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di Carlo Musilli
Quando la strada finisce e davanti c'è il vuoto, le alternative sono tre: tirare fuori le ali e volare, fare un altro passo e cadere, oppure tornare indietro. Non è una scelta semplice quella che deve prendere Angelino Alfano. Lui lo sa e cerca di guadagnare tempo. Il conto alla rovescia però sta scadendo, perché Silvio Berlusconi ha deciso di accelerare il processo che porta alla rinascita di Forza Italia.
L'azzeramento delle cariche è già deciso: tutti i poteri della rediviva Fi si concentrano nelle mani del Cavaliere. Una mossa che soddisfa la corrente guidata da Raffaele Fitto, alfiere degli oppositori all'ascesa del vicepremier.
Ieri Alfano ha cercato fino all'ultimo di convincere Berlusconi a prodursi nell'ennesimo ripensamento. Dopo aver fallito, ha disertato la riunione dell'Ufficio di presidenza pidiellino, la stessa che per tutto il giorno aveva cercato di far cancellare, e si è riunito con i suoi per discutere le contromosse. Sembrerebbe un segnale di rottura, la definitiva scissione fra "governativi" e "lealisti", ma Alfano ha voluto interpretarla a suo modo: “Il mio contributo all'unità del nostro movimento politico, che mai ostacolerò per ragioni attinenti i miei ruoli personali – ha scritto –, è di non partecipare, come faranno altri, all'Ufficio di presidenza che deve proporre decisioni che il Consiglio nazionale dovrà assumere. Il tempo che ci separa dal Consiglio nazionale consentirà a Berlusconi di lavorare per ottenere l'unità”.
Insomma, la sua assenza alla riunione sarebbe stata un "contributo all'unità del partito". Sembra davvero un paradosso, ma a ben vedere le parole più significative della nota sono altre: è quel "come faranno altri" a dare la misura della spaccatura che divide i pidiellini. Alla riunione di ieri, ad esempio, non era presente nemmeno il capogruppo al Senato, Renato Schifani, anche lui impegnato a "lavorare per l’unità del partito". Stesso discorso per Giovanardi e Formigoni.
Divisi nei fatti, uniti a parole, tutti concordi nel tenere bassa la voce, almeno per il momento. L'atto finale dello spettacolo andrà inscena proprio in quel "Consiglio nazionale" evocato da Alfano, che potrebbe svolgersi l'8 dicembre (lo stesso giorno delle primarie del Pd). In quell'occasione il Pdl si riunirà in massa e si potrà fare la conta per stabilire il vincitore.
In verità la scissione sembra inevitabile, avendo Alfano detto e ripetuto che non intende far parte di una nuova formazione fatta di "estremisti" ostili al governo Letta. Ma dalla teoria alla pratica il passo non è breve. I "governativi" sono a un bivio decisivo. Dopo la ricostituzione di Forza Italia, potrebbero scegliere di formare gruppi parlamentari autonomi per dare stabilità all'Esecutivo e conservare la poltrona.
I numeri al Senato dovrebbero bastare (alla Camera non serve fare i conti: grazie al Porcellum il Pd ha già la maggioranza assoluta). A inizio ottobre, infatti, quando Berlusconi sembrava sul punto di votare contro la fiducia al Governo – proposito poi abortito con un ripensamento dell’ultimo minuto –, il Premier aveva chiarito che l’eventuale strappo del Cavaliere non avrebbe comunque portato alla caduta del Governo.
Tuttavia, se gli alfaniani decideranno di rompere, lo faranno nella consapevolezza che c’è una scadenza elettorale molto vicina, ovvero le europee, in cui dovranno dimostrare di avere non solo un’identità politica (finora non pervenuta), ma anche un dignitoso seguito popolare. Avranno la responsabilità di creare una destra capace di esistere e sopravvivere fuori dall'orbita berlusconiana: una destra davvero "moderata", in grado di proporsi come alternativa agli “estremisti”di Forza Italia e agli ex fascisti già confluiti in Fratelli d’Italia. Una destra degna di reclamare la propria appartenenza al Partito popolare europeo.
Le colombe pidielline hanno spalle abbastanza larghe per sostenere un peso del genere? Probabilmente no, e non è affatto detto che gli convenga. Oltre a tutte le difficoltà politiche, non va dimenticato il versante finanziario: comunque vada a finire, le chiavi della cassaforte resteranno in mano al Capo di sempre. Insomma, l’ombrello berlusconiano non sarà eterno, lo sanno tutti, ma abbandonarlo ora vorrebbe dire lanciarsi nel vuoto.
