L’intera vicenda della GKN, il polo industriale di Campi Bisenzio che si occupa di componenti per il settore automobilistico e aerospaziale, è una rappresentazione tragica e realistica del mondo del lavoro nel suo insieme. Un affresco lugubre del capitalismo del terzo millennio e all’epoca della pandemia; ne raffigura la tradizionale attitudine predatoria e il suo tempestivo aggiornamento a una delle più drammatiche emergenze che l’umanità abbia patito.

Tuttavia, la mobilitazione sviluppatasi immediatamente dopo l’arrivo delle “famose” lettere di licenziamento, suggerisce spunti e riflessioni dalle quali non si dovrebbe trascendere. Almeno per quella parte di società che ha a cuore la sorte non solo di un impianto produttivo, ma la dignità di ogni lavoratore e di ogni lavoratrice. Ci obbliga dunque, a scavare nella dimensione paradigmatica di un evento dalle molteplici implicazioni, per la robustezza della sua rivelazione, il presidio permanente ai cancelli della fabbrica, e per la modalità immateriale che l’ha determinato: una mail secca e stringata che comunicava la fine del rapporto di lavoro.

Verrebbe da dire, se non risuonasse di amara ironia, che tutto ciò sia il marchio di fabbrica del neoliberismo. Corpi ritenuti essenziali fino a un attimo prima che la spietatezza della disintermediazione li spazzasse via. Dai macchinari ma non dalle piazze, e non per una oggettiva e irreversibile crisi economica, ma per delocalizzare.

I licenziamenti alla GKN parlano chiaro, anche a quella pseudo-sinistra che ha accolto a braccia aperte la fantasmagoria della modernità. Che ha spacciato le rinnovate forme di colonialismo per esigenze di mercato, per incrementare gli investimenti. Per lo più stranieri, a opera di potenti corporation che sovrastano e aggirano facilmente le (ormai poche e deboli) norme che regolano e tutelano i diritti di chi lavora. Pertanto, a poco serve l’indignazione per le multinazionali se poi le politiche nazionali sul lavoro ne consentono lo strapotere. Le lacrime di coccodrillo, se possibile, indignano ancora di più.

La formula risolutiva utilizzata dalla dirigenza aziendale, in questo caso, ha scoperchiato un vaso di Pandora di cui l’emergenza pandemica è solo un alibi. Non a caso, una volta terminato il blocco dei licenziamenti imposto dallo stato di emergenza, l’emergenza di uno Stato sostanzialmente favorevole alla deregolamentazione del lavoro salariato, è venuta allo scoperto. Gli effetti del Jobs Act, con l’annichilimento dell’Art. 18, si prolungano e si consolidano nel tempo di pari passo con la digitalizzazione dei processi produttivi nonché della quasi totalità delle attività sociali. Che riproducono, in larga maggioranza, le dinamiche principali del sistema capitalistico di produzione. Ad aumentarne l’efficacia, come se ne avesse bisogno, è intervenuta una drastica metamorfosi delle relazioni umane, simile a un vero e proprio collasso, causata dal virus che ha anticipato di dieci anni quanto stiamo vedendo in questi mesi; il dominio digitale.

A questa “novità”, insediatasi bruscamente nelle nostre esistenze con una velocità mai riscontrata in tutti gli altri imprescindibili cambiamenti avvenuti nel corso della Storia, non sono sfuggite neanche le relazioni di Potere. Politico, industriale, culturale. Basti pensare all’aumento esponenziale di fattorini, alle dipendenze di aziende “fantasma”, e dello smartworking, variante lavorativa sia del pubblico impiego che del privato. Entrambi, sebbene divisi da enormi differenze nella esecuzione delle proprie mansioni, sono accomunati da uno stesso principio regolatore, ovverosia la efficacia della connessione. Non tra esseri umani, tra lavoratori o finanche tra consumatori, ma tra un server e un dispositivo finale che ne detta tempi e regole.

L’epidemia ha accelerato un processo già in corso, e forse irreversibile già da prima della sua terribile propagazione, sintetizzato nell’emblematico exploit di Amazon. Al punto che è del tutto lecito affermare, per quel che riguarda l’organizzazione gerarchica del lavoro secondo una concezione proto-capitalista, che Jeff Bezos sta agli anni Duemila come Henry Ford sta al XX secolo. Il fondatore e proprietario della più grande impresa di e-commerce, è diventato anche un guru delle trasformazioni sociali alla stregua della rivoluzione antropologica degli anni sessanta e settanta, quella dei consumi, così minuziosamente e predittivamente raccontata da Pier Paolo Pasolini.

