di redazione

Dopo lo scontro diretto era a +3, poi è scesa a +1, poi ancora +3. E ora sono di nuovo pari. La Juventus si fa raggiungere dalla Roma in testa alla classifica a quota 22. A condannare i bianconeri è la sconfitta per 1-0 sul campo del Genoa, arrivata grazie alle parate di un super-Perin e al gol al 94esimo di Antonini, che sfrutta un bellissimo assist al volo dell'ex Matri e tira verso la porta con tutta la goffaggine di cui è capace, probabilmente cercando un maldestro stop. Ma Chiellini non ce la fa a recuperare: la palla entra. In precedenza Ogbonna, imbeccato da Lichtsteiner, si era ritrovato a colpire di testa solo davanti al portiere, in posizione regolare. Palo. Dopo il mezzo passo falso contro il Sassuolo, per la Juve stavolta la beffa arriva con tutti i crismi.

Negli stessi minuti i giallorossi archiviano con facilità la vittima sacrificale di turno, un Cesena che riesce a esibirsi nel più tedioso dei catenacci anche quando è già sotto nel risultato. All'Olimpico finisce 2-0 per gli uomini di Garcia, che segnano un gol per tempo, prima con Destro, poi con De Rossi. Le uniche note stonate della serata sono Cole, ormai un ex giocatore che forse ricorda intorno al fuoco le serate inglesi in cui correva sulla fascia, e Iturbe, volenteroso ma confusionario.

In attesa di Verona-Lazio, al terzo posto il Milan aggancia la Sampdoria, ma avrebbe potuto anche staccarla. I rossoneri infatti non vanno oltre l'1-1 sul campo del Cagliari, dove alla zuccata di Ibarbo - trovato splendidamente da Sau - risponde Bonaventura con una tipica palla Frankenstein, a metà fra un cross malamente sparacchiato e un tiro geniale.

I blucerchiati incassano invece la prima sconfitta stagionale sul campo dell'Inter, che per la seconda partita consecutiva s'impone 1-0 grazie a un rigore di Icardi. I nerazzurri arrivano così a quota 15, pareggiando i conti con Lazio (che però, come detto, ha una partita in meno), Genoa e Napoli. Gli azzurri di Benitez sprecano l'ennesima occasione di piazzarsi da soli in terza posizione. A Bergamo si fanno fermare sull'1-1 dall'Atalanta (8 punti): i padroni di casa vanno in vantaggio nel primo tempo con Denis, cui nella ripresa risponde Higuaìn, al quarto gol in due partite. Lo stesso Pipita ha il match point sul destro allo scadere, ma il suo calcio di rigore (mal tirato) è preda del portiere Sportiello.

A metà classifica la Fiorentina galleggia da sola a quota 13 dopo il convincente 3-0 rifilato all'Udinese (che rimane a 16 insieme a Samp e Milan). Per una volta l'attacco di Montella funziona: Babacar segna una doppietta di fisico e opportunismo, poi Borja Valero mette il sigillo con una steccata da biliardo.

Due punti sotto i Viola rispunta il Torino, che passa su quel che resta del Parma con una bella botta dal limite di Darmian. Per i gialloblu, sempre più ultimi, è l'ottava sconfitta su nove partite. Forse Donadoni potrebbe iniziare a prendere in considerazione l'idea delle dimissioni, un gesto molto più signorile rispetto all'attesa dell'esonero (perché implica la rinuncia allo stipendio).

A 10 punti si rifà vivo il Sassuolo di Di Francesco, che a quanto pare ha più vite di un gatto. I neroverdi vincono la seconda partita di fila e lo fanno in maniera convincente, superando 3-1 nell'anticipo l'Empoli, ancora a 7 punti.

Rialza la testa anche il Palermo, seppur con meno stile. Gli uomini di Iachini salgono a quota 9 battendo di misura il Chievoverona (mestamente fermo a 4 punti) al termine di una partita che quasi ridefinisce il concetto di noia calcistica.

di redazione

Al contrario della Roma, la Juventus dimentica subito la delusione della Champions, anche se il peso specifico degli avversari affrontati non è paragonabile. I bianconeri hanno buon gioco a superare in casa 2-0 il Palermo, riuscendo anche a far sbloccare Llorente, autore del raddoppio dopo la rete di Vidal. I siciliani ce la mettono tutta ma non hanno armi credibili per contrastare i Campioni d'Italia. Rimangono a 6 punti, mentre la Signora sale a 22.

