Le prime due elezioni a livello statale di un anno ricco di appuntamenti con le urne, e che prevede anche il rinnovo del Parlamento federale di Berlino, hanno inviato segnali di allarme ai cristiano-democratici (CDU) della cancelliera Merkel a pochi mesi dal suo addio definitivo alla scena politica tedesca. Oltre a sollevare qualche dubbio sul futuro del principale partito della Germania e sulla leadership del fronte conservatore, il voto di domenica nel Baden-Württemberg e nella Renania-Palatinato ha confermato l’ascesa e la trasformazione dei Verdi in un movimento moderato in grado di garantire la stabilità di un sistema tendente sempre più alla frammentazione e al declino dei partiti di riferimento del capitalismo tedesco.

In entrambi gli stati, la CDU ha dovuto incassare la peggiore prestazione della propria storia. Nella Renania-Palatinato, il partito della Merkel ha perso più di quattro punti percentuali, scendendo al 27,7%, mentre nel Baden-Württemberg la flessione è stata quasi del 3% (24,1%) rispetto al voto del 2016. Soprattutto in quest’ultimo stato della Germania meridionale, ha spiegato un’analisi del voto pubblicata da sito web della rete pubblica Deutsche Welle, l’arretramento della CDU appare preoccupante. Qui hanno infatti sede alcune delle più prestigiose grandi aziende tedesche e lo stato è considerato un bastione conservatore. Il successo per la terza volta consecutiva dei Verdi e del premier statale, Winfried Kretschmann, testimonia dunque del ruolo di questo partito agli occhi delle élites economiche tedesche, tradizionalmente sostenitrici della CDU, con ovvie implicazioni anche a livello federale.

Proprio nel Baden-Württemberg, la conferma dei Verdi, in avanzamento di oltre due punti e ormai sopra il 32% dei consensi, ha aperto la discussione sulla natura della prossima coalizione di governo. Il partito di Kretschmann ha guidato lo stato assieme alla CDU negli ultimi cinque anni, ma già si parla di una possibile alternativa che vedrebbe i Verdi assieme al partito Social Democratico (SPD) e a quello Liberale Democratico (FDP). Questo modello, definito “semaforo” per via dei colori dei tre partiti coinvolti, ha qualche possibilità di essere ripetuto a livello federale se le tendenze evidenziate dal voto di domenica dovessero proseguire fino alle elezioni federali di settembre.

I segnali del potenziale riallineamento politico in Germania sono arrivati alla chiusura delle urne anche dalle dichiarazioni del candidato alla cancelleria per la SPD, il ministro delle Finanze Olaf Scholz. Quest’ultimo, che fa parte della “Grosse Koalition” al governo a Berlino, ha salutato quello del voto nei due stati come “un buon giorno”, poiché “ha mostrato che è possibile creare un esecutivo in Germania senza la CDU”. Anche la co-leader del Verdi, Annalena Baerbock, ha agitato l’ipotesi di composizioni alternative alla CDU per il prossimo governo federale.

La SPD si è confermata nella Renania-Palatinato con la vittoria della premier uscente Malu Dreyer, ma ha tutt’al più evitato di perdere ulteriore terreno e a livello nazionale continua a far segnare un gradimento attorno a un modesto 15%-16%. Molti commentatori tedeschi hanno giudicato perciò l’uscita di Scholz e l’entusiasmo delle sue apparizioni pubbliche come una strategia elettorale. La SPD sta cercando di puntare soprattutto sulla scelta precoce del candidato alla guida del governo, al contrario della CDU che lo farà invece solo nelle settimane successive alla Pasqua.

A essere maggiormente sotto pressione è comunque il neo-leader cristiano-democratico, Armin Laschet, nominato successore della Merkel lo scorso mese di gennaio. In tempi normali, il numero uno del primo partito tedesco sarebbe automaticamente il logico candidato alla cancelleria, ma le scosse degli ultimi anni, confermate dal voto del fine settimana, sollevano più di un dubbio. La CDU ha pagato l’irritazione diffusa per alcuni casi di corruzione che hanno interessato tre deputati conservatori, costretti alle dimissioni perché coinvolti in un scandalo legato alla fornitura di mascherine. Anche il non esaltante lancio della campagna vaccinale contro il COVID-19 ha indubbiamente favorito l’erosione dalla CDU.

