Le dichiarazioni di Giuliano Amato sulla strage di Ustica appaiono, per quanto tardive, utili a rinfrescare la memoria di un Paese che di assenza di memoria patisce endemicamente. Ci si può interrogare - è sempre bene farlo - sul perché oggi Amato decida di dire cose di una gravità estrema. Cose fino ad oggi sostenute solo da Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica, ex ministro dell’Interno e, fuori curriculum, riferimento politico di Gladio, la rete Stay-Behind anticomunista, operativa in Italia dal dopoguerra in funzione sovversiva. Una sorta di legione irregolare della NATO, destinata a sostenere militarmente il famoso “Fattore K”, cioè il divieto di accesso al PCI al governo del Paese. E, sempre a proposito di memoria, Amato ricorderà di essere stato il Presidente del Consiglio nel 1992 e per 305 giorni. Sarà che non trovò il tempo per chiedere la verità al suo omologo francese?

Quanto avvenne a Ustica è ormai noto. La sera del 27 Giugno del 1980, l’aereo Itavia copriva la rotta Bologna-Palermo e partì con due ore di ritardo rispetto all’orario schedulato. Scomparve dai radar di Ciampino e Licola intorno alle 20,00, mentre era in discesa per atterrare all’aeroporto palermitano di Punta Raisi, dove non arrivò mai. Ci sono state diverse versioni sull’accaduto, ma quelle fornita dal presidente Cossiga, che parla di un missile francese, è certamente la più veritiera, peraltro corrispondente a quella fornita dagli stessi libici pur se mai in forma aperta.

 

Il DC9 dell’Itavia non era, ovviamente, un obiettivo per nessuno. Il volo Itavia fu vittima di un’azione di guerra destinata all’eliminazione fisica di un Capo di Stato straniero. L’obiettivo, appunto, era Gheddafi, che quella notte sorvolava in direzione opposta la stessa tratta dell’aereo Itavia, per recarsi a Belgrado in occasione di un vertice dei Paesi Non Allineati. L’aereo dell’Itavia si trovò sulla linea di fuoco del combattimento aereo. Tra chi? Tra due Mirage francesi, decollati dalla portaerei Clemenceau, di stanza nel Mediterraneo e i due Mig libici di scorta all’aereo presidenziale di Muammar Gheddafi. I servizi di sicurezza libici erano stati avvertiti all’ultimo momento, presumibilmente dai sovietici, dell’agguato. Avevano invertito immediatamente verso Malta la rotta dell’aereo presidenziale con Gheddafi a bordo e mandarono due dei quattro Mig di scorta ad impegnare i Mirage per evitare che inseguissero l’aereo con il leader libico. Uno dei due Mig libici venne ritrovato sulla Sila, abbattuto nello scontro con i francesi, l’altro, presumibilmente, si trova nei fondali dello Jonio.

I killer designati dalla Nato erano i Mirage francesi con l’appoggio degli americani. L’operazione era un obiettivo primario degli Usa (ci riprovarono bombardando Tripoli e la casa di Gheddafi nel 1986) e venne condivisa con la Francia. La Libia era il suo maggior nemico in Africa, dove Gheddafi spingeva per l’emancipazione dalla protezione francese ai paesi della Franceafrique. La Francia voleva eliminare Gheddafi e rafforzare il suo ruolo nel Nord Africa, voleva prendersi la Libia, cacciare l’ENI e dare alla Total il petrolio libico, il migliore del mondo per componenti minerali. Gli riuscirà diversi anni dopo, quando Sarkozy ordinò di uccidere il leader libico nell’insurrezione guidata dalle tribù libiche agli ordini di Parigi e Washington.

La domanda di fondo è sostanzialmente una: l’Italia, intesa come intelligence e vertice politico-militare, era al corrente di quanto in programma? O venne tenuta all’oscuro per evitare che i buoni rapporti di Roma con Tripoli potessero determinare un sabotaggio del piano criminale? Certo, il modello operativo consueto della Nato prevede sempre il coinvolgimento attivo del paese-membro di maggiore prossimità territoriale nelle operazioni. Difficile dunque che la Nato potesse pensare ad un’azione di guerra nelle nostre acque territoriali senza consultarci. Difficile, ma non impossibile.

I vertici politici del governo italiano furono probabilmente ignorati nella costruzione dell’attentato. Probabilmente si ritenne che informare gli italiani avrebbe potuto mettere a rischio la riuscita dell’operazione, dal momento che Roma non aveva nessun interesse nella fine di Gheddafi. Non solo i rapporti erano improntati alla reciproca convenienza, ma l’incertezza che sarebbe seguita alla sua uccisione avrebbe messo fortemente a rischio il rapporto privilegiato tra Eni e Libia e, più in generale, avrebbe prodotto un disordine infinito in tutto il Maghreb ed avrebbe consegnato parte del Nord Africa al fondamentalismo islamico, contro il quale Gheddafi si scontrò violentemente.