I giallorossi tornano quindi a -3 dalla capolista: nell'anticipo di sabato, infatti, la Roma non va oltre lo 0-0 esterno sul difficile campo della Sampdoria e in classifica arriva a quota 19. La squadra di Mihailovic è una delle sorprese di questo Campionato, ma i capitolini manifestano per la prima volta qualche segnale d'incertezza e di paura, figlio probabilmente dell'1-7 incassato martedì da Sua Maestà Bayern. Non aiuta lo scarso turn over di Garcia, che continua a far giocare Totti per quasi tutta la partita relegando Destro a una perpetua panchina.

I blucerchiati vengono raggiunti in quarta posizione a 16 punti dall'Udinese, che si sbarazza con un secco 2-0 di un'Atalanta mai così brutta da inizio stagione. Al Friuli - tanto per cambiare - Di Natale incanta con un destro da favola sotto l'incrocio, cui fa seguito un colpo circense di Thereau, capace d'insaccare mentre cade all'indietro spinto da due avversari.

Subito sotto la strana coppia ligure-friulana fa capolino la Lazio, che con la quarta vittoria consecutiva si porta al quinto posto. All'Olimpico di Roma finisce 2-1, un risultato che va stretto agli uomini di Pioli, nettamente più brillanti dei granata, che non hanno del tutto smaltito la pur facile partita di giovedì in Europa League contro l'Helsinki. In rete Biglia (il migliore in campo) su punizione, poi Klose, al primo gol da marzo. In mezzo, il momentaneo pareggio di Farnerud su assist del maldestro centrale Ciani.

Con questa vittoria i biancazzurri agganciano il Milan, che nel posticipo domenicale pareggia 1-1 a San Siro contro la Fiorentina. Al termine di un primo tempo al bromuro i rossoneri sono in vantaggio grazie a una zuccata di De Jong e sembrano destinati a una vittoria inevitabile, visto che i viola giocano bene ma come al solito non tirano mai in porta. Nella ripresa però Montella si ricorda finalmente di avere in panchina Ilicic, che non sarà Cristiano Ronaldo, ma ogni tanto la porta la vede. Compresa ieri sera: è suo il tiro da fuori che vale il pareggio e il nono punto in classifica.

A un punto da Lazio e Milan viaggia il Napoli, che nel secondo tempo contro il malcapitato Verona scarica tutta la rabbia accumulata negli ultimi due mesi. I veneti (fermi a 11 punti) vengono illusi dalla rete in apertura di Hallfredsson e dal momentaneo 2-2 siglato da Nico Lopez, ma escono dal San Paolo come dei tennisti che hanno perso il servizio due volte: alla fine è 6-2. Oltre al solito Callejon, si svegliano anche Higuaìn e Hamsik, autori rispettivamente di una tripletta e una doppietta.

L'Inter evita di perdere contatto con la parte alta della classifica senza sforzi eccessivi. Al caos tattico che alberga fra le meningi di Mazzarri si è aggiunto nel corso della settimana l'indecoroso siparietto che ha portato all'addio di Moratti, condito dalla sparata grottesca del mai sobrio presidente doriano Ferrero ("glielo avevo detto: caccia quel filippino"). Per fortuna dei nerazzurri, il Cesena è poca cosa e un rigore di Icardi basta ad archiviare la pratica.

