Una sentenza non comune della Corte Suprema americana ha riportato al centro dei riflettori questa settimana la natura democraticamente dubbia del sistema elettorale per la scelta del presidente degli Stati Uniti. La decisione presa all’unanimità dal tribunale rivela una certa inquietudine per le possibili dispute che potrebbero presentarsi all’indomani delle prossime elezioni per la Casa Bianca e, ancora di più, per la legittimità di un sistema che di democratico ha in realtà ben poco.

Il sistema elettorale USA si basa sul concetto di “Collegio Elettorale” che non prevede il voto diretto per i candidati alla presidenza. Gli americani che si recano alle urne scelgono un certo numero di “elettori” e sono materialmente questi ultimi a votare per il nuovo presidente. Il numero complessivo di questi “elettori” è di 538 e riflette, per ogni singolo stato, quello dei deputati e dei senatori seduti al Congresso. Il “Collegio Elettorale” è completato da tre rappresentanti del “District of Columbia”, il distretto federale che ospita la capitale. Per assicurarsi la vittoria, un candidato alla presidenza deve dunque conquistare almeno 270 “voti elettorali”.

A livello teorico e, almeno fino a due decenni fa, anche pratico, il ruolo del “Collegio Elettorale” era considerato per lo più una formalità, perché solitamente il candidato che prevale nel voto popolare è anche quello che ottiene il maggior numero di “collegi elettorali”. La scelta di questa sorta di “grandi elettori” dovrebbe essere perciò automatica, anche se non esiste, almeno finora, un vincolo che li obblighi a votare per il candidato in cima alle preferenze popolari nel loro stato di provenienza.

La situazione si è tuttavia complicata a partire dal 2000, quando Al Gore conquistò circa mezzo milione di consensi in più di George W. Bush, ma perse le elezioni perché fu il candidato repubblicano ad avere la maggioranza nel “Collegio Elettorale”. In quel famigerato caso, fu la Florida a risultare decisiva dopo l’intervento della Corte Suprema che fermò incredibilmente il riconteggio delle schede elettorali nello stato.

Ancora nel 2016, Hillary Clinton ottenne addirittura tre milioni di voti in più di Donald Trump. Quest’ultimo chiuse però in vantaggio in alcuni stati-chiave e fu in grado di superare la soglia dei 270 “voti elettorali” e garantirsi l’ingresso alla Casa Bianca. Il caso su cui si è espressa lunedì la Corte Suprema americana deriva proprio dalle ultime elezioni presidenziali e stabilisce che le autorità statali possono adottare provvedimenti per costringere i membri dei rispettivi “Collegi Elettorali” a scegliere il candidato più votato nei loro stati, oppure a punirli se non lo fanno.

Nel 2016, dopo il terremoto politico provocato dalla vittoria di Trump, una manciata di questi “grandi elettori” decise di andare contro l’indicazione popolare. In realtà, questi ultimi avrebbero dovuto votare per la Clinton, ma, con una manovra senza successo, optarono per un repubblicano “moderato”, nella speranza di convincere altri membri del “Collegio Elettorale” a non votare Trump, negandogli così il raggiungimento della soglia dei 270 “voti elettorali” utili per garantirsi la presidenza.

È evidente che questo sistema di elezione indiretta si presta in teoria a manovre anti-democratiche soprattutto in caso di estremo equilibrio, come potrebbe appunto accadere il prossimo novembre nella sfida tra Trump e il democratico Joe Biden. La decisione della Corte Suprema punta perciò a limitare il potenziale caos elettorale, mettendo nelle mani degli stati uno strumento legale per fare in modo che le scelte degli elettori siano rispettate e ci sia poco spazio per contestazioni.

La questione è particolarmente delicata se si pensa alle condizioni in cui è probabile che gli americani dovranno votare di qui a pochi mesi. La crisi sanitaria in atto potrebbe ad esempio determinare restrizioni significative e fare aumentare in modo consistente il numero dei voti espressi per posta. Trump, inoltre, ha più volte agitato l’ipotesi di brogli se il numero dei votanti che si recano fisicamente ai seggi dovesse essere drasticamente ridotto.