Più in generale, sono gli equilibri del panorama politico della Germania a essere messi in discussione, con i Verdi che appaiono i principali beneficiari della crescente freddezza mostrata dagli elettori prima per la SPD e da qualche tempo anche per la CDU. La questione della scelta del candidato alla carica di cancelliere per il fronte conservatore sarà dunque particolarmente delicata quest’anno. Laschet resta il favorito ma sembra suscitare ben pochi entusiasmi, tanto che continua a circolare il nome di Markus Söder, leader del partito-gemello della CDU, i cristiano-sociali (CSU) bavaresi. Söder è l’attuale premier della Baviera ed è uno dei politici con il maggiore indice di gradimento su scala nazionale.

Per il momento, è molto probabile che la CDU resterà il fulcro anche del prossimo governo federale. Le manovre e le dichiarazioni sibilline dei leader dei Verdi e della SPD appaiono come il tentativo di posizionarsi nel migliore dei modi in vista del voto di settembre e delle trattative che seguiranno per la formazione del primo gabinetto del dopo-Merkel. Soprattutto i Verdi hanno approfittato della convincente performance elettorale per accreditarsi come forza responsabile di governo che ha abbandonato ormai del tutto l’attitudine “radicale” del passato, peraltro mai riscontrata nella realtà dei fatti. Uno dei due leader del partito, Robert Habeck, domenica sera ha spiegato in un’intervista alla rete ARD che i principi ispiratori sono “lungimiranza e pragmatismo”, validi sia a livello statale sia a quello federale.

La strategia verde è in definitiva quella di intercettare i voti moderati in fuga dalla CDU quasi orfana della Merkel dopo anni al governo in varie coalizioni statali, nonché per due mandati a livello federale, trascorsi nel rassicurare i grandi interessi economico-finanziari-industriali tedeschi dell’intenzione di allinearsi fedelmente alle loro priorità. I Verdi, infatti, condividono in pieno gli obiettivi del capitalismo tedesco nel quadro della realtà internazionale odierna, a cominciare da quello di promuovere un’ambiziosa politica da grande potenza, in primo luogo attraverso l’impulso alla militarizzazione.

Il rimescolamento in atto degli equilibri politici in Germania potrebbe risultare più chiaro nei prossimi mesi che condurranno al voto federale del 26 settembre. L’obiettivo principale della classe dirigente tedesca sarà quello di garantire, pur nella frammentazione del sistema, il predominio di forze moderate e affidabili, in modo da contenere al minimo le forze centrifughe.

Una prima indicazione in questo senso è arrivata sempre dalle recenti elezioni in Baden-Württemberg e Renania-Palatinato. In entrambi gli stati le frange estreme dello schieramento politico hanno ottenuto risultati deludenti. A destra, l’Alternativa per la Germania (AfD) ha perso complessivamente circa un terzo dei consensi rispetto a cinque anni fa, sia pure mantenendosi attorno al 10%. La sinistra di “Die Linke” non ha invece nemmeno superato la soglia di sbarramento per ottenere deputati nei due parlamenti statali.

Per l’AfD può avere pesato la recente decisione dei servizi segreti federali di mettere il partito sotto sorveglianza perché considerato una minaccia al sistema democratico, ma soprattutto vanno considerati i limiti fisiologici di un movimento che si richiama più o meno apertamente ai principi del nazismo. “Die Linke”, invece, continua ad arrancare al di fuori dei “Länder” orientali e, ancora di più, ha dimostrato nuovamente di non essere in grado di offrire un’alternativa di sinistra a un quadro generale caratterizzato, anche in Germania, da un evidente fermento politico e sociale.

L’accordo sugli investimenti raggiunto il penultimo giorno dell’anno tra Cina e Unione Europea ha rappresentato una sorpresa particolarmente sgradita per il governo americano e, in particolare, per l’amministrazione entrante del presidente-eletto Joe Biden. L’intesa, che sembrava in pieno stallo appena un paio di mesi fa, potrebbe infatti aggravare le tensioni tra le due sponde dell’Atlantico proprio mentre l’uscita di scena di Trump prospettava a Washington la possibilità di costruire un fronte comune con gli alleati per contenere la minaccia cinese.

