, vincendo, garantiva tutti.C’è poi da registrare il risultato non certo brillante del Movimento Cinque Stelle. Vittima del suo isolamento e della teoria sull’equidistanza nelle responsabilità del malgoverno tra destra e sinistra, in ogni elezione a doppio turno i voti che ottiene al primo non risultano spendibili per il secondo.
Perché il rifiuto di realizzare accordi di governo anche a livello locale con il centrosinistra (pure in certe aree molto meno lontano da ciò che le urla isteriche di Grillo provano a nascondere) privano il M5S di spazio di agibilità politica, ne minano nel profondo il valore d’uso.
E’ una dote, quella elettorale del M5S, non capitalizzabile perché non spendibile; un voto a perdere dove i grillini non hanno possibilità di vittoria diretta, cioè nella maggior parte dei casi. Di conseguenza, il primo partito italiano per numero di voti diventa anche il più inutile in un panorama politico frammentato dove l’impraticabilità della relazione con gli altri partiti non rende possibile nessuna alleanza.
C’è da dire che è ben comprensibile la volontà di non costruire relazioni ed alleanze: passare da una maggioranza relativa teorica e numerica, ad una maggioranza assoluta politica e programmatica, comporta la sfida del governo. E governare significa sporcarsi le mani, passare dalle urla ai ragionamenti, dall’ipotetico al praticabile, dalla suggestione alla viabilità delle idee; tutto cambia. Un vaffanculo non è un programma e a volte, oltre che un grido liberatorio, si trasforma in un boomerang.
Il centrosinistra rialza la testa grazie al combinato disposto di due fattori: la maggiore e migliore presentabilità dei candidati pressocchè ovunque e un’astensione altissima, che notoriamente investe il ventre molle dell’elettorato, quello cosiddetto d’opinione, che spesso è meno ingaggiato politicamente in forma diretta. Le ragioni dell’ormai massiccio disertare delle urne sono diverse e il fenomeno, che non si affacia per la prima volta ma che risulta ricorrente negli ultimi anni, ha spiegazioni contingenti e politiche.
Intanto va detto che strutturalmente, le elezioni con doppio turno, quale che sia la posta in palio, vedono sempre alla seconda tornata un numero fisiologicamente minore di elettori che tornano a votare: quello di recarsi al seggio, in fondo, non è tra i divertimenti più ambiti. A questo si aggiunge però un altro elemento che è politico: nel secondo turno, una quota significativa di elettori deve votare per il candidato che appare meno lontano, non per il più vicino. Per gli elettori i cui partiti non sono arrivati al secondo turno, la preferenza in sede di ballottaggio più che un voto convinto risulta un voto al “meno peggio” e non a quello che si vorrebbe votare.Ma l’aspetto più generale che riguarda la disaffezione crescente dal voto è certamente rappresentato dall’incrinatura ormai conclamata nella relazione tra rappresentanti e rappresentati, su cui si sostanzia il principio della delega in democrazia. I partiti non sono più né l’intellettuale collettivo di gramsciana memoria, né la comunità di uomini e donne animate da un progetto di società condiviso; sono sempre di più lontani non solo da idealità ma persino dal senso comune, risultano sempre più incapaci di connettersi sentimentalmente con lo stesso proprio elettorato e vengono percepiti come circoli chiusi riservati a cricche interne, impermeabili alle istanze della popolazione.
La strada per riaprire il dialogo tra elettori e partiti nel centrosinistra potrebbe essere tracciata anche dalla crisi di progetto a medio termine della destra italiana. Scoprire la sinistra diffusa, quella che indice referendum sui beni comuni, si batte nelle realtà locali contro lo scempio del territorio, i progetti faraonici, l’aumento delle spese militari e il recupero del lavoro quale asse centrale del patto sociale, sempre meno riesce ad entrare nelle sedi del PD e poco entra anche in quelle di SEL.