In uno scenario simile, gli Stati Uniti rischierebbero di precipitare in una crisi costituzionale che, oltre a paralizzare il paese, sottrarrebbe ulteriore legittimità a un sistema e a una classe politica già profondamente screditati. Il fatto almeno che la scelta degli elettori venga rispettata nella selezione del prossimo presidente diventa quindi di importanza cruciale. A riprova di ciò, i giudici conservatori e quelli “liberal” della Corte Suprema sono stati tutti concordi lunedì nel concedere agli stati la possibilità di punire i cosiddetti elettori “sleali”.

Il verdetto di lunedì è stato dibattuto ampiamente sui media d’oltreoceano. In particolare e per le stesse ragioni da ricondurre alla necessità di legittimare il sistema, molti commentatori hanno intravisto una nuova possibilità per riformare la legge elettorale USA. Se, infatti, la Corte Suprema ha bocciato eventuali divergenze tra il voto popolare e quello del “Collegio Elettorale”, i tempi potrebbero essere ormai maturi per un sistema basato a tutti gli effetti sull’elezione diretta del presidente. In questo modo, almeno la forma della democrazia sarebbe finalmente ristabilita.

Un’idea di Paese misera e confusa, condita di piagnistei e sparate da bullo. È questa la cifra della nuova Confindustria di Carlo Bonomi, che in poco più di due mesi ha già rivelato tutta la sua pochezza. Di idee innovative per rilanciare il Paese, come sempre, non c’è traccia. La ricetta proposta dagli industriali italiani è la stessa che conosciamo da trent’anni: aiuti pubblici a fondo perduto, meno tasse, meno costo del lavoro e licenziamenti più facili, possibilmente con qualche concessione anche su norme ambientali e di sicurezza sul lavoro.

A questa miopia si accompagna una maschera d’aggressività dietro cui si nasconde un’indole pavida. Oggi come ieri, gli imprenditori italiani sono sempre pronti ad appoggiarsi allo Stato (oggetto di insulti a ciclo continuo), ma anche riluttanti a investire. Perché oltre alla creatività manca loro anche il coraggio.

Di boria, però, hanno i magazzini pieni. E allora ecco che Boccia, fresco di elezione, si è permesso di dire che “la politica rischia di fare peggio del Covid”, frase stupida e insultante quant’altre mai.

Ma chi è questo signore che da aprile guida Confindustria? Come imprenditore è piccolo: la sua azienda biomedicale conta appena otto addetti. Il successo di Bonomi è arrivato in Assolombarda e nelle varie assise confindustriali, dove si è distinto come il più agguerrito bombardiere di reddito di cittadinanza e quota 100.

La sua elezione è arrivata nel momento peggiore per il Paese, travolto dall’emergenza sanitaria ma anche dall’inizio di una crisi economica che si annuncia più grave di quelle del 2008-2009 e del 2011-2012. Già oggi diverse imprese denunciano crolli degli ordini e del fatturato fra il 50 e il 60%, mentre in autunno, quando la cassa integrazione finirà, migliaia di aziende salteranno, con conseguenze drammatiche sull’occupazione.

In questo scenario, Bonomi ha scelto di giocare d’attacco, accusando il governo di “debolezza politica”, di “smarrimento”, di non avere “un'idea della strada da percorrere”. Fino a quella frase sciagurata con il paragone fra la politica e il virus.

Quando però dalla pars destruens è dovuto passare alla costruens, Bonomi ha messo in luce tutti i propri limiti. A sentirlo parlare durante gli Stati generali, sembrava che la priorità numero uno per l’Italia fosse la restituzione alle imprese di 3,4 miliardi di accise sull'energia pagate e non dovute. Una rivendicazione legittima, in quanto fondata su una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso febbraio, ma anche patetica e provinciale, visto il contesto in cui è arrivata. 

In un libretto dal titolo “Italia 2030. Proposte per lo sviluppo”, di cui Bonomi firma la prefazione, si parla poi di alleggerire il peso della burocrazia favorendo la digitalizzazione, di tagliare l'Ires e di accettare i 36 miliardi che il Mes garantirebbe alla sanità italiana. Le imprese rivendicano inoltre il diritto di mettere bocca sulla destinazione dei fondi Ue.

Una lista della spesa, come al solito. Gli industriali fanno richieste, snocciolano imperativi, piagnucolano di “sentimenti antindustriali” a loro giudizio immotivati, ma non si mettono mai davvero in gioco. Il loro unico interesse continua essere privatizzare gli utili quando le cose vanno bene e socializzare le perdite in tempo di crisi.

