di Sara Nicoli

Si è rimasti non poco sorpresi nell’assistere all’enfasi con cui il presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, ha dato l'affondo ex catedra al ddl Gentiloni, quel progetto di legge ancora in fase embrionale che si pone come principale tra gli obiettivi di mettere un tetto solido alla possibilità di accaparramento pubblicitario da parte di una sola azienda televisiva (Mediaset) a discapito delle altre (Rai compresa, ovviamente). Facendo leva sull'autorevolezza del ruolo, Catricalà ha fatto eco a Berlusconi (che già aveva definito “criminoso” il ddl ) andando dritto al cuore di un problema non suo ma che da tempo il Paese si aspetta che venga risolto. Ma non certo nel modo da lui suggerito: “Non si possono porre tetti al fatturato di un'azienda – ha spiegato - perchè se ne deprime la crescita e per Mediaset la raccolta pubblicitaria è gran parte del fatturato”. Una stupefacente difesa dell’azienda berlusconiana che è piombata nel dibattito politico in modo dirompente. E che ha palesato, prima che la semplice critica al ddl, una nuova, incresciosa anomalia del sistema delle regole italiano, quella di un presidente dell'Antitrust che difende trust e concentrazioni anziché il suo contrario. Quando si dice l’uomo giusto al posto giusto… Questo è il vero nodo del problema del “caso Catricalà”. Una questione politica che esula dai dati economici contenuti nel ddl Gentiloni, legge comunque destinata a non risolvere le molte ombre del sistema televisivo italiano. Con le sue critiche, Catricalà ha svelato le sue più profonde convinzioni in merito al libero mercato e alla necessità di stabilire delle regole che mettano al riparo da posizioni monopolistiche e dominanti da parte degli attori principali della nostra economia nel mondo dei media. Regole che in altri Paesi (in particolar modo negli Usa, a cui l'area di centro destra guarda sempre come un punto di riferimento specie in politica estera) sono considerati capisaldi ineludibili del sistema democratico, ma che in Italia, a detta proprio del presidente dell'Antitrust, non sarebbero opportune perchè limitanti l'espansione del mercato e, conseguentemente, la libertà di impresa e di sviluppo. Una contraddizione enorme, insostenibile, tra il pensiero dell' uomo e l'incarico da lui ricoperto che, tuttavia, la classe politica non sembra avere colto in tutta la sua gravità.

Anche davanti alla commissione Cultura della Camera, l'ex Segretario generale della Presidenza del Consiglio, nominato nel 2005 all'Antitrust solo pochi mesi prima della caduta del governo Berlusconi, non ha dato segni di tentennamento alcuno. E a chi gli chiedeva ragioni, dati e analisi di cotanto giudizio negativo sulla legge che dovrà superare l'imbarazzante Gasparri, Catricalà ha continuato a sostenere che definire per legge una posizione dominante “non è opportuno” al fine dell'efficienza del mercato. A suo parere, l'individuazione delle imprese in posizione dominante a fini antitrust è infatti “un giudizio da valutare caso per caso, che spetta all'Autorità compiere sulla base della valutazione di tutte le condizioni di mercato e non solo delle quote detenute dalle imprese”. Davanti all'imbarazzo palpabile dell'uditorio, Catricalà si è difeso dicendo che “è mio dovere dire quello che ho detto, questo è il mio mandato, lo faccio con profonda onestà e se non l'avessi detto avrei peccato”. Nei confronti di chi?

E' giusto, adesso, fare un po' di conti per capire le motivazioni più profonde che hanno mosso il presidente Antitrust a fare questo intervento a gamba tesa in difesa di Mediaset e dell'anomalia italiana fondata sul conflitto d'interessi. L'anno scorso, grazie anche all'inesistente tetto alla raccolta pubblicitaria stabilito dalla legge Gasparri (il famoso Sic, Sistema Integrato delle Telecomunicazioni), Mediaset ha raggiunto un record assoluto del proprio fatturato, totalizzando due miliardi e 267 milioni di euro di ricavi, di cui 36 derivanti dalle pay tv e il rimanente ottenuto proprio dalla pubblicità. La Rai ha invece guadagnato solo un miliardo e 56 milioni di euro dalla pubblicità, in forza anche dei tetti che la opprimono su questo fronte e a cui sopperisce con gli introiti derivanti dal canone (pari a un miliardo e 483 milioni di euro). La tv pubblica, quindi, ha superato Mediaset di soli 272 milioni di euro, ma ha obblighi assai onerosi (che pesano a bilancio quasi 800 milioni di euro) che derivano dalla convenzione con lo Stato: convenzione che, ovviamente, Mediaset non ha.

Terza classificata del mercato è la Sky di Rupert Murdoch con un fatturato di un milione e 450 milioni di euro, quasi interamente derivate dagli abbonamenti pay (1.366 milioni di euro) e solo in minima parte dalla pubblicità (84 milioni). Solo briciole agli altri attori del panorama tv che tutti insieme (La 7 e Fastweb compresi) raccolgono 516 milioni di euro di pubblicità. L'intera torta pubblicitaria italiana è stimata intorno ai 6 miliardi e 800 milioni di euro.

Il calcolo è, dunque, facile: Mediaset controlla, da sola, il 75% dell'intera torta pubblicitaria. Il ddl Gentiloni vorrebbe portare il tetto massimo di pubblicità al 45%, per consentire un rilascio di risorse verso altri imprenditori, in modo da muovere un mercato che, altrimenti, resterà fossilizzato sul duopolio generalista. Per Berlusconi si tratta di diminuire di circa un terzo la propria posizione. Il claudicante leader dell'opposizione italiana, ovviamente, non ci sta. E dopo aver tuonato di persona contro “l'odio politico” che spingerebbe questa maggioranza di governo a volergli svuotare le tasche, ecco che al suo fianco ha fatto scendere quella lobby che è decisa davvero a tutto per tutelare l'interesse di uno contro quello degli altri. Un interesse più politico che economico che va oltre i fatturati e che, con la sua uscita, Catricalà ha invece inteso difendere prendendo una posizione di parte scandalosa per il primo arbitro del sistema.

A questo punto sono d’obbligo una serie di domande: come può chi delegittima pubblicamente la necessità stessa di norme contro le concentrazioni continuare a sedere sulla poltrona più alta di un'Autorità chiamata a farle rispettare? E, soprattutto: dopo queste illuminanti dichiarazioni, come può l'attuale governo tollerare che Catricalà continui a ricoprire serenamente il proprio incarico? Infine: quale credibilità potrà d'ora in poi avere qualsivoglia atto dell'Antitrust alla luce del pensiero del suo più alto rappresentate che non crede nelle regole e se ne fa quasi un vanto, facendo leva su un’onestà di giudizio opposta e contraria alla sua funzione? Onestà vorrebbe, diversamente da come l’interpreta il presidente dell’Antitrust, che davanti ad un credo personale così antitetico rispetto al proprio ruolo pubblico, si decidesse di lasciare spazio a chi, invece, nelle regole ci crede fermamente e mostra solide convinzioni in tal senso. Difficile, tuttavia, che Catricalà decida di dimettersi, così come nessuno della maggioranza si adopererà per una sua immediata sostituzione: il rischio di farne una bandiera dell’opposizione è da evitare con ogni cautela. Tutto domani sarà, dunque, come ieri. Ma almeno sarà noto che all’Antitrust c’è un arbitro che è il dodicesimo uomo di una delle due squadre in campo.

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