La scappatoia esiste: Alfano e i suoi potrebbero abbassare la testa, accettare l’azzeramento imposto dall’alto e continuare ad libitum lo scontro interno. Berlusconi gradirebbe questa prospettiva, e per convincere i "governativi" ha assicurato che Forza Italia continuerà a sostenere l'Esecutivo. D'altra parte, nemmeno i suoi margini di manovra sono ampi.
Il Cavaliere è stretto nella morsa dei guai giudiziari: da una parte la condanna definitiva per il caso Mediaset, l'interdizione biennale dai pubblici uffici, l'imminente decadenza dal Senato e la conseguente perdita dell'immunità parlamentare; dall'altra il rinvio a giudizio da parte della Procura di Napoli per il caso De Gregorio, che sostiene di essere stato corrotto con tre milioni di euro per passare dall'Idv al Pdl e far cadere così l'ultimo governo Prodi.
L'intero scenario compromette gravemente le prospettive politiche di Berlusconi. E non solo perché non potrà ricandidarsi. Allo stato attuale, molte domande restano senza risposta: se, dopo la decadenza del Cavaliere, i falchi riuscissero nell'impresa (improbabile) d'imporre il ritorno alle urne, a chi verrà affidato il compito di portare avanti la campagna elettorale? Chi sarà il candidato premier? Non certo Alfano, a meno di clamorose piroette dell'ultimo minuto.
Comunque vada a finire, una riconciliazione convincente del centrodestra non sembra praticabile. La parte governativa del Pdl cova un desidero di ribellione, ma per il momento non è in grado di fare il passo decisivo, né è sicura di volerlo. Berlusconi se n'è accorto, per questo ha deciso di sfilare all'ex delfino la poltrona di segretario. Comunque vada a finire, il Cavaliere conferma l'unico assioma della sua storia politica: chiunque lavori in Parlamento senza avere come unica stella polare gli interessi del Capo, è un nemico del partito. Perché il Capo è il partito, e il partito è il Capo.
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di Rosa Ana De Santis
Solo quest’anno sono 1.608 i bambini arrivati sull’isola, di questi 1.297 senza familiari. I più piccoli accompagnati dalle famiglie o dalle sole madri, molti gli adolescenti soli. Quasi 3.000 si trovano a Siracusa non in strutture adeguatamente attrezzate per l’accoglienza di questi casi. C’è Save The Children a monitorare tutte le fasi dell’accoglienza e a lanciare l’allarme del sovraffollamento e della penuria di misure specifiche per i bambini, specialmente per quelli sbarcati senza più nessuno.
La proposta di legge avanzata su questa materia, che prevede punti di accoglienza specifici per i bambini e la costituzione di un fondo nazionale ad hoc, di procedure di identificazione più puntuali per ora è ferma in Parlamento.
Sono moltissimi i giovanissimi che arrivano dalla Siria magari dopo esser stati in carcere, i più piccoli invece di solito sono eritrei e arrivano con le loro mamme. Più che orfani si tratti di figli che hanno deciso il viaggio della speranza proprio per aiutare i loro cari rimasti nel paese d’origine.
Quando arrivano nei centri per rifugiati o di accoglienza, molti rifiutano di essere identificati per proseguire il viaggio in altri paesi europei, molti altri vengono presi in carico, anche se non adottabili, in attesa di trovare una sistemazione o più spesso di finire invisibili e clandestini nel Paese. La verità è che quest’accoglienza disorganizzata e massiccia non consente di adottare misure selettive e dignitose per consentire a questi minori, che prima di tutti dovrebbero essere tutelati, di proseguire un percorso di inserimento adeguatamente assistito nel Paese di accoglienza, che sia l’Italia o altra meta europea.Ad oggi possiamo dire che l’approdo dei bambini è stato gestito e affrontato in modo omogeneo a quelli degli adulti per mancanza di mezzi economici o più verosimilmente per l’assenza di una politica a monte che sapesse gestire l’odissea ininterrotta dei barconi non più come un’emergenza sporadica. Chissà se la task force del governo porterà in questo senza dei miglioramenti significativi.
Un passo fondamentale sarebbe proprio quello di individuare un percorso mirato per i minori, con un fondo proprio, degli operatori competenti e dei percorsi specifici di accoglienza.