La vera novità introdotta da Bonomi è che ora Confindustria persegue questi obiettivi in proprio, senza farsi rappresentare da alcun partito. In effetti, non ne avrebbe modo: il Movimento 5 Stelle non è mai stato tenero con gli industriali, mentre la Lega è antieuropeista e la scissione a destra pilotata nel Pd si è risolta in un disastro (Renzi rimane il leader più vicino agli imprenditori, ma ormai nei sondaggi Italia Viva è finita perfino sotto Calenda).

In questo contesto, Bonomi è ben contento di essere rappresentato dai media come un antagonista del governo: la gran cassa lo aiuta a definire il proprio ruolo e a realizzare il suo progetto di una Confindustria-partito. Ma siamo sicuri che questo Esecutivo sia davvero così nemico degli industriali? Forse abbiamo già dimenticato l’esenzione Irap da quattro miliardi prevista dal decreto Rilancio a beneficio di tutte le imprese, senza paletti né limiti di fatturato. Un regalo mica male, per arrivare da un nemico.

È proseguita senza sosta per tutto il fine settimana l’ondata di proteste negli Stati Uniti, esplose contro i metodi brutali delle forze di polizia, che stanno mostrando al mondo come la prima potenza del pianeta, già devastata dall’epidemia di Coronavirus, sia nient’altro che una polveriera sociale sul punto di esplodere. Di fronte al dilagare della rivolta, il presidente Trump continua a fare appello alle forze fascistoidi che costituiscono, in definitiva, la sua vera base di sostegno nel paese e ha denunciato, con implicazioni inquietanti, le manifestazioni in corso come iniziative promosse da provocatori, se non terroristi, di estrema sinistra.

Gli scontri che durano ormai da quasi una settimana raccontano di un’America sconvolta da un movimento popolare spontaneo dalle dimensioni inedite negli ultimi decenni. Un centinaio di città hanno fatto registrare proteste durissime, accolte quasi sempre dal pugno di ferro delle autorità, sull’onda dell’assassinio da parte di un agente di polizia del 46enne afro-americano George Floyd a Minneapolis il 25 maggio scorso.

Gli eventi seguiti a questo ennesimo gravissimo episodio di violenza deliberata avevano subito scatenato la rabbia della popolazione della città del Minnesota, con scene difficilmente riscontrabili nelle democrazie occidentali in tempi recenti, come la fuga dell’intero corpo di Polizia da un distretto mentre l’edificio che lo ospitava veniva dato completamente alle fiamme.

Fatti così eccezionali sono stati seguiti dalla reazione altrettanto sconvolgente del presidente degli Stati Uniti. Trump aveva subito invocato la repressione delle proteste, con il preciso scopo di incitare le stesse forze dell’ordine a soffocare nel sangue i disordini, fino addirittura a sparare sulla folla in rivolta. Il risultato della violenza fomentata dal vertice stesso dello stato è un bilancio finora già molto grave. I morti tra i manifestanti sarebbero due, di cui uno a Louisville, nel Kentucky, a causa di una sparatoria che ha coinvolto gli uomini della Guardia Nazionale.

Centinaia sono invece gli arresti in tutto il paese, mentre almeno 26 stati hanno mobilitato proprio la Guardia Nazionale, su invito di Trump, e una ventina hanno imposto il coprifuoco nelle ore notturne. Particolarmente numerosi sono stati i manifestanti a New York, dove si parla di decine di migliaia di persone scese per le strade in maniera pacifica. Clamorose sono state invece le scene viste a Washington. Nella capitale, le proteste hanno raggiunto la Casa Bianca e, in una situazione altamente simbolica, venerdì il presidente è stato condotto dagli uomini del Servizio Segreto nel bunker dell’edificio, dove è rimasto asserragliato e super-protetto per circa un’ora mentre all’esterno infuriava la rivolta.

Da Chicago a Philadelphia, da Miami a Los Angeles, da Seattle a Las Vegas, americani in larga misura appartenenti alla “working-class” non solo di colore hanno dato vita a una protesta quasi senza precedenti, innescata di fatto da un altro omicidio della polizia, ma alimentata come benzina sul fuoco da una crisi sociale aggravatasi a causa del tracollo dell’economia provocato dall’emergenza Coronavirus.