Appaiato all'Inter viaggia il Genoa, vittorioso 2-1 in rimonta e fuori casa sul Chievo nonostante un rigore sbagliato da Pinilla, che poi si fa perdonare con il gol vittoria. Nella seconda parte della classifica spiccano i bei passi avanti di Cagliari e Sassuolo, che salgono a 8 e 7 punti in virtù di due comode vittorie rispettivamente sui campi di Empoli (0-4) e Parma (1-3). Per i gialloblu di Donadoni continua l'incubo: settima sconfitta in otto partite e ultima posizione con soli 3 punti. Sono ormai lontani i tempi in cui l'unico ostacolo sulla strada per l'Europa era l'Irpef.

di Fabrizio Casari

Si può tifare per qualunque squadra di calcio, ma non c’è dubbio che quando si parla di Inter si parli della famiglia Moratti. Da Angelo a Massimo, la famiglia meneghina è stata l’anima, lo stile, un modo di essere, prima ancora che un portafogli. Perché proprio la miscela di sforzi economici e passione, d’impronta manageriale e di identità, hanno permesso all’Internazionale di diventare una delle più celebrate squadre del mondo. In questo senso Moratti e Inter sembrano essere lo pseudonimo uno dell'altra. Per questo le dimissioni dalla carica di Presidente onorario e la conseguente uscita di Massimo Moratti dal CdA della nuova società targata Thohir, spiazza tutti e, in qualche modo, lascia un sapore amaro tra i tifosi.

La fine di una storia passa sempre per la cronaca. E la cronaca di ieri racconta di un Moratti risentito dalle affermazioni del CEO Bolingbroke che ha definito dissennata la situazione delle finanze dell’Inter; a questa si è aggiunta la risposta sprezzante di Mazzarri in conferenza stampa prepartita che, in risposta ad una domanda che chiedeva un commento alle dichiarazioni di Moratti rispondeva di “non voler perdere tempo a rispondere a questo o quello”.

Le affermazioni di Bolingbroke, borioso neo CEO dell’Inter, sono effettivamente dichiarazioni di un imbecille calato dal cilindro indonesiano, uno dei tanti che vivono di slide e dottrina, ma che non hanno mai lavorato, sofferto, vinto o perso: se i conti fossero stati così dissennati, perché mai Thohir avrebbe comprato l’Inter? Nessuno glielo aveva ordinato. Il fatto è che l’impressione diffusa tra la tifoseria e gli addetti ai lavori è che Thohir sia orientato solo ai risultati finanziari e che, essendo decisamente digiuno di calcio, non abbia ancora capito come il verbo spendere sia il prologo inevitabile del verbo vincere. Se l’Inter doveva riporre il blasone in uno studio di ragionieri, avrebbe potuto farlo anche restando nelle mani di Moratti.

Che invece ha lasciato proprio perché non più in condizione di spendere per riportare la squadra sul tetto dell’Europa e del mondo intero come tra il 2010 e il 2011; se avesse invece solo voluto ridimensionare gli esborsi, e di conseguenza i sogni, avrebbe potuto tranquillamente tenersi il suo gioiello destinato ad una navigazione da centro-claassifica, cosa davvero inconsueta per l'Inter e gli interisti. Insomma se invece di Julio Cesar, Eto’o e Snejider, di Milito e Lucio, di Samuel e Maicon adesso scegli Medel e Osvaldo, M’Vila e D’Ambrosio, certo abbasserai gli ingaggi, ma difficilmente alzerai coppe. Se però nella bacheca dell’Inter ci sono coppe e non ricevute contabili o slide, è perché la famiglia Moratti - e non i Thohir – ha guidato l’Inter da sempre e per sempre.

Thohir, invece, ha molta più paura di spendere che voglia di vincere ed ha un’idea di come poter stare nel calcio grazie alla quale l’Inter le vittorie potrà vederle solo in televisione. Non a caso i suoi investimenti nello sport americano ad oggi sono risultati fallimentari. Risulta, il mini-magnate indonesiano, più un furbo investitore che acquista un brand di valore mondiale (e uno dei più seguiti nella sua Indonesia) per farsi un nome internazionale. Non a caso, prima che acquistasse l’Inter nessuno o quasi nello sport sapeva chi fosse lui e il suo papà che lo finanzia. Fino ad ora nell'Inter ha messo 90 milioni, non più; il debito l'ha rifinanziato con un altro debito a carico dell'Inter, quindi anche di Moratti. E benché il risparmio e la managerialità assoluta siano diventati il nuovo mantra, la gestione di Thohir dopo solo un anno vede i conti peggiorare e la multa Uefa di 12 milioni sembra in arrivo. Dunque con Thohir, fino ad ora si spende troppo e non si vince niente.