Un bambino prima di tutti gli altri non può ritrovarsi in un centro di espulsione qualunque, somigliante ad un carcere e con condizioni igienico-sanitarie disperate e in un clima di detenzione. Non dovrebbe trovarvi posto nessuno, ma i bambini meno che mai.
Si potrebbe pensare a degli affidamenti temporanei presso le molte famiglie che fanno richiesta o all’inserimento presso case famiglia. Dall’Europa stanno arrivando altri due milioni di euro proprio per il piano Italia accoglienza, dopo averne ricevuti 200 negli ultimi due anni.
Forse, dato che siamo in linea con altri paesi europei e soffrendo di più solo gli sbarchi per le ovvie ragioni geografiche, sarebbe caso di controllare voce per voce la lista della spesa: le competenze, gli sprechi e le mafie di chi ha manovrato questi soldi della solidarietà, il business sporco dei centri di accoglienza temporanea, che offrono lager al prezzo per lo Stato di hotel a cinque stelle.
Sospinto e ingigantito dall’emergenza dei migranti, non è difficile intuire che il problema numero uno è ancora una volta al di qua di Lampedusa.
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di Carlo Musilli
La legge sarà pure uguale per tutti, ma l’autodifesa non lo è di sicuro. In Italia, un comune mortale che viene perseguito ha a disposizione tre gradi di giudizio per discolparsi. Un Silvio Berlusconi, invece, può moltiplicare quei gradi a suo piacimento, quantomeno negli occhi e nelle orecchie della gente comune. Sorvoliamo sulla telenovela in giunta al Senato e sui ricorsi vari ed eventuali alla Consulta, a Bruxelles, a Lussemburgo e a Paperopoli. Lasciamo stare le sedi del potere ufficiale e accendiamo la tv.
Da qualche tempo a questa parte le reti Mediaset ci propongono con regolarità ipnotica diversi spot autoreferenziali. Nel migliore dei casi si possono definire autocelebrativi - ai limiti dell’agiografia -, ma la verità è che si tratta in primo luogo di caroselli pensati per ripulire l’immagine dell'azienda e del Cavaliere, lordata dalla condanna definitiva per frode fiscale al termine del processo sulla compravendita dei diritti Mediaset. Una vicenda che, dobbiamo ricordarlo, non riguarda direttamente il gruppo editoriale di Cologno Monzese: il presidente Fedele Confalonieri è stato assolto e l’azienda non è stata condannata. Per ricollegare quei filmati al destino del Capo, tuttavia, non serve proprio Sherlock Holmes.
Ogni elemento degli spot contribuisce a creare un’atmosfera di rassicurante tepore domestico: i colori caldi, la voce suadente fuoricampo, l’eleganza, la pacatezza e lo zelo degli impiegati al lavoro. E, com’è ovvio, la retorica verbale studiata fin nel dettaglio più insignificante.
Una delle opere recita così: “Qui non incassiamo finanziamenti pubblici. Qui non siamo colossi americani. Qui contiamo solo sulle nostre forze. E qui ogni mattina arrivano migliaia di persone che cercano di fare il massimo per regalarti una televisione moderna, vivace e completa. Undici reti gratuite e centinaia di programmi in onda ogni giorno, anche su internet, che non ti costano niente. Niente. Nemmeno un bollettino postale. Così, giusto per ricordarlo”.
Notevole l’anafora iniziale, con la ripetizione epica dell’avverbio di luogo. Parole fastidiose come “pagare” e “tasse” sono accuratamente evitate. Il “Noi” a poco a poco abbraccia il “Tu”, ed è un po’ come addormentarsi fra le braccia calde e sicure di Gerry Scotti. Quanto ai contenuti, fin dalla prima esegesi emergono frecciate tutt’altro che sottili nei confronti dei concorrenti: “Noi” non chiediamo un euro allo Stato, né a chi ci guarda. Mica come la Rai e Sky (in realtà la concorrente berlusconiana della tv satellitare sarebbe Mediaset Premium, che si paga eccome, ma questo forse è meglio non ricordarlo).