Sarebbe bene che si aprissero meglio tutti per far entrare aria nuova, che sfuggissero alla logica dei fedelissimi. La contaminazione con l’esterno è la sola via di rinascita, un percorso obbligato per trasformare una vittoria contingente in una di prospettiva. Quelle con il popolo della sinistra sarebbero le larghe intese da perseguire.
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di Carlo Musilli
Da venerdì scorso la legge per tagliare il finanziamento pubblico ai partiti esiste, ora si tratta di approvarla in Parlamento. Il percorso probabilmente non sarà dei più semplici e qualche modifica al testo varato dal Consiglio dei ministri è addirittura probabile. Al momento, comunque, si punta ad abolire i finanziamenti gradualmente fra l'anno prossimo e il 2017, sostituendoli a poco a poco con i contributi dei privati, che godranno di sgravi fiscali variabili a seconda della donazione (del 52% fra i 50 e i 5 mila euro e del 26% fino a un massimo di 20 mila euro), ma a partire dal 2016.
Dalla stessa data, inoltre, sarà possibile destinare il due per mille nella dichiarazione dei redditi ai partiti (per chi non vuole, allo Stato), che potranno anche usufruire di spazi e servizi gratuiti o scontati.
Ma prima ancora di entrare nel merito delle misure proposte e delle possibili correzioni, sorgono un paio di dubbi. Primo: era davvero questo uno dei primi interventi da mettere in cantiere con il "governo di servizio" guidato da Enrico Letta? Secondo: non c'è il rischio che la riforma consenta ai partiti maggiori di incassare lo stesso, danneggiando invece le formazioni minori o alternative?
In molti fanno notare che l'anomalia italiana non riguarda i finanziamenti in sé. Anzi, a livello puramente teorico, che lo Stato garantisca sostegno finanziario a chi si impegna in attività politiche è perfino un principio democratico, altrimenti questo diritto sarebbe esercitabile soltanto da chi può permetterselo. Uomini come Silvio Berlusconi, che vent'anni fa fondò in pochi mesi un partito personale, o semplicemente le forze politiche più ramificate e influenti, quelle in grado di ottenere un cospicuo appoggio non solo dai portafogli dei militanti, ma anche dalla pletora di lobby interessate a distribuire favori per poi riceverne. E' evidente che se un gruppo di cittadini qualsiasi decidesse di formare un nuovo partito contando solo sulle donazioni private avrebbe ben poche possibilità di successo.
Certo, la situazione attuale non è sostenibile. Ma il vero problema è altrove: ossia nella quantità dei fondi che sono stati distribuiti finora e soprattutto nelle modalità di assegnazione. Il punto è che nessun Lusi deve più comprarsi casa con i soldi pubblici, nessun Belsito deve più sgraffignare diamanti con i fondi che avrebbe dovuto dare alle sezioni.
Fin qui sono mancati i controlli e le rendicontazioni, anche perché la prassi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è sempre stata viziata a monte: le risorse destinate ai partiti avrebbero dovuto essere dei rimborsi sulla base di spese certificate, invece erano di fatto dei finanziamenti (una pratica contro cui, peraltro, gli italiani avevano espresso il proprio dissenso via referendum ormai un paio di decenni fa). Ora la certificazione dei bilanci diventa obbligatoria, ed è questo il passo avanti più importante.
Il secondo tema riguarda l'uguaglianza di trattamento garantita alle forze in campo. Il ddl approvato dal Consiglio dei Ministri prevede che per accedere a tutti i benefici previsti i partiti debbano avere uno statuto che preveda "requisiti minimi idonei a garantire la democrazia interna". Al di là della vaghezza di una simile formulazione (chi giudicherà questi "requisiti minimi"?) è inevitabile leggere nella postilla una chiara (e goffa) volontà di marginalizzare il Movimento 5 Stelle, che infatti ha già gridato allo scandalo.
