Una recente devastante inchiesta interna alle forze armate australiane ha rivelato come i membri dei corpi speciali di questo paese siano stati responsabili dell’assassinio di almeno 39 civili e prigionieri afghani e di numerose altre atrocità nel quadro della guerra di occupazione che dura da quasi due decenni. Nonostante la gravità dei fatti dimostrati, la reazione della classe dirigente dell’Australia, così come dei media ufficiali e dei governi alleati, è stata tuttavia decisamente contenuta. Una ferocissima campagna di denuncia si è invece subito scatenata contro un funzionario del governo cinese, colpevole di avere pubblicato un tweet esplicito per condannare i crimini commessi dai soldati australiani.

 

Lijian Zhao è un portavoce del ministero degli Esteri di Pechino e lunedì aveva postato sul proprio account Twitter una rappresentazione artistica nella quale si vedeva un soldato australiano nell’atto di sgozzare un ragazzino afgano. Anche se non si trattava di una fotografia, l’immagine riproduceva una situazione indiscutibilmente avvenuta in più occasioni nel corso della permanenza delle Forze Speciali australiane in Afghanistan. Lijian si diceva “sconvolto dall’assassinio di civili e prigionieri afgani per mano di soldati australiani”, per poi esprimere la “ferma condanna” del governo cinese e la richiesta di individuare e punire i colpevoli.

Il rapporto uscito dall’inchiesta sui crimini commessi dal contingente australiano in Afghanistan citava almeno un episodio riconducibile all’immagine pubblicata da Lijian. Un gruppo di soldati stava viaggiando lungo una strada a bordo di mezzi militari quando si sono imbattuti in due quattordicenni afgani. I giovani erano stati fermati, perquisiti e, dopo che i soldati avevano deciso che erano simpatizzanti Talebani, li avevano uccisi tagliando loro la gola, per poi gettare i corpi in un fiume vicino. Il caso non è quasi certamente isolato. Testimoni anonimi hanno spiegato che non era raro ritrovare ragazzi e bambini sgozzati dopo raid condotti dalle Forze Speciali australiane.

L’indagine che ha mostrato al mondo le prove dei crimini delle forze di occupazione australiane in Afghanistan, facendo poi scoppiare l’accesissima polemica tra Canberra e Pechino, è stata condotta per oltre quattro anni dal giudice ed ex ufficiale Paul Brereton. Il lavoro era stato commissionato dagli stessi vertici militari australiani per fare luce su informazioni “credibili” riguardanti appunto l’uccisione immotivata di 39 afgani da parte delle Forze Speciali tra il 2009 e il 2013.

I risultati sono stati resi pubblici settimana scorsa e, malgrado l’operazione sia stata sostanzialmente un tentativo di insabbiamento, ciò che è emerso disegna un quadro sconvolgente a proposito di un contingente militare teoricamente d’élite che fa dei crimini di guerra la cifra del proprio comportamento. Pur risultando in parte censurato, il rapporto Brereton conferma l’esistenza di prove “credibili” dell’uccisione di almeno 39 tra civili e prigionieri afgani, così come di moltissimi altri casi di torture e abusi vari. Per stessa ammissione del responsabile dell’inchiesta, molti altri episodi di violenza restano protetti dal “codice del silenzio” esistente all’interno dei corpi speciali.

Per tornare al tweet del portavoce del ministero degli Esteri cinese, la conclusione che si può trarre dalla reazione del governo e di tutto il mondo politico australiano è che il livello dell’indignazione espressa nei confronti del rappresentante del governo di Pechino è stato infinitamente superiore a quello mostrato per gli assassini e le torture rivelate dal rapporto Brereton. Ad esempio, il primo ministro, Scott Morrison, aveva usato, tra le altre, le parole “inquietante” e “doloroso”per definire il contenuto del rapporto sull’Afghanistan, mentre a suo dire il post su Twitter di Lijian Zhao sarebbe stato addirittura “ripugnante”, “vergognoso” e “ingiustificabile”.

Non solo, se nei confronti dei famigliari delle vittime afgane non sono arrivate scuse ufficiali, Morrison le ha pretese dal governo cinese. Questo atteggiamento si è accompagnato alla difesa delle forze armate dell’Australia. Il primo ministro ha anzi elogiato queste ultime, sottolineando come il suo governo sia “orgoglioso di tutti gli australiani che indossano la divisa” del loro paese. Tutti, inclusi quindi i responsabili dei crimini rivelati dal rapporto Brereton. La disputa è stata anche sfruttata da Canberra per alimentare gli istinti nazionalisti australiani in funzione anti-cinese in un frangente storico segnato da crescenti tensioni tra i due paesi.

Anche la reazione dell’opposizione laburista ha ricalcato quella del governo conservatore. Il numero uno del Partito Laburista, Anthony Albanese, ha spiegato che gli assassini descritti nel rapporto “non ci rappresentano come nazione”, ma quando si è trattato di condannare il tweet cinese i toni sono stati decisamente più infuocati. Le posizioni dei leader di questo partito riflettono il loro totale appoggio alla guerra e all’occupazione dell’Afghanistan. D’altra parte, i 39 assassini indagati dal rapporti Brereton sono stati commessi tra il 2009 e il 2013, quando al governo a Canberra c’erano i laburisti.