L’Uomo-sul-divano potrebbe obiettare: "Se Berlusconi froda il Fisco, forse sarebbe preferibile che Mediaset incassasse finanziamenti pubblici (anche se non le spettano), trattandosi di un’attività regolamentata ancorché controversa". Ma le meningi del Biscione hanno pensato anche a questo. Ed ecco che, come a leggere nel pensiero del malfidato divanoide, un secondo spot ci suggerisce che i giudici del Tribunale di Milano, della Corte d’Appello e della Cassazione devono essersi per forza sbagliati nei confronti del Cavaliere.
Nell’attacco c’è il dramma della Storia e l’orgoglio dell’Individuo: “Abbiamo iniziato da zero. Ora siamo uno dei principali gruppi televisivi europei, 130 mila piccoli azionisti credono in noi e noi giorno dopo giorno abbiamo ripagato la loro fiducia con 4,9 miliardi di euro di dividendi”. Buon per gli azionisti. In effetti, il titolo Mediaset è uno dei più speculativi a Piazza Affari e – chissà perché – in tempi di crisi politica viene trattato dagli investitori come un termometro della stabilità italiana. Nell’ultimo anno le azioni del Biscione hanno guadagnato qualcosa come il 128,5%.
Ma andiamo avanti con lo spot, perché le vere chicche arrivano solo nella seconda parte: “Anche lo Stato ha tratto benefici dal nostro lavoro: in totale circa nove miliardi di euro versati nelle casse pubbliche. E non abbiamo mai spostato sedi all’estero. I nostri posti di lavoro sono in Italia e le tasse le paghiamo tutte qui, in Italia”. Ancora una volta ce lo dicono “così, giusto per ricordarlo”. Mica per insinuare qualcosa, sia chiaro.
L’Uomo-sul-divano sa in fondo al cuore che quella voce fuori campo è sua amica. A dimostrargli quanto il mondo del Biscione sia vicino al suo ci pensano i protagonisti di un altro spot: camionista, cuoca, presunto stagista, tecnico delle luci. Tutti lo guardano negli occhi e sentenziano gaudenti: "Io lavoro in televisione". Prima che l'Uomo-sul-divano abbia il tempo di replicare, arriva la solita, paterna voce fuoricampo: "Con noi collaborano (non "per noi lavorano", ndr) più di 20mila persone. E anche nei momenti difficili come questo, il lavoro si crea solo con il lavoro. E noi vogliamo continuare a farlo. Così, giusto per ricordarlo". Stavolta la chiosa è impreziosita financo dalla rima.
Insomma, "the Italian dream" è a Cologno Monzese. Ma l'Uomo-sul-divano farà bene a ricordare che - in caso di condanna penale - dovrà scontare la pena. E agli occhi di tutti sarà solo un uomo colpevole.
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di Rosa Ana De Santis
La notizia è che dopo l’ecatombe di Lampedusa, dopo la fila serrata delle bare e gli avanzi di scarpe e vestiti, gli sbarchi non si sono affatto fermati. Anche ieri mattina il flusso ha avuto il suo: duecentocinquanta disperati in due diversi sbarchi, l’ultimo con 150 siriani, tra cui 25 bambini, sono arrivati sull’isola. Solo sabato mattina la Marina Militare ha recuperato 87 migranti e mentre si ragiona sui funerali di Stato, come proposto dal Ministro Kyenge, il presidente Letta annuncia una “missione militare umanitaria”.
L’emergenza è tale che occorre trovare presto strade concrete di risoluzione politica, ma le differenze interne alla coalizione sono tali che sarà difficile superare lo scoglio del reato di clandestinità: l’unica acclarata soluzione che non ha risolto nulla. Sono i numeri degli sbarchi a documentarlo.
In primis il governo appronterà rimedi militari per impedire che il Mediterraneo sia “una tomba” come dichiarato dal Presidente del Consiglio. Quattro navi militari (due pattugliatori e due fregate), una nave anfibia, elicotteri e droni, ma anche ospedali e strutture ricettive d'emergenza. Sul piano politico sarà però necessario rivedere i criteri per il diritto d’asilo e intavolare un nuovo dialogo Europa - Italia che certamente non può essere non essere considerata per il suo status geografico di paese ponte e terra di approdo.
Sbarco e presa in carico dei migranti, come ribadito dall’Alto Commissariato per i Rifugiati, non devono né possono essere necessariamente due aspetti gestiti in esclusiva dal paese che accoglie. Occorre lavorare sul tipo di accoglienza, investire sulle strutture e lavorare in parallelo sulla gestione dei flussi affinchè siano ripartiti nel contesto territoriale europeo.