Senza statuto non si potrà usufruire nemmeno della manna dal cielo prevista nel comma 2 dell'articolo 4 a proposito di quel famoso due per mille: "In caso di scelte non espresse - si legge nel testo - la quota di risorse disponibili, nei limiti di cui al comma 4, è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse". Il limite è di 61 milioni di euro e dovrebbe essere facilmente raggiungibile anche se la maggior parte dei contribuenti decidesse di devolvere i soldi allo Stato. Sembrerebbe poca cosa, se paragonata ai 160 milioni che i partiti si sono spartiti dopo le ultime elezioni. Peccato che, a quanto pare, i "limiti di cui al comma 4" facciano riferimento a una quota da incassare ogni anno.
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di Fabrizio Casari
Leggendo i risultati della tornata di elezioni amministrative ci sono quattro elementi che risultano evidenti oltre ogni ragionevole dubbio: il voto è ormai rito di minoranza, nella migliore delle ipotesi di maggioranza risicata; il centrosinistra pare voler tentare una complicata resurrezione grazie alla disciplina repubblicana della quale i suoi elettori sono dotati; il Movimento 5 stelle ha già iniziato a pagare il conto del suo posizionamento inutile al fine del cambiamento e si presenta ormai come un mix di scelte politicanti e incapacità di governo del suo stesso consenso elettorale; la destra, priva di Silvio Berlusconi, è priva anche di ogni speranza di vittoria politica.
L’astensionismo è figlio naturale dell’assenza della politica dai temi che riguardano la vita delle donne e degli uomini. Accartocciata sui gorgoglii di stomaco dei funzionari UE, incapace di trovare risposte alla crisi economica ed a quella democratica che ne consegue, risulta inutile anche ai all’esigenza di rappresentanza della maggior parte della popolazione, che quindi vota più che mai “contro” qualcuno e qualche sigla, più che “per” qualcosa da fare. Ma intanto, visto che il dibattito sulla legge elettorale è in corso, si può dire che senza il Porcellum qualcuno vince sempre. Per i Comuni e le Regioni, dove l’infernale trappola di Calderoli non trova applicazione, i risultati sono infatti netti. Dunque una buona legge elettorale serve eccome a garantire la governabilità.
Il risultato più importante, ad oggi, è quello di Roma, dove l’ottimo Marino riscuote un successo notevole al primo turno. Sembrerebbe l’esibizione di un certificato di esistenza in vita da parte del PD, ma non è di questo (o almeno non solo) che si tratta, dal momento che l’emorragia di voti non cessa. Il motivo di questo successo romano risiede invece nel candidato, tanto nelle posizioni da lui espresse che nel modo stesso di candidarsi.
Marino ha vinto le primarie contro la nomenklatura del partito, che infatti poco e male lo ha sostenuto; ha poi espresso chiaramente il dissenso dal governo delle larghe intese, ha reiterato come vadano ampliate le distanze tra le due sponde del Tevere in materia di diritti civili ed ha avuto il coraggio di dimettersi da Senatore prima e non dopo il voto. Si è quindi candidato a sindaco di sinistra, riproponendo concetti e programmi che sono patrimonio di una sinistra attenta al sociale e che di liberale ha solo la cultura dei diritti civili.
Medici, il candidato della sinistra che si sente talmente a sinistra fino a scomparire dalla mappa, ha ottenuto una percentuale insignificante, il cui unico risultato utile è stato quello di non ampliare eccessivamente le distanze per il ballottaggio, così da impedire eccessi di sicurezza e rilassamento nei prossimi quindici giorni che ci separano dal voto decisivo. Spicca poi il fallimento del M5S, che ha presentato un personaggio davvero poco convincente e che si è sommato al disamore già autosviluppatosi verso Grillo, che solo pochi mesi prima aveva convinto tanta parte dell’elettorato di sinistra a votarlo alle politiche. I deliri dei suoi capigruppo, i riti dello show cominciati con il Presidente e finiti con gli scontrini, la commedia della trasparenza che diventa però omissis quando Report chiede lumi sui conti di Grillo e Casaleggio, hanno già prodotto l’effetto boomerang del famoso vaffanculo.