I negoziati erano in corso da parecchi anni, ma le differenze che apparivano quasi insormontabili sono state superate nell’arco di poche settimane soprattutto, secondo quanto riportato dai media, grazie all’impegno diretto del presidente cinese, Xi Jinping, e della cancelliera tedesca Merkel, con il pieno appoggio di Macron e della numero uno della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

L’accordo dovrà essere ratificato dai singoli parlamenti dei paesi UE prima di entrare in vigore e, in tal caso, rafforzerà i legami economici tra Bruxelles e Pechino, spianando la strada a quello che sarà probabilmente il passo successivo, vale a dire un trattato di libero scambio. A dare la spinta decisiva sono stati due fattori. Il primo è il voto per le presidenziali USA dello scorso novembre e il successivo periodo di transizione tra le due amministrazioni, mentre l’altro è l’avvicinarsi della fine del semestre tedesco alla presidenza dell’Unione.

Quest’ultimo elemento ha messo in chiaro quale sia la posta in gioco per il governo di Berlino, ben deciso a far valere la propria autonomia strategica dagli Stati Uniti, in particolare riguardo alla promozione degli interessi del capitalismo tedesco, orientato sempre più verso il mercato cinese. L’autorità ulteriore garantita dalla leadership provvisoria dell’UE, assieme alla finestra temporale tra la sconfitta di Trump e l’insediamento di Biden, hanno dato, come spiegava qualche giorno fa un commento del francese Le Monde, una “opportunità unica” a una Germania convinta dalla pandemia della necessità “urgente di rafforzare la sovranità europea… nel pieno dello scontro tra Washington e Pechino”.

Proprio la concomitanza dell’accordo con la vittoria di Biden e l’impegno dell’ex vice-presidente democratico per rinsaldare le alleanze in Occidente, al fine di contrastare le spinte centrifughe e multipolari, testimonia della presenza di forze formidabili dentro la classe dirigente europea che spingono per l’implementazione di politiche “indipendenti” e potenzialmente in conflitto con gli Stati Uniti, al di là degli orientamenti dell’inquilino della Casa Bianca.

Queste dinamiche rispondono d’altra parte a fattori oggettivi e non dipendono solo dalle tendenze personali di Trump. Da Parigi a Berlino, i leader delle principali potenze economiche europee ritengono evidentemente che negli USA la strada del nazionalismo spinto difficilmente verrà abbandonata del tutto. La minaccia alla coesione della NATO, la guerra commerciale anche contro gli alleati e l’arma delle sanzioni economiche dirette verso paesi con cui Bruxelles non intende rompere (Cina, Russia, Iran) rischiano di restare a lungo in cima all’agenda di qualsiasi governo USA perché sono in definitiva una reazione alla declinante posizione internazionale di Washington.

L’accordo sugli investimenti è dunque in primo luogo una decisione politica da parte dell’Europa, il cui business intende però sfruttare le occasioni di profitto offerte dalla Cina, praticamente l’unica potenza economica mondiale in grado di far segnare tassi di crescita positivi per l’anno 2020. Secondo i termini concordati, le compagnie europee di svariati settori avranno accesso senza precedenti al mercato cinese, ad esempio senza l’obbligo di operare in regime di “joint venture” o di condividere tecnologie e proprietà intellettuale. Ancora, a livello teorico il governo di Pechino non potrà fare discriminazioni tra le aziende europee e quelle statali domestiche nell’assegnazione di appalti.

La Cina si impegna inoltre a rispettare i termini dell’accordo sul clima di Parigi e a ratificare le convenzioni internazionali contro il lavoro forzato. Questa promessa, già denunciata come improbabile dagli oppositori dell’intesa con l’UE, serve a limitare la valanga di accuse, in larga misura strumentali, relative alla presunta esistenza di campi di lavoro nella regione a maggioranza musulmana dello Xinjiang.

Da parte sua, la Cina otterrà più ampie possibilità di investimento in Europa, dal settore manifatturiero a quello energetico. Anche in questo caso, tuttavia, i benefici saranno soprattutto politici. È quasi unanime il giudizio degli osservatori sui vantaggi di natura geopolitica che deriveranno per Pechino. L’accordo del 30 dicembre e, ancora di più, un eventuale trattato di libero scambio con l’Europa implicano la rottura dell’isolamento in cui gli Stati Uniti intendono forzare la Cina, sia attraverso la guerra commerciale unilaterale di Trump sia, in prospettiva, con il compattamento del fronte occidentale auspicato da Biden.

Ampiamente citato dai media internazionali è stato nei giorni scorsi il commento all’accordo dell’analista Noah Barkin. Quest’ultimo lo ha definito uno “schiaffo” all’amministrazione democratica entrante, intenzionata a “riparare i legami transatlantici e a lavorare in sintonia con l’Europa per far fronte alle sfide strategiche” proposte da Pechino. La rapidità con cui l’accordo sugli investimenti è stato finalizzato nelle ultime settimane dell’anno indica precisamente il desiderio dei leader europei di mettere Biden davanti al fatto compiuto, anticipando le iniziative comuni che la sua amministrazione avrebbe adottato in funzione anti-cinese.

