Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica, illegittimità giuridica e incapacità politica facile da descrivere.

 

Il Consiglio d’Europa, riunito la settimana scorsa a Bruxelles per affrontare la questione degli ulteriori aiuti all’Ucraina - ovvero al prolungamento del suo martirio, che  eviti la ritirata vergognosa sul piano politico già in atto sul terreno - si era trovata sul tavolo una idea nata nei corridoi della Casa Bianca, quindi furba dal punto di vista propagandistico ma bislacca da quello giuridico: mettere in vendita i beni russi e i depositi bancari sequestrati.

Come sempre accade nelle proposte statunitensi fatte alla UE, l’idea danneggia l’Europa ma favorisce, o comunque non penalizza, gli USA. Non a caso, è nella UE che sono stati sequestrati i due terzi dei capitali russi (200 miliardi di Euro) mentre tra USA, GB e Canada il totale dei sequestri non supera i 5 miliardi. Le conseguenze negative di una siffatta operazione, dunque, ricadrebbero tutte su Bruxelles. Vediamo quali.

Intanto va ricordato che gli ormai numerosissimi pacchetti sanzionatori soffrono di un peccato originale: sono illegittimi dal punto di vista del Diritto Internazionale.

Lo sono nel metodo perché l’unico ente giuridicamente riconosciuto all’erogazione di sanzioni sono le Nazioni Unite (e non gli USA o l’Unione Europea), e nel merito perché l’ispirazione russofobica ha spinto la UE a sequestrare beni e conti che non appartengono ad entità governative russe bensì anche a singoli cittadini, società private non direttamente riconducibili al Cremlino. Sono moltissime le procedure di impugnazione già avviate presso i tribunali di tutta Europa e presso la stessa Corte Europea, come pure verso la Corte Internazionale di Giustizia, sia da parte del governo di Mosca che di singoli cittadini di nazionalità russa.

A maggior ragione in presenza di cause pendenti, è insostenibile giuridicamente un’azione di forza come quella di alienare con una decisione extra giudiziale un patrimonio il cui sequestro è oggetto di contenzioso giuridico; l’applicazione di una decisione simile in diversi paesi europei indica chiaramente come la decisione politica si sovrapponga a quella giuridica, unica possibile in sede di controversia.

Si tratterebbe del passaggio da “sequestro” a “confisca”: ma il primo è un provvedimento amministrativo per sua natura intrinseca temporaneo, l’altro può solo essere in applicazione di una sentenza che al momento non esiste. Per ciò che riguarda i beni russi non esiste invece nessuna azione penale, né notizia di reato, e non ci sono nemmeno indagini preliminari. Per questo si parla di “congelamento”, che è uno strumento di tipo economico.

I beni congelati non possono però essere né messi all’asta né assegnati. Senza una sentenza giudiziaria avversa, restano di proprietà dei loro titolari e nessuno può utilizzarli: se per esempio un istituto finanziario mette in atto qualche operazione con il denaro presente su un conto congelato, commette reato.

Si deve poi aggiungere che ammesso che si riescano a vendere in tempi rapidi gli asset e stabilito che la loro valenza massima è di 200 miliardi di Euro, è evidente che in una logica contabile realistica la loro vendita in tempi brevi debba prevedere una decurtazione di valore pari almeno al 50%. Quindi resterebbero solo 100 miliardi, molto meno di quanto Kiev ha ricevuto finora e che, come tutti i sistemi d’arma, di supporto logistico aeronavale e satellitare, di mercenari e reparti “ombra” NATO e di centinaia di milioni di proiettili, ha dimostrato essere inutile ai fini della situazione militare sul campo.

 

Chi ci guadagna e chi ci perde?

Il rischio maggiore è per l’Europa. Una appropriazione definitiva dei beni sequestrati, in assenza di sentenze giudiziarie che lo permettano, aprirebbero una serie di problemi a catena che rischierebbero di sommergere la UE. Presso il depositario centrale belga, Euroclear, la banca centrale russa ha depositato circa 190 miliardi di euro, che sono al momento congelati. Mosca aveva scelto l’Euro ritendendolo una moneta più sicura ed affidabile del Dollaro. Se questi asset venissero di fatto confiscati, l’affidabilità della moneta europea sul mercato internazionale ne risentirebbe. Al Dollaro e alla Sterlina converrebbe, ma allEuro no, perchè gli effetti sui mercati dei capitali e sulla moneta europea di una scelta simile sono facili da immaginare.