I motivi delle discrepanze sono di ordine tecnico e comportamentale e sono noti da mesi. Moratti si sarebbe aspettato da Tohir un atteggiamento diverso; più lanciato verso il rafforzamento della squadra in campo e più umile e rispettoso, più attento alla forma in società. D’altra parte Moratti aveva garantito per lui davanti ad una tifoseria come minimo perplessa di fronte all’arrivo di Thohir ed era rimasto silente, sebbene seccato, dalla ramazza con la quale il neoproprietario, violando il patto tra gentiluomini, ha spazzato via ogni collaboratore e dirigente dell’Inter vicino all’ex Presidente. Tutto l’assetto dirigenziale, in società e sul campo, è stato epurato degli uomini di Moratti.

Il quale, pur non gradendo, aveva considerato legittimo l’inserimento dei nuovi ed era intervenuto nelle scelte societarie solo quando avevano riguardato il mercato e solo su richiesta dello stesso Thohir, quando chiese consiglio per evitare lo sciagurato scambio Vucinic-Guarin, che lo stesso Thohir aveva avallato salvo poi, di fronte alla piazza che insorgeva, far finta di non sapere e di adirarsi.

Thohir, in questo frangente, avrebbe dovuto riprendere Mazzarri, anche solo in considerazione del fatto che Moratti dell’Inter è proprietario al 30%, e dunque Mazzarri è un dipendente, niente di più. Così non è stato ed è possibile che le parole di Mazzarri siano state in qualche modo “incentivate”, prova ne sia che Thohir ha commentato le dimissioni con un laconico “rispetto le sue scelte”, tradendo così la sua soddisfazione per l’avvenuto.

E veniamo dunque a Mazzarri, presunto leader di San Vincenzo. Dopo un anno e mezzo alla guida della squadra, dopo aver ottenuto una  campagna di cessioni e acquisti aderente ai sui desiderata, (tra cui far comprare il miglior centrale del mondo nella difesa a quattro per poi farlo giocare in una difesa a tre con conseguenti difficoltà) tiene l’Inter nella parte bassa del lato sinistro della classifica e, oltre alle sconfitte brucianti patite con Cagliari e Fiorentina e un pareggio in casa con un Napoli in crisi, con 9 gol subiti e tre fatti nelle ultime tre partite, manda in campo un Inter senza gioco, senza mordente, senza identità tattica.

Il risultato è che la situazione di classifica risulta il problema minore, rispetto alla mancanza assoluta di prospettive di miglioramento. E proprio questo aveva rilevato Moratti, quando sollecitato su Mazzarri aveva detto: “E' una persona seria che lavora duro, certo che se non si ha la convinzione di poter migliorare allora sono guai”. Ultima e indiretta penosa prova di ciò, il pareggio scialbo di ieri sera con il S. Etienne al Meazza.

Mazzarri ha una presunzione inversamente proporzionale all’abilità strategica; oltre a contorcersi e ad offrire una continua dimostrazione di nevrosi, di ansia e mancanza di autocontrollo, dimostra di non essere assolutamente in grado di guidare una formazione di livello alto. Non insegna calcio ed ha un'idea tattica abile per una squadra di provincia, non per una di vertice. Niente a che vedere con  Ventura o Guidolin, per citare solo alcuni di coloro che, pur non vincendo, sanno offrire identità tattica e bel gioco.

Si da poi il caso che sia stato Moratti a portarlo all’Inter sacrificando Stramaccioni, per il quale l’ex presidente aveva una vera e propria ammirazione. La riconoscenza non è di questo mondo, è vero, ma Mazzarri si trova alla guida di una squadra che è la storia del calcio senza meriti, a causa dell’ultimo errore di Moratti. E nonostante ciò, tutti i Mazzarri del mondo, nella storia dell'Inter non valgono un Massimo Moratti.