Al coro di sdegno nei confronti della denuncia espressa da Pechino si sono aggiunti vari governi alleati dell’Australia. Il primo ministro neozelandese, Jacinda Ardern, è stata tra le prime a esprimere solidarietà al vicino, assicurando che il suo governo intende chiedere spiegazioni alla Cina. Neanche dalla Nuova Zelanda, che nel recente passato ha dovuto fare i conti a sua volta con accuse di crimini di guerra commessi dai propri militari in Afghanistan, è ovviamente arrivata alcuna condanna dei fatti in cui sono stati coinvolti i soldati australiani.

Stesso discorso vale per la Francia e, da ultimi, gli Stati Uniti. Mercoledì, il dipartimento di Stato americano ha accusato Pechino di “ipocrisia”, visto che spargerebbe “disinformazione” per coprire i propri “orrendi abusi dei diritti umani”, come la presunta detenzione di “oltre un milione di musulmani Uiguri nella regione dello Xinjiang”. Uno degli addetti stampa del dipartimento di Stato ha poi sostenuto che la Cina ha “toccato il fondo”, anche per gli standard presumibilmente già infimi del Partito Comunista.

Se di ipocrisia si tratta, sono i governi di Australia, Nuova Zelanda, Francia e soprattutto Stati Uniti a esercitarla in maniera ineguagliata. Per quanti crimini possano essere attribuiti al governo cinese, essi impallidiscono rispetto a quelli commessi dall’imperialismo americano in collaborazione con i suoi alleati. A Washington si ha il coraggio di denunciare con un linguaggio super-aggressivo una dichiarazione legittima e corrispondente al vero, come quella del ministero degli Esteri cinese, quando sono proprio gli Stati Uniti ad avere la totale responsabilità della guerra neo-coloniale in Afghanistan e di tutti i crimini indicibili che ne sono seguiti.

La risposta coordinata tra alleati alle accuse cinesi dipende anche dal fatto che praticamente tutti i paesi impegnati nell’occupazione dell’Afghanistan hanno precedenti simili al caso che sta interessando l’Australia. Una realtà che deriva inevitabilmente dalla natura del conflitto stesso, spacciato come una “guerra giusta” per punire i presunti colpevoli degli attentati dell’11 settembre, ma in realtà motivato anch’esso da questioni di interesse strategico.

La difesa a oltranza delle proprie forze armate da parte di Australia, Stati Uniti e non solo anche davanti all’evidenza di crimini commessi con drammatica regolarità è dunque un modo per limitare l’opposizione popolare contro conflitti come quello afgano e, ancora peggio, per giustificare nuove guerre di aggressione in futuro. Se i leader australiani cercano di proiettare un’immagine benevola delle proprie forze armate, la storia dell’ultimo secolo racconta una realtà diversa. Una sezione del rapporto Brereton, significativamente ignorata dai media, offre un riepilogo dei molti precedenti sanguinosi dei militari di questo paese, intervenuti in molti conflitti a fianco di Gran Bretagna e Stati Uniti: dalla guerra boera in Sudafrica tra il 1899 e il 1902 a quella in Corea (1950-1953), dal Vietnam alla Prima Guerra del Golfo, dall’invasione dell’Iraq all’Afghanistan.

In Australia sono così in pieno svolgimento gli sforzi per circoscrivere le responsabilità dei crimini ai soldati che li hanno materialmente commessi, salvaguardando invece la reputazione dei vertici militari e ancora di più di quelli politici. La sola realtà di abusi dilaganti in un ambiente caratterizzato da una cultura bellica violenta e brutale, inculcata deliberatamente nei soldati soprattutto dei corpi speciali, testimonia di per sé come i fatti descritti nel rapporto Brereton non siano un’eccezione, bensì la regola, conosciuta e approvata senza alcun dubbio fino in cima alla catena di comando.

Da questo atteggiamento deriva la sostanziale protezione dei criminali di guerra, anche in presenza di prove incontestabili. L’Australia ha per ora annunciato l’incriminazione di 19 soldati per i fatti rilevati dal rapporto Brereton, ma è improbabile che dai procedimenti usciranno condanne adeguate. Finora, per ciò che è accaduto in Afghanistan si trova invece in seri guai legali l’ex avvocato militare David McBride, sotto processo per avere passato alla stampa documenti segreti che descrivevano i crimini dei soldati australiani nel paese asiatico.

Lo stesso cittadino australiano Julian Assange, detenuto a Londra in attesa di estradizione negli USA, deve la sua vergognosa persecuzione anche alla pubblicazione ormai un decennio da parte di WikiLeaks di decine di migliaia di documenti classificati che rivelavano la vera faccia della guerra afgana. Del tutto straordinaria è stata infine qualche mese fa la decisione del governo americano di applicare sanzioni punitive e di minacciare con l’arresto un procuratore del Tribunale Penale Internazionale che intendeva aprire procedimenti penali per crimini di guerra nei confronti di militari delle forze di occupazione USA in Afghanistan.

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