Un numero di disoccupati schizzato a 40 milioni praticamente dall’oggi al domani, quasi 20 milioni di lavoratori che rischiano o perderanno di certo la propria copertura sanitaria e un governo impegnato ad assicurare migliaia di miliardi di dollari ai grandi interessi economico-finanziari sono le vere ragioni di fondo di quanto sta accadendo oltreoceano in queste ore. È difficile in definitiva non constatare, come ha spiegato il filosofo e attivista Cornell West, “il fallimento definitivo dell’esperimento sociale americano” e del modello di capitalismo USA, in grado di generare ingiustizie sistematiche, disuguaglianze dalle dimensioni quasi incomprensibili e un’oligarchia irremovibile che controlla ogni aspetto dell’economia e della società.

Di fronte inoltre al pericolo di una vera e propria controrivoluzione di estrema destra, il cui centro nevralgico sembra essere precisamente alla Casa Bianca, i tentativi di pacificare la situazione messi in atto dagli oppositori di Trump appaiono ugualmente pericolosi o, quanto meno, fuorvianti.

Tra politici del Partito Democratico e commentatori a esso vicini sono in molti che, sia pure criticando le posizioni del presidente, hanno sposato la tesi della presenza in maggioranza di provocatori violenti tra le fila dei rivoltosi. Ancora più allarmante, oltre che patetico, è lo sforzo di altri per ricondurre i fatti di questi giorni all’ultra-screditata caccia alle streghe anti-russa. L’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Obama, Susan Rice, ha ad esempio caratterizzato le proteste come tipiche dell’agenda di Mosca, da dove si starebbe cercando di alimentare il caos per destabilizzare  gli USA per fini strategici.

Al contrario, quasi nessun politico democratico di spicco ha denunciato come tali le tirate di stampo fascista contro i manifestanti di Trump. Questo genere di reazioni rivela il terrore che attraversa la classe dirigente americana di qualsiasi orientamento politico, costretta a osservare forse per la prima volta il fantasma di una rivoluzione popolare in avanzamento.

Nella migliore delle ipotesi, media e politici “liberal” cercano in tutti i modi di collocare le proteste in un quadro puramente razziale, ancora una volta per tenere lontano il più possibile dal dibattito pubblico americano il fattore al contrario di gran lunga più importante per spiegare l’esplosione in atto, cioè quello di classe.

In uno scenario simile, è purtroppo altamente probabile che le centinaia di migliaia di americani scesi nelle strade delle città di tutto il paese finiranno per andare incontro a una violentissima repressione, dovuta in primo luogo all’isolamento e all’abbandono a cui vengono lasciati in assenza di un punto di riferimento politico realmente di sinistra.

Allo stesso modo, è tutt’altro che inverosimile pensare a un colpo di mano da parte dell’amministrazione Trump. In affanno nei sondaggi a pochi mesi dalle presidenziali, con l’economia in caduta libera e di fronte al radicalizzarsi della protesta, l’inquilino della Casa Bianca potrebbe sfruttare la situazione di crisi e l’impotenza dei suoi oppositori per adottare una qualche misura che introduca una sorta di stato di emergenza permanente o per dichiarare i manifestanti “terroristi domestici”.

Al centro delle manovre ci sarebbe in questo caso il ministro della Giustizia (“Attorney General”), William Barr, da sempre sostenitore convinto del rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e, non a caso, in questi giorni tra le voci più dure all’interno del governo federale nella denuncia delle manifestazioni partite da Minneapolis e dilagate quasi in ogni angolo degli Stati Uniti.

La trattativa sul Recovery Fund dimostra che la politica dell’Unione europea è dominata da due forze opposte: la prima, centripeta, tende all’accentramento del potere decisionale in capo alle due principali economie; la seconda, centrifuga, consente ai Paesi più insignificanti di tenere in ostaggio l’intera alleanza. Il 18 maggio Francia e Germania hanno presentato una proposta comune per il Recovery Fund, lo strumento che dovrebbe aiutare l’Europa a riprendersi dai colpi della pandemia. In sostanza, si tratta di 500 miliardi di aiuti a fondo perduto (quindi da non rimborsare), reperiti attraverso bond della Commissione europea (con garanzia di tutti i Paesi Ue) e destinati ai Paesi più colpiti dal Covid-19.

