di Lorenzo Zamponi

Capita anche questo, nello strano mondo dell’informazione italiana. Capita che 10.000 persone riunite in un palasport a Palermo dall’Udc per una manifestazione «Integrazione e legalità nell'Europa cristiana» valgano pagina 5 di Repubblica, mentre 30.000 in piazza a Vicenza contro la nuova base militare americana siano relegate a pagina 24, dopo l’imprescindibile presa di posizione di Bertinotti sulla crisi dell’Alitalia e l’ennesimo filmato su Youtube del professore che picchia un alunno. Ci sarebbe voluto ben altro che un corteo riuscito, pacifico e determinato contro l’imposizione di una pesantissima servitù militare, per scompaginare i titoli già previsti da settimane su Berlusconi Day, Fini successore, Casini traditore. Ci sarebbero voluti scontri violenti, ad esempio, paventati nei giorni scorsi dall’amministrazione comunale di centrodestra e dai due principali quotidiani locali, Il Gazzettino e Il Giornale di Vicenza, entrambi schierati su posizioni conservatrici. Ma le previsioni, o gli auspici, di quelli che Il Vicenza (quotidiano gratuito E Polis, unica voce progressista in città) ha definito «cantori di sventura» sono state smentite, come hanno riconosciuto all’unisono l’amministrazione comunale, le forze dell’ordine e la stampa locale domenica. Del resto chi conosce un po’ le dinamiche del movimento non aveva dubbi: Vicenza è una piazza tranquilla, e gli esponenti locali dei centri sociali, parte integrante dell’Assemblea Permanente che sta guidando le mobilitazioni contro la base, avevano tutto l’interesse a tenere buoni i loro compagni di fuori città per non perdere la faccia di fronte al resto del movimento, giocandosi ogni residua credibilità.
In ogni caso anche questa occasione di bucare il muro d’indifferenza creato intorno alla questione è fallita e l’opinione pubblica nazionale ha continuato a interrogarsi su temi fondamentali come «E sul treno degli ultrà azzurri niente mortadella, va forte il crudo» ( La Repubblica, pagina 4).

Peccato, perché nel caso della nuova base che l’esercito Usa vorrebbe costruire presso il vecchio aeroporto Dal Molin di Vicenza si incrociano almeno due temi fondamentali per capire l’Italia di oggi.
Il primo è quello delle servitù militari: gli insediamenti americani in Italia sono 113, secondo chi si è preso la briga di contarli, ma si tratta di cifre che significano poco, data la coltre di segretezza che li avvolge. Cosa contengono questi insediamenti? Chi li comanda? A quali disegni e strategie geopolitiche rispondono?
A tutt’oggi non c’è alcuna certezza sugli scopi per cui lo Us Army ha chiesto al Governo il terreno dell’aeroporto Dal Molin. Dovrebbe ospitare i parà della 173a Brigata Aerotrasportata, ma i numeri dati dall’inchiesta di Roberto Di Caro su L’Espresso (1800 nuovi militari, oltre ai 6000 già ospitati dalla Caserma Ederle, con «55 tank M1 Abrams, 85 veicoli corazzati da combattimento, 14 mortai pesanti semoventi, 40 jeep “humvee” con sistemi elettronici da ricognizione, due nuclei di aerei spia telecomandati Predator, una sezione di intelligence con ogni diavoleria elettronica, due batterie di artiglieria con obici semoventi i micidiali lanciarazzi multipli a lungo raggio Mrl») sono stati contestati, e i vertici militari arrivano perfino a negare di voler utilizzare l’aeroporto come pista di decollo, tanto che in città qualcuno ipotizza ironicamente che i paracadutisti si debbano lanciare dal campanile della basilica.

Nonostante le carte dell’esercito americano lo vogliano in “stile palladiano”, di certo c’è solo l’impatto che un progetto del genere - definito da più parti “una colata di cemento”- avrebbe sulla città, già pesantemente colpita dalla presenza militare americana. Le servitù militari si pagano, sotto forma di vincoli urbanistici, di inquinamento, di militarizzazione della città, di rischi. Senza contare la determinazione di una parte consistente della cittadinanza a non collaborare con una struttura a tutti gli effetti funzionale alla strategia di impegno militare americano nell’Europa meridionale e in Medio Oriente.

Proprio qui entra in gioco il secondo tema fondamentale: il rapporto tra popolazione, enti locali e governo nazionale nei processi decisionali per le «grandi opere». Non per niente alla manifestazione di sabato era presente una nutrita delegazione di militanti “No Tav” della Val di Susa. La partita è la stessa: chi prende le decisioni? In questi mesi si è assistito a un rimpallo di responsabilità tra Comune e governo a dir poco imbarazzante. Sembra chiaro che il ministro della difesa Arturo Parisi non sia pervaso dello stesso fervore atlantista del suo predecessore, che aveva promesso mari e monti agli americani, e soprattutto che non voglia imbarcarsi in una guerra fratricida con l’ala sinistra dell’Unione e la base del centrosinistra locale, che anche sabato si è dimostrata pronta a scendere in piazza con o senza l’assenso dei vertici locali e nazionali. Ma Parisi non vuole neanche prendersi la responsabilità di un esplicito rifiuto al potente alleato su basi ideologiche e ha quindi rimesso la decisione alla città.

Il sindaco Enrico Hüllweck (ex leghista, ora in Forza Italia) oscilla tra contatti più o meno segreti con gli americani e la ricerca di fantomatici “siti alternativi” da proporre. Per ora impegna il Consiglio Comunale a favore della base e restituisce la patata bollente a Roma. Da più parti si continua a parlare di referendum, una mossa rischiosa ma che almeno avrebbe il pregio di costringere tutti a prendere una posizione chiara, compreso chi, come la Cisl locale e qualche settore del centrosinistra, continua a traccheggiare.

Dopo sabato, d’altra parte, c’è anche chi dice che “il referendum c’è già stato”: è emersa chiaramente una forte presenza contraria alla base in città e questo potrebbe bastare al governo per rimandare ulteriormente la risposta agli americani, in una tattica di silenzio-diniego che porterebbe all’accantonamento del progetto.
Per ora ciò che resta è una delle più grandi manifestazioni di piazza che Vicenza ricordi. Un corteo riuscitissimo, nonostante le inevitabili tensioni tra gli organizzatori, il cui successo va probabilmente ascritto alla capacità dell’Assemblea Permanente di costruire una base comune, trasversale e popolare al movimento, proprio sull’esempio della Val di Susa, nonché alla risposta massiccia di un’organizzazione come la Cgil, che, pur con qualche sgradevole distinguo, ha offerto una copertura indispensabile a quella parte del popolo della sinistra spiazzata dalla diserzione dei Ds.

E così Vicenza, scelta in questi mesi come simbolo dell’opposizione dei piccoli imprenditori al governo Prodi, ha cercato a suo modo di sorprendere l’Italia, diventando per un giorno la capitale dell’opposizione a un apparato militare apparentemente onnipotente.
Un’idiosincrasia che i media nazionali, ben accomodati sul loro stereotipo da Nordest ricco, ignorante e leghista, fanno fatica a leggere, ma che esiste. E che si riflette sulle pagine dell’informazione locale: in quale altra parte del mondo i cronisti, durante una manifestazione del genere, farebbero il giro dei commercianti del centro per stimare il calo degli affari dovuto al corteo? E in quale altre parte del mondo si sentirebbero rispondere: «Non è giusto, la nostra categoria è stata troppo penalizzata. I cortei vanno fatti da un’altra parte, non in centro e non di sabato»?
La democrazia al tempo delle partite Iva.

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