Nello sconfinamento di aziende sovranazionali e nell’abbattimento di frontiere legate a orari e loro suddivisione nell’arco della giornata, visto che la Rete agisce H24 e simultaneamente nei cinque continenti, rientra anche la irresistibile avanzata dei social network. In realtà, una vera e propria offensiva, nella quale è rimasta prigioniera gran parte della informazione. Quella, per intenderci, classica, della carta stampata e delle radio-tv. Di per sé non assiomaticamente cristallina e del tutto affidabile.

Ciò che però ora si vuole focalizzare è come la tecnologia non sia stata utilizzata per accrescerne potenza e diffusione, o solo in pochissimi casi, quanto per competere con la istantanea efficacia di un mondo costantemente online. I media hanno finito spesso per assimilarsi al “fenomeno” social assecondandone assurdità o, peggio, evidenti velleità eversive. Tentativi di golpe in più paesi dell’America Latina, tanto per fare degli esempi espliciti e recenti, sono passati anche per l’uso sistematico e scientifico dei social network. E per la disinvoltura con cui piccole e grandi testate giornalistiche ne hanno accettato l’autenticità e, soprattutto, la legittimità, scambiando trame golpiste per deficit di democrazia.

Molto probabilmente, il ruolo subalterno e rinunciatario della maggior parte dei mass media, riflette una delle crisi più profonde della rappresentatività politica, in Occidente ma non solo, dalla nascita degli Stati moderni. La dissoluzione dei grandi partiti di riferimento che hanno caratterizzato, nel bene e nel male, il Novecento, ha comportato il successo di movimenti e personaggi che godono del consenso di un elettorato liquido cresciuto tra Zuckerberg e post-verità. D’altro canto, queste ultime sono sempre esistite, non sono certo una esclusiva del web. Il web ne ha permesso l’accreditamento senza bisogno di contraddittorio, riducendo il confronto alla univocità delle stanze virtuali, dove falsità e negazionismi si autoalimentano fino a guadagnarsi spazio e “simpatie” nella vita reale. L’esempio della galassia NoVax ne è una inquietante testimonianza.

L’algoritmo dunque si impadronisce della scena grazie anche al dissolversi dei corpi; in carne e ossa come della mediazione. Nel nostro paese, il susseguirsi in questi ultimi anni di governi nati da maggioranze esigue formate da partiti in aperta ostilità fino a un attimo prima della chiusura delle urne, ha causato anche l’abbandono di realtà produttive in balìa dei capricci della Borsa. Operai e operaie, della GKN come della Whirlpool, solo per citare i casi più eclatanti e che hanno conosciuto la ribalta della cronaca, hanno (anche) il merito di aver ricordato a tutti che esistono e che la nostra è ancora una società classista. Lavoratori e lavoratrici esistono anche quando non muoiono, precipitando da una impalcatura o stritolate da un macchinario.

Mentre le nostre vite si dispiegano sempre più lungo le strade del virtuale, nel mondo reale ci sono sempre più vittime del lavoro. Un bollettino di una guerra mai dichiarata, mai interrotta. Pertanto, in seno a uno sfilacciamento del tessuto sociale, anch’esso antecedente alla pandemia che comunque lo ha reso ineludibile, e a una classe politica per alcuni versi del tutto distaccata dalle reali esigenze di fasce consistenti della popolazione, la “costituzione” di Confindustria come partito, appare logica e naturale. L’attuale esecutivo, capitanato da Mario Draghi, evidenzia la resa della politica a favore del tecnocrate, accolto come salvatore della Patria. Dalla fabbrica occupata e presidiata di Campi Bisenzio, giungono segnali inequivocabili di resistenza. Lezioni operaie di cui spetta a noi valorizzarne l’apprendimento, possibilmente non in DAD.

Laura ha dovuto rinunciare un bel po' di cose solo per restare in vita: mobili, RFL, persino il suo cane. Però non è bastato. Ha dovuto immolare anche i mobili di casa per pagarsi l’insulina che serve al suo organismo per funzionare. La maggior parte delle persone produce l’insulina naturalmente. Ma Laura è affetta da diabete di tipo 1 e l’insulina deve andarsela a cercare nelle farmacie.

Perché non è come gli altri farmaci, si tratta di un ormone. Se una persona ha un alto livello di zucchero nel sangue può rischiare di perdere la vista e l’insulina impedisce che questo avvenga. Una fiala bilancia anche irregolarità cardiache e convulsioni.

Mentre in Occidente dilagano le preoccupazioni per i diritti delle donne nell’Afghanistan tornato in mano ai Talebani, è nello stato americano del Texas che per il momento l’allerta su questo fronte ha raggiunto livelli senza precedenti. Mercoledì è entrata infatti in vigore una nuova legge ultra-reazionaria che minaccia di cancellare quasi del tutto l’accesso all’interruzione di gravidanza. Il provvedimento rappresenta l’ultima e più estrema frontiera della battaglia degli anti-abortisti americani, decisi a liquidare un diritto sancito da quasi mezzo secolo da quella stessa Corte Suprema che questa settimana si è rifiutata di intervenire per sospendere la legge texana.