I tempi dell’accordo e la determinazione da parte europea sono ancora più sorprendenti, nonché altamente significativi, se si pensa che i futuri membri del gabinetto Biden avevano orchestrato una vera e propria campagna per impedire la stipula dell’accordo, puntando con ogni probabilità sugli ambienti più filo-americani da questa parte dell’Atlantico.

Il prossimo consigliere per la Sicurezza Nazionale USA, Jake Sullivan, era stato il più esplicito in questo senso. Il 22 dicembre aveva scritto su Twitter che “l’amministrazione Biden-Harris gradirebbe consultarsi precocemente con i propri partner europei in merito alle preoccupazioni comuni derivanti dalle pratiche economiche cinesi”. Sempre Sullivan, in una più recente intervista alla CNN, aveva inoltre espresso la volontà di superare le incomprensioni con gli alleati sorte durante la presidenza Trump, allo scopo di “creare un’agenda comune” sulle questioni legate ai problemi sollevati dalla minaccia di Pechino.

Manifestando tutta l’apprensione degli ambienti USA vicini al Partito Democratico, l’editorialista del Washington Post, Ishaan Tharoor, ha spiegato che l’annuncio dell’accordo sugli investimenti tra Cina e UE ha invece mostrato una “realtà differente”. La Merkel e Macron hanno cioè optato per una “’autonomia strategica” dell’Europa, con l’obiettivo addirittura di liberarsi dalla “protezione, durata oltre mezzo secolo, della Pax Americana”.

Il rimescolamento in atto, che potrebbe spiazzare da subito il nuovo governo americano, è sottolineato anche dal fatto che la Commissione Europea solo nel 2019 in un documento ufficiale aveva bollato la Cina come un “rivale strategico”. Non solo, quanto meno a livello potenziale, l’integrazione euro-asiatica, a cui strizza l’occhio il recente accordo tra Pechino e Bruxelles, potrebbe produrre effetti benefici anche per la Russia. Quest’ultimo paese è infatti sempre più uno snodo imprescindibile di queste dinamiche, soprattutto per via della partnership strategica costruita con la Cina.

La posizione dell’Europa non è ad ogni modo univoca sull’approccio alla Cina. Voci fermamente contrarie all’accordo si sono fatte sentire già a partire dalle ultime ore dell’anno. Le riserve più diffuse riguardano appunto l’opportunità di inviare un messaggio così ostile a Washington alla vigilia di un cambio della guardia alla Casa Bianca che dovrebbe favorire il ripristino di relazioni più distese tra USA e UE. L’argomento preferito per denunciare l’accordo con Pechino è stato poi quello della “democrazia” e dei “diritti umani”, in merito ai quali la Cina dovrebbe presumibilmente fare molto di più prima che l’Europa acconsenta a un accordo come quello appena sottoscritto.

Una delle speranze ostentate dalla stampa ufficiale cinese nei giorni scorsi è che l’accordo sugli investimenti con Bruxelles e un futuro trattato di libero scambio possano non solo evitare l’isolamento di Pechino, ma anche stabilizzare in qualche modo il capitalismo internazionale e consolidare le fondamenta della globalizzazione.

Le divisioni in Europa e la quasi certa risposta degli Stati Uniti a questi sviluppi fanno pensare piuttosto a un inasprimento delle tensioni internazionali, già alimentate dall’impatto della pandemia in corso. La questione più esplosiva e difficilmente risolvibile nel quadro attuale resta in definitiva l’integrazione pacifica di una Cina dal peso economico sempre maggiore in un sistema dominato da un’America in profonda crisi e non più in grado di conservare la propria posizione se non attraverso la forza e la minaccia militare.

Lo scontro politico e commerciale fra Usa e Cina arriva a coinvolgere TicTok, uno dei social media più diffusi fra gli adolescenti di tutto il mondo. Donald Trump ha annunciato venerdì l’intenzione di mettere al bando l’app per ragioni di sicurezza nazionale, ma c’è da scommettere che la partita non si risolverà facilmente: le implicazioni economiche sono troppe e riguardano anche uno dei colossi della Silicon Valley. Ma partiamo dall’inizio.