Mazzarri gode di fiducia da parte della stampa sportiva e di alcuni commentatori, ma in fondo, a ben guardare, non si capisce da dove venga tanto credito: dalla serie C alla A, in tanti anni ha vinto una Coppa Italia e nient’altro. Si celebrano i fasti del Napoli che però non ha vinto nient’altro che il cosiddetto portaombrelli con Mazzarri alla guida, ma disponendo di un trio come Lavezzi-Hamsick-Cavani con i quali chiunque altro avrebbe ottenuto di più. E dovrebbe ricordare che il suo è uno dei due stipendi di allenatore più alti, mentre il gioco che la sua squadra esprime è tra i più bassi. Risulta incapace di costruire gioco e valorizzare talenti, non in grado di infondere fiducia e serenità all’ambiente e i fischi che il Meazza gli dedica sono il sondaggio domenicale sul suo valore.

Allora sarebbe bene che si assumesse le proprie responsabilità e lasciasse il posto a qualcuno più capace di lui. Roberto Mancini, tanto per dirne uno, disoccupato e legato all’Inter, capace di portare il nerazzurro alla vittoria e di far giocare un calcio bello a vedersi e micidiale a sentirsi. Che Inter può essere con Moratti a casa, Mancini a spasso e Mazzarri in panchina?

di redazione

Con quattro gol negli ultimi 11 minuti Inter e Napoli danno spettacolo, ma escono da San Siro portando a casa un punto che serve poco ad entrambe, e confermano la loro natura di squadre incompiute, senza un'identità precisa né un equilibrio definito. Dopo la sosta per le nazionali Mazzarri fa un po' di chiarezza a centrocampo preferendo Hernanes a Guarin, ma continua a non dare una precisa identità di calcio alla sua squadra e anche una collocazione adeguata agli errabondi Kovacic e Palacio, il primo troppo arretrato, il secondo troppo defilato.

Benitez non smette d'impalcare una mediana che soffoca Hamsik e isola Higuain, mentre il povero Insigne ormai pare giocare solo in attesa di essere sostituito da Mertens. Lo show nel finale arriva soprattutto con errori difensivi. Callejon va a segno due volte, prima con un incrociato su assist involontario di un irriconoscibile Vidic, poi con una volé propiziata da un fuorigioco sbagliato dall'Inter. I due pareggi nerazzurri portano la firma di Guarin, dimenticato da solo nell'area piccola, e di Hernanez, che svetta all'ultimo secondo con un colpo di testa alla Cristiano Ronaldo.

Il Napoli sale a 10 punti e l'Inter a 9, agguantando rispettivamente Verona e Fiorentina, entrambe sconfitte in casa. I veneti vengono travolti 3-1 da un Milan che ha definitivamente trovato in Honda il bomber di cui era alla ricerca dalla partenza di Ibrahimovic. Il giapponese non è Zlatan, ma la mette dentro con regolarità: contro i gialloblu fa doppietta e sale a 6 reti come Callejon e Tevez. Altra nota positiva il ritorno di El Shaarawi, autore di un assist al bacio. La squadra di Inzaghi si porta così in quarta posizione a 14 punti.

La Fiorentina incassa invece la prima sconfitta stagionale al Franchi, dove la Lazio passa 2-0. I biancocelesti vincono per la quarta volta in cinque anni sul campo dei viola e portano a casa il terzo successo consecutivo in Campionato, rilanciandosi a 12 punti dopo un avvio difficile. La differenza la fa l'attacco: per i capitolini insaccano Djordjevic nel primo tempo (quinto gol in tre partite) e Lulic nel finale. In mezzo, i viola a tratti dominano, ma non hanno un vero terminale offensivo cui affidare l'onere dei gol. Babacar s'impegna ma è troppo giovane per fare reparto da solo e le assenze di Gomez e Rossi ridimensionano molto una squadra altrimenti competitiva per l'Europa.

Fra le partite domenicali, spiccano i passi falsi di Sampdoria e Udinese. I blucerchiati vanno avanti 2-0 a Cagliari (Gabbiadini e Obiang), ma poi si addormentano e si fanno raggiungere incredibilmente dal rigore di Avelar e dalla zampata di Sau. Gli uomini di Stramaccioni, invece, tornano sconfitti da Torino, dove decide l'ennesimo gol dell'ex di Quagliarella. I friulani restano a 13 punti e si fanno scavalcare dal Milan, mentre la Samp rimane terza con 15 punti, ma perde contatto con la coppia di testa.