E’ ormai palese che il dibattito non può, e non solo per ragioni etico-morali ma anche squisitamente geopolitiche, essere tra accoglienza o no dei migranti. E’ rimasta solo la Lega ad orchestrare sit in anti-immigrazione come l’ultimo a Torino del 12 ottobre in cui Maroni ha ribadito che loro non “accoglieranno”. I due mila radunati sotto l’egida del segretario Salvini non sono stati soltanto uno schiaffo rivoltante al dramma umanitario di Lampedusa, ma hanno reso ancor più ridicola e inconsistente la voce della Lega: ormai arcaica e al di fuori delle necessità contingenti della scena contemporanea.I flussi migratori non sono più un annesso eccezionale della politica, ma ne rappresentano un elemento interno, costante, non arginabile. La politica si gioca su un orizzonte transnazionale e le velleità padane, è la storia e dirlo, non hanno legittimità e senso. L’Europa non è dei popoli già da un pezzo, ma delle persone e dei territori.
Nonostante l’appello delle associazioni l’incontinenza xenofoba dei leghisti ha dato sfoggio di quella parte di Italia che non ha qualità morali né eccellenze da esibire. La stessa che sopravvive grazie alle fabbrichette in cui lavorano gli stranieri e ai capolarati vari. La legge Bossi-Fini va ripensata e spostata ad un piano di analisi europea. L’accoglienza ne deve diventare parte integrante.
Se l’Italia ha imparato qualcosa dalla tragedia dei bambini affogati a poche miglia da Lampedusa è che non può affidarsi ai pescherecci, al coraggio dei bagnanti, alle prigioni lager dei centri di espulsione dove la gente, parcheggiata, vive in condizioni disumane. L’accoglienza non è più materia da decidere, ma azione politica da gestire. Perché le mura a difesa dell’impero non hanno senso e sono destinate a crollare.
Serviranno soldi e menti politiche capaci di indicare all’Europa che l’Italia è un paese che vuole accogliere e che non è più tempo di non poterlo fare. A chi resta indietro nella storia non rimane che il grottesco rammarico di negare che siamo già nel sangue, nelle scuole e nei luoghi di lavoro un paese di quelli che un giorno arrivarono su un gommone da clandestini.
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di Fabrizio Casari
Nel penoso teatrino della politica italiana c’è una scena che si ripete ormai regolarmente: i partiti politici, che teoricamente dovrebbero essere comunità di valori condivisi, portatori di progetti di governo della società, diventano sempre più proprietà privata di chi li fonda e strumenti della loro personale ambizione. E così non ci sono più dirigenti o leader, quadri o militanti, ma solo proprietari e peones. A destra con Berlusconi, altrove con Di Pietro prima e Grillo ora (passando per Pannella, Segni e Fini, parziali varianti del tema) la questione della proprietà personale dei partiti politici è divenuta ormai una caratteristica costante della scena e del proscenio politicante. Lo spettacolo si accavalla poi con quello delle lobbies che controllano i partiti finanziandoli e influenzandone i leader, e Pantalone è sempre lì che paga.
In questi ultimi giorni a dare spettacolo è stato Renzi con il Pd (ma questo ormai è una replica), mentre per l’avanspettacolo (e questo invece dispiace molto) ci ha pensato il M5S. Le posizioni assunte da Beppe Grillo e dal suo socio Casaleggio in merito alla proposta del M5S di superamento del reato di immigrazione clandestina, raccontano purtroppo di una isterica involuzione padronale della coppia di soci proprietari di fatto del Movimento. Le argomentazioni dei due sono risibili sul piano metodologico e vergognose su quello contenutistico: su quello metodologico non vi sarebbe l’autorizzazione da parte di deputati e senatori del M5S a proporre tutto quanto non scritto nel programma con il quale i grillini si presentarono al voto nello scorso Febbraio. Su quello contenutistico la proposta sarebbe un errore perché fa perdere voti. Proviamo a vederle separatamente.
Sul piano contenutistico la cosa è grave. La posizione di Grillo sull’immigrazione è la stessa di Bossi e Calderoli. Del resto, già in campagna elettorale il petting ripetuto con l’estrema destra sull’immigrazione aveva già chiarito il sistema valoriale dell'ex comico e di come intenda procacciarsi il consenso della pancia del paese. Spiace quindi per chi, di sinistra, ha scelto di votare M5S e si ritrova oggi pentito della scelta. Non sono pochi, tutt’altro.