La destra, sconfitta in tutta Italia e con ogni veste con la quale si è presentata (Lega, FI o ex AN) come si diceva si conferma in crisi di credibilità quando il suo proprietario, Silvio Berlusconi, non scende direttamente in campo con le corazzate televisive e la pioggia di denari. La Lega di Maroni viene ridotta ai minimi termini proprio sul terreno che più le era congeniale, quello dell’insediamento territoriale a livello locale. Un terreno che ha sempre rappresentato l’esercito di riserva di voti che il Carroccio ha dispiegato sul tavolo del PDL per ottenere un ruolo politico nazionale, a fronte di un ruolo locale decisivo al Nord in virtù anche del disegno dei collegi e delle circoscrizioni elettorali ulteriormente viziato dal Porcellum.
E se nelle città “rosse” il centrosinistra ritrova in buona parte il suo elettorato, riscendendo verso Roma va detto che c’entra davvero poco il derby nella sconfitta di Alemanno. La partita dura due ore, per votare ce ne sono a disposizione 24. Oltre tutto, molti di quelli che affollano le curve sono gli stessi che disertano le urne. Ma il fatto è che Alemanno (a Roma da tutti chiamato Ale-danno) è stato il protagonista nero di cinque anni di sfascio totale della città eterna.
Tra parentopoli e malgoverno, spocchia e incapacità, conti alla deriva, apologia di fascismo a ciclo ininterrotto e reingresso dalla porta di servizio di figuri usciti da ogni inchiesta criminale (sia essa di terrorismo che di delinquenza comune) la città è piegata e piagata come non mai. Ale-danno è stato, né più né meno, il peggior sindaco della storia della città.
Anche il risaputo vestito di nuovo non ha avuto miglior sorte. Arfio Marchini si è infatti attestato sulla stessa soglia della Lista Civica di Monti alle politiche. D’altra parte essere attore primario in società pubbliche e private, rappresentare interessi e lobbies di ogni tipo (in particolare immobiliari) e presentarsi poi in pubblico come il salvatore della patria, presupporrebbe che gli elettori fossero completamente scemi. Così non è.
La Roma avvilita e depressa, incattivita e intollerante, prepotente ma frustrata, sa riconoscere - in mezzo a tutti i suoi difetti e le sue perversioni - la differenza che passa tra chi soffre e chi gode, tra le migliaia di famiglie senza niente e le teste cotonate che regnano e hanno sempre regnato girando le forchette sul tessuto urbanistico e sociale della città e che, per colmo di sfacciataggine, si presentano indicando le ricette per il male che essi stessi hanno contribuito a creare.
C’è ancora da lavorare prima di chiudere la partita a Roma e in altre città. Vietato sedersi pensando che ormai è fatta, la rimonta di Ale-danno su Rutelli lo insegna. E vietato anche pensare, stupidamente, che uno in fondo vale l’altro, perché mai la distanza tra due concezioni della politica e dell’etica sono state più distanti come tra Marino ed Alemanno. La città non può sopportare altri cinque anni di scandali e affari all’ombra del Campidoglio e sotto le tonache d’Oltretevere.
Il Centrosinistra dovrà intensificare gli sforzi e proporre davvero un nuovo progetto di rinascita per la città, un modello di governo alternativo al dominio dei poteri forti. E dovrà trovare ogni comunanza con la sinistra più autentica, che non è rappresentata, quella delle moltitudini silenziate. Sì, proprio quella sinistra che affollava le vie di Genova ai funerali di Don Gallo, dovrà mobilitarsi per far vincere Marino e iniziare da Roma, con tenacia e pazienza, ad aprire un varco che diventi, tra quindici giorni, la nuova breccia di Porta Pia.