Domanda numero uno: cos’è TicTok? Nata nel 2016 dall'idea dell'imprenditore e informatico Zhang Yiming, l’applicazione è oggi di proprietà di Bytedance, multinazionale cinese che – secondo Reuters – è stata valutata 50 miliardi di dollari. In sostanza, TicTok è una piattaforma per la condivisione di video che si possono sincronizzare con brani musicali e arricchire di effetti (adesivi, dissolvenze, scritte). Disponibile in 75 lingue, è diffusa in 155 Paesi e il 41% dei suoi utenti ha fra i 16 e i 24 anni. In tutto, è stata scaricata oltre due miliardi di volte e conta circa 800 milioni di profili attivi, di cui decine di milioni negli Stati Uniti.

Domanda numero due: perché Trump vuole chiudere TicTok? Come per il 5G targato Huawei, gli Usa temono che la tecnologia cinese possa funzionare da cavallo di Troia per rubare dati, portare avanti attività di spionaggio e manipolare l’opinione pubblica. Non si tratta di preoccupazioni infondate: essendo di proprietà cinese, l’applicazione è soggetta alle leggi di Pechino che – in caso di necessità – impongono alle aziende private di collaborare con le agenzie d’intelligence del governo. Per la stessa ragione, il 30 giugno TicTock è stato bandito dall’India, uno dei Paesi dove la sua diffusione era più capillare.

Dal punto di vista politico, però, un’eventuale chiusura dell’applicazione negli Usa rischia di portare a Trump più danni che benefici. I problemi sarebbero due: da un lato la reazione degli utenti, che però in gran parte sono minorenni e quindi non votano; dall’altro l’impatto economico negativo (negli ultimi tempi TicTok ha assunto personale americano tra New York, Los Angeles e Washington) in una fase già drammatica a causa del Covid (nel secondo trimestre il Pil americano è sprofondato del 32,9%, il crollo peggiore dal 1947).

La Casa Bianca potrebbe risolvere la situazione con l’aiuto di Microsoft, che deve rafforzarsi nel settore dei social network (in cui è presente solo con Linkedin) e da tempo tratta con i cinesi per acquistare una quota dell’app. Pur di evitare la messa al bando, ByteDance si è detta pronta a vendere anche il 100% delle attività di TikTok negli Stati Uniti. Se passasse nelle mani di un gruppo americano, infatti, l’applicazione non risponderebbe più alle leggi cinesi, cancellando – almeno in teoria – il rischio spionaggio. Peccato che Trump detesti Bill Gates e si sia già detto “fermamente contrario” all’acquisto dell’app da parte di Microsoft. A questo punto, rimane da capire se il Presidente americano abbia davvero il potere d’impedire un’operazione di mercato così importante, che peraltro consentirebbe di tutelare la sicurezza nazionale senza mettere a rischio posti di lavoro.

Un thriller all'italiana quello proposto da Milena Cocozza in Letto N. 6. La dottoressa Bianca Valentino (Carolina Crescentini) viene assunta in un ospedale pediatrico per coprire i turni di notte in reparto. Bianca si ritrova immersa in un ambiente che dietro la sua immagine rassicurante nasconde un terrificante segreto legato al suo passato di manicomio infantile. Il fantasma di un bambino si aggira tra i corridoi tormentandola e trasformando le sue notti in clinica in un incubo senza fine che giorno dopo giorno sta per diventare realtà.

“Letto N. 6 – afferma l'esordiente regista - nasce da un soggetto dei Manetti bros. in cui mi sono immediatamente calata grazie al fascino che suscitano in me le storie di fantasmi e più in generale quelle avvolte da misteriose energie. Il mio approccio, personale e registico, è stato quindi quello di raccontare una storia sovraumana collocandola in un contesto realistico e credibile. La Roma dei nostri giorni, personaggi con una forte connotazione naturalistica, il tema della maternità e degli ostacoli lavorativi che una donna deve affrontare se non vuole rinunciare non solo al lavoro stesso, ma anche alla carriera. Ma anche la debolezza umana e i danni, talvolta irreparabili, che questa debolezza porta con sé. Tutto questo inserito nel 'genere' che pur avendo degli stilemi riconosciuti, rappresenta una scommessa interessantissima per interpretare gli stereotipi all’interno dei quali si muove il racconto”.

Un film che avrebbe avuto anche delle buone potenzialità per centrate l'obiettivo, ma che risulta troppo lungo e con una sceneggiatura per nulla snella e piuttosto ripetitiva.

