di Agnese Licata

Denunciare il datore di lavoro che paga la metà delle ore stabilite dal contratto? "Non solo vieni licenziato, ma rischi di non trovare più nessuno disposto ad assumerti". Fare ricorso contro le forze dell'ordine che sequestrano la tua merce nonostante una regolare licenza e, per giunta, senza compilare il verbale? "Non conviene. I ricorsi vanno avanti anche due-tre anni. E poi c'è la paura delle ritorsioni".
A spiegare cosa significa vivere con l'etichetta da "extracomunitario" addosso, è un marocchino che vive in una regione del Sud Italia fin dal 1992. Il suo permesso di soggiorno è in questura che aspetta di essere rinnovato. Quindi, la sua frase - "noi siamo persone molto ricattabili" - vale per lui più che mai. La prudenza suggerisce perciò di non divulgare né il suo nome né quello della città dove abita. La realtà in cui vive è quella di una centro di circa sessantacinquemila abitanti, dove le voci circolano in fretta e dove non è per nulla comune imbattersi in un venditore ambulante che, due giorni a settimana, insegna la lingua araba a un gruppo di italiani. Giovedì scorso, durante il famoso duello tv con Romano Prodi, Silvio Berlusconi ha dichiarato con orgoglio che, grazie alla legge Bossi-Fini, "l'Italia è il paese che ha meno extracomunitari, sia regolari sia irregolari". Dietro le parole dello stesso presidente del Consiglio c'è quindi l'idea di una politica contro l'immigrazione, che abbia come principale obiettivo quello di chiudere il più possibile i confini italiani all'ingresso di queste persone. Ma dietro ognuno di questi viaggi della speranza c'è una storia, che spinge ad abbandonare il proprio paese, la propria famiglia, il proprio mondo, per andare alla ricerca di una vita migliore.

La storia di Arabo (si tratta naturalmente di uno pseudonimo) è quella di chi fugge da un paese in cui il pieno rispetto dei diritti umani è ancora lontano. "In Marocco - inizia a raccontare - ero insegnante di scuola elementare. Eravamo obbligati ad alcuni insegnamenti che io non condivido, sulla famiglia Reale (il Marocco è una monarchia costituzionale, n.d.r) e non solo. Chi non le insegna rischia non solo il carcere ma anche di subire torture". E così, nel 1992, dopo aver trascorso alcuni periodi estivi in Italia, Arabo decide di prendere un aereo con un visto da turista e di stabilirsi definitivamente nel nostro paese. Quello che lo aspetta però, non è per nulla facile. Dopo i quindici giorni di durata del visto si trova costretto alla clandestinità. Solo quattro anni dopo, con la sanatoria del 1995, Arabo riesce ad ottenere il suo primo permesso di soggiorno che, da allora, è sempre riuscito a rinnovare.

Nonostante i tanti anni passati in Italia, nonostante un italiano quasi perfetto ed una regolare licenza da venditore ambulante, Arabo continua ad essere considerato "ospite poco desiderato" sia dalla legge - che non gli consente neanche il voto amministrativo - sia da molti italiani. Dai datori di lavoro innanzitutto: "Nei ristoranti, nelle ditte per cui ho lavorato venivo pagato la metà o anche meno rispetto agli altri assunti italiani". Senza contare poi il diverso trattamento: "Se a un italiano chiedono di portare due sacchi alla volta, da noi pretendono che ne portiamo tre". La ricattabilità è sempre sullo sfondo, ben presente. A mancare o ad essere "telefonati" sono invece i controlli dell'ispettorato del lavoro.
Ci sono poi le forze dell'ordine. "Nei nostri confronti hanno sempre un comportamento arrogante, anche quando chiedono i documenti", per non parlare di quando sequestrano gli oggetti in vendita sui loro tappetini: "A loro non importa nulla della licenza", portano via la merce e non stilano neanche il verbale, così, anche in caso di ricorso, diventa impossibile dimostrare alcunché". In più, la questura di questa città utilizza criteri particolarmente rigidi per la concessione della carta di soggiorno. Si tratta di un'autorizzazione senza scadenza, a differenza del permesso di soggiorno, valido in genere uno o due anni. Secondo il Testo unico sull'immigrazione (dlgs. 286/1998 così come modificato dalla Bossi-Fini), può entrarne in possesso "lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno sei anni". Ma, denuncia Arabo, "a differenza di altre città, qua la questura richiede non solo la residenza, ma anche sei anni di contributi previdenziali continuativi", difficili da raggiungere in una regione del Sud Italia, dove di lavoro ce n'è poco e non certo stabile. Così, neanche lui, in Italia da quattordici anni, dal 2000 regolarmente iscritto alla Camera di commercio come venditore ambulante, è riuscito ad ottenerla.

In un momento in cui la questione dell'"altro" è sempre più estremizzata e l'identità diventa un barriera da difendere e rivendicare, è tutto il contesto che diventa sempre più ostile. Certo, "dipende dalle persone", spiega, ma ci sono anche tanti piccoli gesti che permettono di misurare una generale ostilità: sguardi dai quali "si capiscono molte cose" perché sono sguardi che giudicano; le tante battute fatte all'amico mentre si passa vicino all'"extracomunitario". "Vedono un ladro a prescindere, un delinquente e non una persona che lavora come tanti altri". In più, dopo l'11 settembre, Islam e terrorismo sembrano diventati sinonimi. "La gente non capisce nulla della cultura araba". Si va avanti a stereotipi e in pochi penserebbero che anche un islamico possa dire che "la religione è un fatto privato". Pochi di quei ragazzi che lo guardano con superiorità penserebbero di avere davanti una persona che parla fluentemente l'italiano e che, per giunta, insegna l'arabo - una delle lingue più difficili per un occidentale - ad un gruppo d'italiani.

Fa riflettere il fatto che, nonostante tutte queste difficoltà, alla domanda "hai intenzione di tornare, un giorno, in Marocco", la risposta sia netta: "No". Fin quando le cose non cambieranno, no. I problemi hanno radici lunghe e ben protette e non penso che la situazione cambierà a breve". Forse, bisognerebbe solo provare a immaginarle, quelle radici.

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