Il rapporto condotto negli ultimi tre mesi dall’intelligence degli Stati Uniti sull’origine del COVID-19 non è stato prevedibilmente in grado di trovare una sola prova concreta che supporti la teoria complottista della fuga del virus dal laboratorio cinese di Wuhan. L’indagine era stata commissionata a sorpresa dal presidente Biden nel mese di maggio, con l’obiettivo di alimentare un clima internazionale ostile al governo di Pechino, nonostante l’origine naturale del virus fosse stata in larghissima misura appoggiata dalla comunità scientifica e da una ricerca della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

“È inequivocabile che l'influenza dell’uomo ha riscaldato l'atmosfera, l'oceano e la terra. Si sono verificati cambiamenti diffusi e rapidi nell'atmosfera, nell'oceano, nella criosfera e nella biosfera". È questa la netta e terrificante dichiarazione che apre il  del Sesto Rapporto di Valutazione diffuso dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), organismo delle Nazioni Unite nato per fornire agli Stati membri informazioni riguardo allo stato delle conoscenze scientifiche, tecniche, sociali ed economiche sul cambiamento climatico, sui suoi impatti, sui rischi futuri e sulle possibili soluzioni.

Qual è il motivo di questa forte affermazione da parte dell’ONU, il più grande ed influente organismo sovranazionale del pianeta? E perché i governi sono così riluttanti a dichiarare lo stato di emergenza e ad attuare misure drastiche per affrontarlo?

Siamo a meno di 100 secondi dalla mezzanotte, l’ora più buia per l’essere umano, l’impronta della nostra specie è ormai ovunque sulla Terra, ce lo dice il nuovo rapporto IPCC: grazie a nuove tecniche di misurazione, analisi e simulazioni si è potuto stabilire oltre ogni ragionevole dubbio che l’essere umano sta modificando il clima globale con una rapidità senza precedenti, mai vista in più di 100.000 anni.
L’aumento esponenziale di gas serra quali anidride carbonica (284ppm nel 1850 e 414.60ppm nel 2021), metano (774ppb nel 1850 e 1,888.5 ppb oggi) e ossido di diazoto (270ppb nel 1850 e 332ppb adesso), unito a deforestazione, urbanizzazione incontrollata e destabilizzazione degli ecosistemi, della criosfera (ovvero i ghiacciai perenni) e degli oceani, hanno scaraventato l’intero pianeta in un’epoca dove incertezza e sofferenza regnano sovrane.

La soglia di vari punti di non ritorno è ormai stata sfondata dall’aumento dei gas climalteranti. Le attività umane e in particolare l’uso di combustibili fossili sono responsabili del riscaldamento medio di 1,1°C già raggiunto. Gli ultimi quattro decenni sono stati i più caldi mai registrati in ogni parte del globo, mentre la quantità e qualità dei ghiacciai (ciò il loro spessore e la loro composizione) viene compromessa e di conseguenza indebolisce la loro capacità di riflettere i raggi solari.
L’impronta dell’essere umano ha influenzato la diminuzione della neve nell’emisfero nord, destabilizzando le comunità locali e gli ecosistemi.
Anche gli oceani, importantissimi regolatori del clima che assorbono circa il 50% delle emissioni di CO2, non sono stati risparmiati dall’aumento esponenziale delle temperature: lo strato superficiale delle loro acque salate si è riscaldato e di conseguenza si è innescato un processo di acidificazione che a sua volta ha creato zone con basso livello di ossigeno, le cosiddette “zone morte”, veri e propri cimiteri del mare.
Ora le maggiori correnti oceaniche che portano l’acqua calda dai tropici fino ai poli rischiano di collassare, rallentare o addirittura bloccarsi a causa dell’aumento esponenziale di temperatura: questo singolo evento, da solo, comporterebbe uno stravolgimento immediato e drammatico di un clima già martoriato.

 

Il cambiamento climatico indotto dall'uomo influenza molti eventi meteorologici e climatici estremi

Lo struggente report continua affermando che è ormai certo che la frequenza e l’intensità di eventi meteorologici estremi è aumentata. Non solo i fenomeni sono più accentuati ma durano anche più a lungo. Temperature estreme, precipitazioni che diventano alluvioni, siccità, non solo andranno man mano ad intensificarsi sempre di più ma dureranno anche per periodi più lunghi. Temperature oltre la media stanno già causando incendi e devastando foreste, case, stanno uccidendo esseri umani ed animali e tutto ciò che gli si para davanti in ogni parte del mondo. Mentre i mari, divenuti più caldi, espongono anche zone del globo come l’Europa a pericoli tropicali: gli uragani.