La stessa amministratrice delegata di Euroclear, Lieve Mostrey, ha avvertito, in un’intervista al Financial Times, dei pericoli che deriverebbero per la stabilità del sistema euro da una mossa di questo genere. Secondo l'Associazione delle banche private svizzere, sarebbe "sorprendente se in Svizzera i diritti patrimoniali e procedurali non venissero più rispettati". Se il Parlamento approvasse un disegno di legge a favore della confisca dei beni, ciò avrebbe "senza dubbio un impatto duraturo sulla fiducia degli investitori nel settore finanziario svizzero e sulla sua credibilità". Forti dubbi sono stati espressi anche dalla BCE sull’opportunità dell’operazione.

Molti altri Paesi, la Cina in primis ma non solo, potrebbero sentirsi potenzialmente minacciati e ritirare i propri capitali dall’Europa, magari mettendoli al sicuro nella Banca Internazionale dei BRICS. A questo potrebbe far seguito una vendita massiccia delle riserve in Euro. I risultati sarebbero gravissimi per la stabilità finanziaria del Vecchio Continente, perché cesserebbero gli investimenti stranieri nelle borse europee e perché il sistema bancario europeo ne uscirebbe sfiancato, gettando così la UE in una crisi finanziaria mai vista.

Che succederebbe se Pechino, che subisce le restrizioni unilaterali poste dalla UE su ordine USA, preso atto di come il Diritto sia divenuto una subordinata nelle relazioni internazionali, decidesse di ritirare i suoi depositi e investimenti, e magari in prospettiva chiudere il suo export e spostare sui mercati africani e asiatici la movimentazione dei suoi capitali e delle sue merci? L’Europa non produce più nemmeno fiammiferi e le conseguenze di una scelta di ritiro da parte di Pechino metterebbe in ginocchio l’economia continentale.

Per affrontare anche solo l’aspetto finanziario della crisi che ne deriverebbe, la UE dovrebbe concepire operazioni straordinarie e dissanguatrici di salvataggio senza disporre più della tenuta finanziaria e della liquidità che aveva fino al Febbraio 2022, quando la fine delle forniture energetiche a basso costo e dell’import/export con Mosca - cui hanno fatto seguito l’assegnazione a Kiev di 81 miliardi di Euro in assistenza finanziaria e di altri 50 già previsti, oltre ai 33 in sostegno militare - ha reso la situazione economica europea tutt’altro che rosea. Peraltro i cinquanta miliardi previsti per l’ingresso dell’Ucraina nella UE, i 500 necessari alla sua ricostruzione e una situazione occupazionale nell’area UE che vede oltre 50 milioni di disoccupati, offrono un quadro non certo a favore di possibili avventure finanziarie.

Dal cilindro europeo è uscita allora la solita pensata: il progetto va, ma solo sugli utili, non sul capitale. Solo che presenta lo stesso difetto di legittimità e anche di effettiva possibilità di realizzazione: per ottenerne degli utili, i beni andrebbero gestiti, dunque andrebbero predisposte strutture di gestione (costose) e tempi medio-lunghi (che l’Ucraina non ha). Nel frattempo, si segnala che da due anni la UE spende miliardi per la loro manutenzione, obbligatoria in tutti i provvedimenti di sequestro dei beni. Solo in Italia, per circa 1 miliardo di Euro in beni sequestrati, lo Stato spende 17 milioni di Euro all’anno per la loro manutenzione.

Per completare l’analisi del rapporto costi/benefici dell’operazione (che resta illegale e suscettibile di ricorsi e rimborsi con danni) si deve aggiungere che la Russia non resterà con le mani in mano. Mosca ritiene di avere a che fare essenzialmente con dei ladri ed ha promesso che reagirà confiscando i beni occidentali in Russia, che ammontano a 288 miliardi di dollari. Chi li pagherà? Le imprese europee, che poi scaricheranno sui lavoratori e sugli ammortizzatori sociali le perdite.

La decisione maturata a Bruxelles è figlia della subalternità politica verso gli USA e dell’aggrapparsi disperato all’idea mantenimento di un dominio occidentale sul resto del mondo. L’idea di sopperire alla propria funzione calpestando il Diritto Internazionale e persino il Diritto Privato, la cui assoluta sacralità è stato il dogma della storia del capitalismo, dimostra sotto ogni angolatura possibile la perdita di riferimento politico e culturale. Abdicare definitivamente ai principi ispiratori dei padri fondatori della UE ha causato la totale assenza di ruolo, l’incapacità a costruire una proposta di uscita negoziata e diplomatica dal conflitto. Sono state tradite le aspettative dei suoi stakeholder (cittadini e imprese d’Europa), del suo alleato (Ucraina) e delle sue controparti (Russia) che, per motivi e con obbiettivi diversi, si attendevano tutti una decisionalità diversa da parte di Bruxelles.

La responsabilità del terzetto di guida von der Layen, Michael e Borrell nel conflitto tra Russia e Ucraina, dove è stata scelta la linea di pedissequa obbedienza a Washington ignorando gli interessi europei è sotto gli occhi di tutti. E nelle tasche di ognuno.

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