Buono l'uso delle musiche, firmate da Motta, che aiutando a creare quella giusta tensione, tipica di questo genere.

Letto N. 6 (Italia 2020)

Regia: Milena Cocozza

Soggetto: Manetti bros. Michelangelo La Neve

Sceneggiatura: Michelangelo La Neve con la collaborazione di Cristiano Brignola

Musiche: Motta

Prodotto da: Carlo Macchitella, Manetti bros.

Il fronte del No s’incrina, ma la strada verso l’accordo europeo sul Recovery Fund è ancora in salita. Con ogni probabilità, il vertice in programma venerdì non sarà decisivo: Olanda, Austria, Svezia e Danimarca – che con sprezzo del ridicolo si definiscono “Paesi Frugali” – contestano ancora molti aspetti del piano (su tutti, i 500 miliardi di aiuti a fondo perduto) e fin qui hanno bollato come “insufficiente” ogni tentativo di mediazione.

Su di loro però agisce la pressione di Angela Merkel, che da inizio mese è presidente di turno del Consiglio Ue e intende chiudere la partita prima della pausa di agosto. Un primo risultato la cancelliera lo ha già ottenuto: il suo omologo austriaco, Sebastian Kurz, afferma pubblicamente che “c’è ancora bisogno di discutere”, ma in via informale avrebbe assicurato a Merkel che il negoziato non fallirà a causa di Vienna. L’apertura si spiega con ragioni di politica interna: pur essendo un conservatore inflessibile, Kurz deve rendere conto anche ai Verdi, decisivi per la maggioranza e da sempre schierati su posizioni europeiste. 

La situazione è rovesciata in Olanda, dove Mark Rutte pensa da tempo alle elezioni politiche della primavera 2021. Alla guida di un governo fragile, il premier olandese deve difendersi dalla destra, dove gli estremisti sono in agguato, ma anche dal suo giovane e ambizioso ministro delle Finanze, Wopke Hoekstra, che vuole prendere il suo posto alla guida del partito popolare come dell’Esecutivo.

Per mascherare questa debolezza e rilanciare la propria leadership appesa a un filo, Rutte ha scelto d’indossare la maschera del duro. Fra i quattro frugali, è lui il più intransigente e negli ultimi colloqui internazionali ha ostentato più arroganza del solito. La settimana scorsa, nel ricevere Giuseppe Conte, il premier olandese ha chiesto all’Italia garanzie sulle riforme indicate come necessarie da Bruxelles: abolizione di quota 100, svolta sul lavoro, ammodernamento di giustizia e istruzione, nuova tornata di liberalizzazioni. Per non parlare dei conti pubblici, che Roma dovrà risanare non appena la crisi si attenuerà.

Ora, come si permette il capo del governo olandese di esprimersi in questi termini con il premier italiano? La domanda è ovvia, ma Conte non aveva interesse a esacerbare i toni, per cui si è limitato a replicare che le riforme “le chiede la Troika”, non l’Aia, e che “qui dobbiamo costruire uno strumento europeo, non fare il tiro alla fune, altrimenti cadiamo tutti per terra”.

Non pago, il buon Rutte si è spinto ancora oltre giovedì sera, quando ha chiesto a Merkel che tanto gli aiuti del Recovery Fund quanto i piani di riforme presentati ai parlamenti nazionali siano da approvare all’unanimità in sede europea, in modo da garantire a ciascun Paese il potere di veto. Un’ingerenza inverosimile, che nessuno potrebbe mai accettare: l’impressione è quindi che Rutte stia solo cercando di sparare sempre più in alto per lucrare il compromesso più vantaggioso possibile.

Fin qui, l’Europa ha scelto di usare solo la strategia della carota. Per ammorbidire i Frugali, Bruxelles ha già garantito che nel prossimo bilancio Ue saranno mantenuti i rebates, ossia gli sconti (quantomai anacronistici) concessi ai Paesi del Nord: 1,5 miliardi per l’Olanda, 237 milioni per l’Austria, 798 per la Svezia e 197 per la Danimarca.

A questo punto è lecito domandarsi se e quando arriverà il bastone. Perché Rutte, mentre impartisce ordini dall’alto della sua superiore moralità, guida un Paese che da anni partica dumping fiscale a danno dei suoi stessi alleati, concedendo alle imprese una tassazione agevolata sugli utili prodotti altrove e sottraendo così miliardi di gettito agli erari nazionali. Un chiaro esempio di frugalità, no?


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy