di Sara Nicoli

La fotografia è quella dei due ex segretari che alzano insieme il braccio in segno di vittoria; quello più energico di Rutelli che si incrocia con quello, più stanco, di Piero Fassino. Oppure quella con Rutelli dal palco che guarda Fassino seduto in prima fila e gli dice: "Già adesso siamo lo stesso partito, parliamo lo stesso linguaggio, siamo accomunati dalle stesse priorità". O anche, perché no, sempre Rutelli che dice: "Da adesso dobbiamo dire noi". Già. Ma “noi” chi? Quando qualcuno vorrà datare la nascita del partito democratico sulle ceneri di un’entità politica che ieri erano i Ds (ma un tempo si facevano chiamare Pci e senza provare vergogna) e su quelle di un’altra entità che, invece, non è mai stata né carne né pesce e aveva un simbolo buono per un ipermercato di provincia, probabilmente ci si rifarà a domenica 22 aprile, in un orario che si colloca tra le 13 e 25 e le 13 e 55 e che corrisponde al discorso di chiusura del segretario di un partito senza identità, la Margherita appunto, che da questa fusione fredda avrà tutto da guadagnare, non avendo, di fatto, perso nulla. Due funerali e un matrimonio da cui nasce un ibrido, una “balena rosa” i cui primi vagiti sono stati subito accompagnati da improvvisi colpi di tosse, segnali inequivocabili che presto le differenze verranno al pettine, nonostante Rutelli si sia ostinato a chiamarle “arricchimenti” e abbia scelto due parole, “maturità e passione” per dribblare le trappole che la sua stessa compagine più oltranzista aveva piantato, al congresso, sul percorso della fusione. L’intento era quello di far capire agli ormai ex compagni Ds chi terrà alta, nella nuova compagine, la bandiera dei temi etici.

L’abile ex ragazzo radicale, folgorato sulla via della maturità dal potere clericale e oggi più devoto al Papa che al Parlamento, nel suo discorso di chiusura ha disinnescato una trappola ordita dai giovani delegati del suo ex partito; era stato approvato un ordine del giorno a favore dei Dico mentre un altro, di stretta osservanza teodem, ne aveva proposto un altro di segno opposto, che impegnava l'assemblea ad appoggiare il Family day - organizzato il 12 maggio da vescovi e centro-destra - e tutte le politiche che mettono al centro la famiglia.

La questione del laicismo poteva esplodere lì, sul palco, davanti alle occhiaie sempre più profonde di Fassino. Con tattica tutta democristiana, forse rinvigorita dalle parole precedenti di un Ciriaco De Mita in grande spolvero, Rutelli ha mischiato le carte lasciando la questione senza una soluzione: "Vedete – ha intonato soave - per tutti noi i diritti della famiglia e delle persone, degli individui, soprattutto i più deboli, sono al centro della nostra politica". Quindi, riallacciandosi ad un documento votato a Firenze dai Ds, ha sparigliato: "Caro Piero – ecco l’inciucio -, siamo già lo stesso partito, usiamo le stesse parole, abbiamo le stesse priorità”. Resta da capire quali, in fatto di laicità.

Ma è la questione della collocazione europea del nuovo partito democratico ad aver fatto emergere le doti cerchiobottiste di Rutelli, che dai dorotei di un tempo ha senza dubbio ereditato l’arte del parlare senza dire nulla. “Cerchiamo un approdo più largo insieme con i riformisti europei”, ha confermato, ma ribadendo al contempo il suo secco no al Pse con cui immagina, tuttavia, possibili alleanze. Un passaggio, questo, piaciuto parecchio a Fassino e in piena armonia con quella colonna sonora di Firenze, ”Over the rainbow”, perché giusto ”Il mago di Oz” potrebbe capire dove stanno pensando di andare. E non solo in Europa.

Ma la questione che scotta è anche un’altra. Ed è quella della leadership del Pd. Rutelli ha ammansito i suoi promettendo che “non sarà l'esito di una sfida tra capi, ma saremo una squadra che lavora insieme e dove si coalizzano tutte le energie senza personalismi. Saremo tutti protagonisti di questa impresa che dà al Paese una grande opportunità". Parole che sono suonate come musica alle orecchie dei delegati, per nulla convinti di non perdere peso in quella lotta intestina che invece sarà la fase Costituente e che, senza dubbio, porterà alla formazione di una compagine politica ben diversa da quella che i giovani diellini si aspetterebbero.
Eppure, nel suo discorso di chiusura Rutelli è riuscito a far breccia anche nel cuore dei cinici e degli scettici della prima ora, anche se la messa in moto della macchina costituente necessita di un dato fondamentale per nulla garantito: la stabilità di governo.

Nessuno ha pronunciato il suo nome nell’assise di Cinecittà, ma l’accordo sulla legge elettorale potrebbe far naufragare molti desiderata del Pd prima che la nuova creatura politica abbia il tempo per organizzarsi. Proprio per sgombrare il campo dai dubbi, Rutelli ha concluso il suo discorso rassicurando ulteriormente Fassino e la platea. “Questa svolta, il nuovo partito – ha ribadito con forza – darà più forza all’azione di questo governo”.

Ormai il dado è tratto. Anzi, per dirla con Marini, “il Rubicone è stato passato”. Rimpianti? Pochi tra gli ormai ex Dl. Ma, d’altra parte, cosa si può mai rimpiangere se non si è perso nulla ? L’errore più grande di questi ultimi mesi, secondo Dario Francescani, è stato quello che “ognuno è rimasto seduto sulla propria sedia” mentre adesso, a suo dire, sarebbe venuto il tempo di dare finalmente una sintesi “ai temi più difficili”. Nel nuovo Pd, si augura, “nulla potrà essere imposto con la conta dei numeri e tutto dovrà essere deciso dialogando perchè nessuno dovrà rinunciare alla propria storia”.

E tanto per essere chiari e dare subito esempio di aperto dialogo, ha voluto sottolineare che i Ds dovranno rivendicare con orgoglio la loro storia, ma lui, comunque, rinuncerà mai a “don Sturzo, don Milani e La Pira”. Salvo poi concludere, forse senza malizia, con una citazione di quello che una volta è stato lo slogan preferito del popolo no global: “Un mondo migliore è possibile”. Loro, però, avevano davvero altre idee in testa.

L’assise della Margherita si è conclusa come quella dei Ds tra qualche lacrima e molte strette di mano. Ma se a Firenze la preoccupazione imperante, dopo quel “noi ci fermiamo qui, buona fortuna compagni” pronunciato con il nodo alla gola da Fabio Mussi, ha fatto realmente toccare con mano agli esponenti del “Botteghino” la ferita di una lacerazione che si poteva evitare, nell’agone di Cinecittà il massimo del dibattito verteva su un’unica, frivola questione: come si chiameranno da domani i militanti del Partito democratico?

Rutelli, ovviamente, ci ha già studiato su e ha offerto la solita soluzione di compromesso alla platea. “Potremmo chiamarci compagni e compagne”. Ma non certo perchè lo diceva Marx. “E’ una bella parola, significa cum panis e l'ho trovata almeno un centinaio di volte nelle Sacre scritture”. Ecco, adesso ogni dubbio è davvero fugato.

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