A questo risultato si è arrivati attraverso una serie di manovre d’avvicinamento fra Parigi e Berlino. Nella prima fase della crisi, a condurre le danze è stato Emmanuel Macron, che con otto alleati - tra cui Italia e Spagna - ha firmato una lettera per chiedere il varo degli eurobond, opponendosi al rigore dei nordici. Era però solo una mossa d’apertura, visto che qualche giorno dopo il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, ha presentato ai partner una proposta di un compromesso. Il Recovery Fund, appunto, che secondo Parigi doveva essere un veicolo finanziario autonomo, con la possibilità di andare sui mercati.

A quel punto il pallino è passato nelle mani di Angela Merkel, che ha riplasmato a sua immagine il progetto francese, legandolo al prossimo bilancio dell’Unione europea (2021-2027). Non solo: con la trovata dei finanziamenti a fondo perduto, la cancelliera evita che gli aiuti gonfino i debiti pubblici dei Paesi destinatari, disinnescando così il rischio di condivisioni degli oneri in caso di default sovrano. Un’altra innovazione con cui Merkel ha convinto i suoi alleati di governo riguarda il fatto che il Recovery Fund non finanzierà gli Stati, ma direttamente le aree più colpite dal virus, attraverso crediti alle aziende e progetti di rilancio.

La proposta francotedesca ha sbloccato lo stallo in cui si trovava la Commissione europea, che sotto la pressione dei Paesi del Nord ha rinviato per tre volte la presentazione del piano sul Recovery Fund, inizialmente prevista per il 6 maggio e poi slittata al 27. Bruxelles lavora su due tavoli: da una parte intende aumentare la portata del Fondo a mille miliardi, creando un cocktail di prestiti e finanziamenti a fondo perduto che si sommeranno agli altri mille miliardi del bilancio Ue; dall’altra punta a trovare una soluzione ponte per far arrivare i primi soldi a settembre, e non a gennaio 2021, come imporrebbe il legame con il bilancio europeo. A giugno il piano sarà discusso fra i governi dell’Unione, ma il via libera potrebbe non arrivare prima di luglio.

Il motivo è da ricercare nell’altra forza dominante in Europa, quella centrifuga. Austria, Danimarca, Svezia e Olanda hanno presentato un documento comune per opporsi “a qualsiasi strumento che porti alla mutualizzazione del debito o a un significativo aumento del bilancio dell’Unione”. I quattro Paesi - battezzati dalla stampa britannica “Frugal Four”, con un richiamo ironico ai Beatles (i “Fab Four”) incompreso in Italia - propongono un Emergency Recovery Fund basato su prestiti “da restituire” e subordinati a “un forte impegno sulle riforme e sul quadro finanziario”. Una ricetta che sa molto di austerità.

Come se ne esce? Innanzitutto, occorre tenere presente che i Quattro Frugali non sono forti come i ragazzi di Liverpool: messi insieme, i loro contributi al bilancio Ue sono inferiori a quelli dell’Italia. In secondo luogo, due su quattro sono politicamente ricattabili.

A cominciare dall’Olanda, che dispensa le sue rampogne moraleggianti mentre ruba miliardi di tasse agli altri i Paesi europei, essendo un paradiso fiscale. Già il documento di Merkel e Macron attaccava il dumping olandese, che ora è finito anche nel mirino della Commissione. Alla fine, è verosimile che il premier Mark Rutte (appeso a un filo in patria) sarà indotto a più miti consigli.

Quanto all’Austria, a cucinare il cancelliere Kurz dovrebbe pensarci ancora una volta Angela Merkel, che ha incaricato i Verdi tedeschi di fare pressione sui loro omologhi viennesi, decisivi per la tenuta del governo.  

Più complicate le partite in Svezia, dove c’è un esecutivo di minoranza ostaggio del Parlamento, e in Danimarca, Paese dominato dall’euroscetticismo.

È facile prevedere che i negoziati saranno lunghi e le concessioni inevitabili. Dal punto di vista dell’Italia, tutto ruota intorno alle condizioni imposte a chi riceverà i fondi. Il rischio è che somiglino a quelle usate otto anni fa per affondare la Grecia.


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