Sofferenza, malattie e morte portate da questi eventi e dal degrado ambientale sono già senza precedenti, e tutto ciò sta avvenendo con un aumento di 1.1°C, mentre la probabilità che 1,5°C (considerata la soglia sicura) di riscaldamento venga raggiunto fra meno 10 anni è superiore al 50%.

La strada in cui in nostri decisori politici hanno deciso di metterci ci porterà ad uno sconvolgimento totale della società e della vita di tutti i giorni. Basti pensare alla maggiore facilità con cui si innescheranno migrazioni di massa, guerre e pandemie.
L’aumento delle temperature sta infatti rendendo inabitabili molte zone del pianeta a causa della siccità, mentre altre, vicine alle rive dei mari o dei laghi, saranno parzialmente sommerse a causa dell’innalzamento del livello dell’acqua determinato dallo scioglimento dei ghiacciai.

Questo costringerà grandi comunità o intere popolazioni a spostarsi alla ricerca di luoghi in cui vivere, inducendo di conseguenza i loro governi a cercare nuove terre, anche al di fuori dei propri confini nazionali, creando dispute su zone più abitabili e meno esposte agli eventi estremi. Tali conflitti si trasformeranno spesso in guerre, e da ciò se ne deduce che non verranno tagliate le spese militari, strategiche per la tenuta dei confini o la conquista di nuove terre, sottraendo così altre risorse agli aiuti sociali ed alla ricerca ambientale.
Inoltre l’ammasso di popolazioni in aree più piccole e segnate da una povertà più diffusa abbasserà notevolmente il livello delle condizioni igieniche e della profilassi minima causando più frequentemente malattie di origine virale che tenderanno a diffondersi con più rapidità che nel passato.

Eppure i governi continuano nella loro colpevole inazione malgrado vengano messi di fronte a questo terribile quadro. O forse dovremmo chiamarlo specchio? Non sono forse loro, con le loro politiche, ad aver determinato la situazione in cui ci troviamo in questo momento? Non l’hanno forse fatto lucidamente, con la deliberata volontà di produrre questi risultati? Non si sono palesemente dimostrati incuranti delle conseguenze per la vita sul Pianeta?

Peter Kalmus, scienziato del clima che lavora per la NASA, si dice terrorizzato da quanto sta per arrivare e pochi minuti dopo aver letto il Report di IPCC ha dichiarato:
“O abbandoniamo immediatamente il capitalismo come sistema dominante della nostra organizzazione sociale, o sarà la Fisica a farlo per noi. Non c’è una terza opzione.”
Ecco, è questo il punto. Immediatamente.
Le azioni di contrasto al problema devono arrivare nei momenti immediatamente successivi alla ufficiale e dichiarata esposizione del problema e non possiamo accettare, né scientificamente né tanto meno moralmente, che se ne parli solo tra capi di governo, in occasioni sporadiche e senza il senso dell’urgenza.
G7, G20 o COP26. Da cosa sono determinate, in questi consessi internazionali, le trattative tra gli stati? Da una corsa dallo spirito olimpico a chi taglia prima e meglio le emissioni di CO2? O forse da accordi che facciano apparire le deboli decisioni prese come straordinarie in modo da sollevare le parti in causa da responsabilità per un altro ragionevole lasso di tempo, giusto perché non perdano consenso elettorale e profitti per le aziende che rappresentano?
Sì, questo è un altro punto che non si può ignorare: i governi non rappresentano più i cittadini che li hanno eletti ma sono solo portavoce istituzionali di grandi aziende, della loro fame di potere mediatico e della loro sete di danaro.
Già nel 2017 il Carbon Majors Report redatto da Paul Griffin ci diceva che a produrre il 71% delle emissioni globali di carbonio sono solo 100 aziende.
Gli Stati Uniti d’America, presi per troppi decenni come modello di riferimento nell’organizzazione sociale mostrano un dato anch’esso inequivocabile: l’1% della popolazione possiede più ricchezza del restante 92%. Un disastro.
Il Report IPCC conferma dunque quanto scienziati e mondo dell'ambientalismo si attendevano, ma con i suoi toni così "ufficialmente" catastrofisti ci pone dinanzi ad una sfida che non è solo ambientalista e che può essere vinta solo ripristinando principi cardine di giustizia e meritocrazia e reperendo le risorse economiche necessarie direttamente dai grandi fatturati, in un’ottica di equa redistribuzione dei profitti.

Coautore dell'articolo Domenico Barbato e Manlio Pertout
Illustrazione  Martha Stephens

Fonte: https://thehumanexploringsociety.life/2021/08/14/code-red-for-humanity/


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