Sul piano metodologico la cosa invece non è grave, bensì ridicola. Se quanto non previsto dal programma è per ciò stesso improponibile, possiamo allora dire che, non appena eletti, i parlamentari grillini sono già scaduti come uno yogurt, dal momento che il mondo, infischiandosene del programma di Grillo e Casaleggio, va avanti. Propone fatti nuovi e accadimenti inediti senza il minimo rispetto per il fatto che non siano stati precedentemente previsti dalle teorie psichedeliche di Casaleggio. Dunque, impossibilitati a decidere alcunché, i parlamentari grillini possono al massimo fare spallucce, non politica. Ma non sempre è così.
Ad esempio, sul Porcellum il programma dei grillini espone un rifiuto assoluto, totale ed assolutamente condivisibile; ma questo non impedisce però all’ex-comico d’invocare le elezioni subito, col Porcellum, perché ritiene che con l’orrendo sistema elettorale vigente comunque le possibilità di vincere per lui aumentano. E come si permette Grillo di violare il programma deciso dalla mitica Rete senza autosospendersi o cacciarsi? Non vale anche per lui il principio della rigida adesione a quanto scritto prima del voto? Oppure per lui tutto si evolve mentre per gli altri tutto è congelato? Sembra che la storiella dell’uno uguale ad uno sia già stata superata. Come nella Fattoria degli animali di Orwell, sono tutti uguali ma qualcuno è più uguale degli altri.
C’è poi la storiella della discussione interna. Grillo e il suo socio sostengono che comunque dovrebbe essere consultata la Rete, ma l’esperienza della gestione informatica quantomeno dubbia delle “quirinarie” ha già dimostrato lo scarso livello di affidabilità e trasparenza che offre la Casaleggio associati.
Epurazioni, minacce, grida, insulti e giravolte sono state fino ad ora la cifra del verbo di Grillo, mentre alcuni dei suoi parlamentari, i più seri, hanno cominciato a prendere le distanze dalla setta cercando di fare politica, di provare ad incidere per quello che possono. Pensando magari che, come Costituzione prevede, i parlamentari rispondono ai loro elettori e alla loro coscienza, non allo sciamano piemontese e al suo socio e che le leggi ed i provvedimenti si votano in ragione dell’utilità che si pensa abbiano per la popolazione, non per la vanagloria del capo.La deriva nordcoreana di Grillo e Casaleggio è già costata diversi consensi al M5S e non poteva essere diversamente. Le modalità dell’iniziativa politica degli eletti radiocomandati suscita ilarità diffusa, in certi momenti sembra evocare le immagini dei dirigenti berlusconiani vestiti tutti uguali a passeggio nella villa del capo o del celeberrimo “kit del candidato” con cui Pubblitalia istruiva i replicanti.
E’ davvero un peccato assistere basiti, travolti, dalla mancanza di senso del ridicolo di un Movimento che aveva avuto davvero le chiavi per aprire le porte del Palazzo e introdurre uno tsunami di rinnovamento nel quadro politico italiano. Anche chi non li ha votati ne ha visto comunque con simpatia e interesse l’affermazione, salvo cominciare progressivamente, idiozia dopo idiozia, a chiedersi se davvero diventava inevitabile un percorso di autoavvitamento su se stessi destinato a strozzare, per l’ennesima volta, l’ennesimo tentativo di muovere la palude italiana.
L’augurio è che le energie migliori di quel Movimento sappiano trovare un percorso distinto e distante da quello della setta dei due soci; c’è davvero bisogno delle risorse di cui M5S dispone e si deve evitare ad ogni costo la fine del possibile rinnovamento di cui così tanto c’è bisogno. E’ ora trovino il coraggio di emanciparsi da chi ritiene siano dei loro camerieri e provino ad aprire un cammino possibile con le opposizioni di sinistra in Parlamento e fuori nella comuni battaglie a difesa della Costituzione.
Grillo e Casaleggio, invece, provino a ritrovare la strada della politica della trasformazione. Hanno ricevuto un consenso grande tanto quanto la disperazione che circola ma il mandato popolare era per cambiare il Paese, non per occupare militarmente il Movimento. Cambino registro e in fretta, perché il rischio è che se all’inizio del film apparivano come il Gatto e la Volpe, ora stiano sempre più somigliando a Gianni e Pinotto.