Peraltro incideva la storia di relazioni positive tra l’Italia e buona parte del Medio Oriente (libici, palestinesi e libanesi in particolare) che hanno sempre garantito gli interessi italiani, non senza irritare profondamente l’asse Washington-Tel Aviv. Dal caso Mattei alla vicenda di Argo 16, l’aereo dei servizi segreti italiani esploso sul cielo di Marghera nel 1973 (vendetta degli israeliani in risposta alla liberazione dei palestinesi accusati di voler programmare un attentato a Roma contro la compagnia israeliana EL AL) sono numerosi gli avvenimenti che hanno caratterizzato la differenza tra Italia e USA nella politica verso il Medio Oriente.

Nell'ambito di questo scontro ci furono i reciproci atti di sfida sulla gestione dei detenuti palestinesi con Stati Uniti e Israele. Il più eclatante si registrò a Sigonella, dove il governo Craxi-Andreotti schierò i VAM dell’aereonautica militare contro la Delta Force statunitense che pensava di togliere con la forza dalle mani del governo italiano Abu Abbas, capo del commando che sequestrò l’Achille Lauro dove venne ucciso il cittadino americano Leo Klingoffer. Lo scontro tra Roma e Washington divenne una dimostrazione eclatante di come le strategie occidentali raramente coincidevano con quelle italiane nell'area, quando l'Italia era un Paese che rispettava gli accordi che prendeva con i partners mediorientali.
Ma questo non esclude affatto la responsabilità dei vertici militari italiani nella gestione delle indagini successive a quanto accaduto nel cielo di Ustica. Ci si riferisce allo sbarramento offerto ad ogni ricerca della verità. La clausola della “doppia obbedienza” (al governo italiano e alla Nato), ha determinato un ruolo attivo della nostra aereonautica militare nell’insabbiamento delle responsabilità nell’operazione, attraverso il “muro di gomma” alzato negli anni successivi. Un muro fatto di bugie, depistaggi e dimenticanze, incidenti mortali strani ad alcuni testimoni di quella notte. Il tutto destinato all’occultamento della verità ai propri vertici politici e alla nazione.
In sostanza si può dire che nell’abbattimento del volo IH870 del 27 Giugno 1980 si trovano numerosi tasselli del mosaico che ha caratterizzato in negativo la storia del nostro Paese. La servitù militare nei confronti della Nato, l’uso della forza da parte dei nostri alleati contro il ruolo dell’Italia in Medio Oriente, la doppia obbedienza dei nostri vertici militari e l’opera di depistaggio e disinformazione operata dai nostri servizi segreti civili e militari, sono stati elementi decisivi. La rinuncia ad ogni elemento di sovranità nazionale e la gelosa custodia del segreto che si vorrebbe di Stato ma che in realtà riguarda spesso le attività dei settori deviati della nostra sicurezza nazionale e la copertura delle azioni d’intelligence occidentale con le connivenze italiane, sono alcuni dei tasselli del puzzle italiano, che da Mattei fino a Calipari raccontano la verità nascosta di un'alleanza a senso unico.

Che la Francia sia colpevole dell’abbattimento dell’aereo Itavia sui cieli di Ustica non vi sono dubbi e francamente che il governo italiano, che con Parigi ha un contenzioso aperto su diversi temi, tragga beneficio da queste dichiarazioni importa poco. L’Italia è schierata contro la Francia proprio perché agli ordini degli USA, che hanno deciso di ridurre al minimo il ruolo della Francia dopo aver ridotto al lumicino quello della Germania. La fine dell’Unione Europea, che poggiava sull’asse Berlino-Parigi e che in qualche modo interferiva con le pretese di egemonia solitaria ed assoluta degli USA, è linea politica che Roma segue senza discutere, per obbedienza a Washington e per convenienza diretta.

E’ quindi ridicolo chiedere informazioni a NATO e Francia che tanto conosciamo perfettamente. Non bisogna invece dimenticare altri “dettagli” di non poco conto: che il segreto NATO apposto all’operazione, resta per volontà degli Stati Uniti e che i depistaggi, la disinformazione e le menzogne offerte dai vertici militari italiani sono ben più gravi. Rappresentano un tradimento alla patria, una violazione del dettato costituzionale, una manifestazione di un vertice che, con la scusa della doppia obbedienza, risulta eterodiretto dall’estero, cioè dagli USA.

Non c’è nessuna norma o regolamento che impedisca allo Stato maggiore della Difesa di dire la verità alla propria nazione, al proprio governo e ad i suoi cittadini, in primo luogo alle vittime. Il governo italiano ponga pure con fermezza sul tavolo della Nato e su quello del Quay D’Orsay la questione Ustica: dispone dei mezzi per ottenere la verità, conosce le leve da azionare per sollecitarla ed è in grado di determinare con esattezza la differenza che separa l’alleanza dal fuoco amico. Se vuole farlo. Se non ha paura di sentir smascherare le coperture utilizzate negli anni a venire per nascondere la verità.

Sarebbe bene quindi che, oltre che una richiesta di delucidazioni a Parigi, si dia anche un ultimatum all’intero vertice militare italiano affinché dica la verità e che questa sia messa come condizione necessaria per il mantenimento del ruolo. In difetto, non solo dovrebbero essere cacciati dai ranghi delle forze armate senza nemmeno il diritto alla pensione, ma dovrebbero aprirsi procedimenti giudiziari per intralcio alla giustizia e complicità in strage. Il resto è fuffa di fine estate.

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