di Vincenzo Maddaloni

La bandiera che sventola, come al solito, è quella del “pluralismo” tradito. Ne è stata l’occasione più recente la chiusura del quotidiano Il Riformista che sabato scorso ha sospeso le pubblicazioni e affidato l’amministrazione della cooperativa a un liquidatore. Com’era nelle previsioni, poiché da diverse settimane si parlava dei problemi economici del quotidiano diretto da Emanuele Macaluso, sebbene negli ultimi giorni era sembrato che i nuovi fondi pubblici per l’editoria potessero evitarne la chiusura, ma anche questi si sono poi rivelati insufficienti alla sopravvivenza giornale.

Per dovere di cronaca, il pluralismo anche quest’anno è stato contrattato col potere politico con dei risultati per niente male, se si tiene a mente il rigorismo conclamato dal governo Monti. Infatti ben centoventi milioni di euro finanzieranno il fondo per l’editoria. Dovevano essere quarantasette, ma pressioni assai autorevoli hanno portato l’elargizione a ben più del doppio, senza che nemmeno il governo dei tecnici abbia preso sul serio l’esigenza di ristrutturare seriamente un’industria che, per pareggiare i bilanci, si serve dei soldi dei contribuenti.

Quei centoventi milioni diventano poi un fatto davvero irritante se si pensa che la prima cosa che andrebbe fatt dopo i rincari, sarebbe alleggerire il carico fiscale sui lavoratori, le famiglie, le imprese e i consumatori, cioè sui più penalizzati dalle conseguenze della crisi. Dopo tutto quale pluralismo nell’informazione potrebbe garantire chi, di anno in anno, deve contrattare col potere politico una “donazione” che pareggi i suoi bilanci?  Inoltre, rivolgendosi prevalentemente a una categoria di addetti ai lavori come i militanti del ceto politico, di solito questi giornali affrontano argomenti che non rientrano negli interessi più immediati dei lettori “comuni”, pertanto questa loro scontata peculiarità li rende particolarmente deboli anche sotto il profilo diffusionale e pubblicitario. In altre parole, per ogni copia venduta ai lettori di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro.

Spiega il quotidiano online www.lavoce.info: «È utile interrogarsi sulle condizioni di sopravvivenza e sulle modalità del sostegno pubblico, anche se per molte testate esistono pochi dati  affidabili. Solo per Avvenire, Libero, Il Manifesto e l’Unità sono disponibili dati di dettaglio Ads, l'associazione che certifica i numeri sulla diffusione e sulla tiratura dei quotidiani. Dal 2007, Il Manifesto e l’Unità hanno avuto livelli di resa, la differenza tra copie tirate e vendute in rapporto alle copie tirate, rispettivamente del 60 e del 7 3 per cento. L’Avvenire apparentemente restituisce meno copie, ma se si tolgono i 70mila abbonamenti, la resa sale al 56 per cento. Per Liberazione e Il Secolo d’Italia (dati Fieg dai bilanci) le vendite risultano rispettivamente di 8mila e 3mila copie giornaliere, mentre le rese sono in ambedue i casi dell’87 per cento.

«A titolo di confronto - ricorda infine www.lavoce.it, - le prime tre testate nazionali hanno una resa del 21,9 per cento, mentre i quotidiani Ads tra le 20mila e le 50mila copie vendute giornaliere arrivano al 22,1 per cento.

E le stesse diseconomie dei quotidiani politici si ritrovano in altre testate più grandi, ma con una scarsa base territoriale, come Libero o Il Giornale che hanno rese del 49 e del 42 per cento, più che doppie dunque rispetto agli standard.». All’elenco vi aggiungerei anche Il Foglio Quotidiano - resa accertata dell’87 per cento - diretto da Giuliano Ferrara perché Il Foglio è organo della Convenzione per la Giustizia, movimento politico (di fatto inesistente). In questo modo può beneficiare dei finanziamenti pubblici all'editoria (nel caso specifico di 0,70 centesimi per ogni copia stampata).

In questo scenario tipicamente italiano e che non trova riscontro in alcuna altra parte d’Europa, non si capisce perché questi fondi vadano sempre a beneficio di chi già esiste e molto difficilmente a sostegno di nuove realtà editoriali: magari anche online che ritengano di farvi ricorso.

Tuttavia quel che più irrita è che nell’epoca del rigore obbligato e tante volte declamato dal governo di Mario Monti, ci troviamo di fronte a un tale spreco (ripeto: per ogni copia venduta di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro) che rende ancora più contradditorio - e perciò più amaro - l’appuntamento col sacrifico che Monti impone come realtà quotidiana.

Dopotutto in una realtà come questa - ripeto, soltanto italiana - quella che nella prassi è definita la categoria dei giornalisti cessa di esserla ogni giorno che passa. Poiché la definizione di una identità professionale, come quella dei giornalisti appunto, rischia di diventare soltanto soggettiva e quindi doppiamente relativa.

Ormai è giornalista chi si qualifica come tale, e chi riceve dalla società dei lettori il diritto a qualificarsi così. Infatti, una vicenda penosa come questa delle “donazioni” fa crescere in maniera esponenziale la distanza tra chi si crede un giornalista “al di sopra dei fatti” e ciò che pensa di lui la società dei lettori, soprattutto quando a rappresentarlo è uno dei sessantaquattro e passa direttori di giornali di partito.

Siccome gli editori (delle testate sovvenzionate dalla Stato, ma anche di quelle non sovvenzionate) in perenne conflitto con i bilanci deficitari chiedono meno professionismo e più precariato, lo scenario che si va concretizzando, giorno dopo giorno, è quello di schiere di ragazzi e di ragazze che tagliano, incollano e pubblicano le notizie proposte dalle agenzie d’informazione, senza poterle indagare alla fonte.

Il tutto supportato da una gestione accorta delle voci autorevoli raccolte su piazza, nelle sedi dei partiti, negli uffici delle lobby finanziarie - le voci degli editorialisti e dei commentatori - da cui, di volta in volta, si può ottenere tutto e il contrario di tutto, considerato che diminuiscono per cause naturali coloro che hanno fatto la Resistenza ed è rimasta soltanto la CGIL a metterla giù dura ogni qual volta si tenta di stravolgere i principi della Costituzione.

Se questa è la realtà dei fatti, allora sarebbe urgente tenere desta l’attenzione su ogni singolo fatto che la compone e della quale gli sprechi ne fanno parte. Non soltanto perché il giornalismo si ricongiunga alla verità, ma perché - governo dei tecnici consentendo - la politica cominci a sprovincializzarsi. Avremmo tutti da guadagnarne. Sebbene pare che non ce ne sia la voglia, perché è più redditizio in termine di consenso, sprecare.

www.vincenzomaddaloni.it


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