In uno dei due anticipi, infatti, la Roma si sbarazza con una semplicità disarmante del modesto Chievo (penultimo con 4 punti), andando a segno tre volte in 33 minuti (Destro, Ljajic e Totti) e preparandosi al meglio per la sfida di martedì all'Olimpico contro il Bayern. I giallorossi arrivano a quota 18 in classifica, riportandosi a una lunghezza dalla Juve, incredibilmente fermata sull'1-1 dal Sassuolo nell'altra partita del sabato (reti di Zaza e Pogba).

Aspettando stasera Genoa-Empoli, chiudono il quadro della giornata le vittorie dal sapore di liberazione portate a casa da Atalanta e Palermo. Dopo un filotto di palle gol gettate alle ortiche, contro il Parma i bergamaschi passano nel finale con un tap-in di Boakye su papera di Mirante. La squadra di Colantuono arriva a 7 punti, mentre i gialloblu sono ormai ultimi da soli a quota 3.

Quanto al Palermo, la prima vittoria in Campionato arriva ai danni del Cesena (2-1) e porta le firme di Dybala e Gonzalez, che al 91esimo regala di testa i tre punti ai rosanero dopo il pareggio su rigore di Rodriguez.

di redazione

Un Paese con 60 milioni di allenatori non sarà mai soddisfatto di un'Italia che batte l'Azerbaigian 2-1 all'ultimo respiro. Giocavamo contro la squadra numero 95 del ranking Fifa, per di più in casa, quindi l'unica opzione concepita era dilagare con tracotanza. Eppure, fino a qualche tempo fa una partita del genere l'avremmo pareggiata quasi sicuramente.

Stavolta i tre punti li abbiamo portati a casa e, come insegna il vangelo della squadra con cui Antonio Conte ha fatto fortuna, "è l'unica cosa che conta". Fin qui la traccia più visibile che l'ex tecnico bianconero ha lasciato negli azzurri è proprio questa: una determinazione a cui non eravamo abituati, la convinzione di poter mettere a posto le cose non importa come. Giocare bene a pallone è un altro discorso, ma per ora è meglio accontentarsi. In fondo, per un autogol da Paperissima, a un quarto d'ora dalla fine stavamo 1-1. 

Certo, a voler entrare nel merito, è ovvio che quando 60 milioni di ct guardano la Nazionale si aspettano uno spettacolo quantomeno soddisfacente. E quello di venerdì non lo è stato. Un dato pesa più di tutti: su 22 tiri verso la porta, appena quattro hanno centrato lo specchio.

Oltre alla mira rivedibile, questa impietosa statistica ci conferma che in attacco non siamo un granché. Immobile e Zaza sono due bravi ragazzi, corrono, si impegnano, è davvero complicato prendersela con loro, ma il problema resta: non beccano la porta. D'altronde, in questo periodo non ci riescono nemmeno con le squadre di club: l'attaccante del Sassuolo, dopo una sola perla a inizio Campionato, è rimasto sempre a secco, mentre il biondo centravanti di Torre Annunziata sta per ora fallendo la sua missione (difficilissima, va riconosciuto) di non far rimpiangere un panzer come Lewandowski nell'avanguardia del Borussia Dormund.

La domanda è: quali sono le alternative? Bisognerà forse rassegnarci al fatto che questa generazione di calciatori italiani non offre punte con il talento, la continuità e la caratura internazionale dei vari Inzaghi, Vieri, Totti o Del Piero. Conte lavora con i ragazzi che ha e fa bene a puntare sui più giovani, ma oltre alla qualità dei piedi a disposizione deve affrontare altri tre problemi.

Primo: per generosità atletica Immobile e Zaza sono gli unici ad adattarsi vagamente allo stile di gioco dell'allenatore pugliese, che non prevede prime punte pesanti e statiche come Destro e Pellé, ma solo folletti capaci di fare l'elastico fra le due trequarti. Secondo: altri due nomi plausibili sarebbero Berardi e - ovviamente - Balotelli, ma non torneranno utili finché non saranno usciti con la testa dalla fase pre-puberale, il che potrebbe anche voler dire mai. Terzo: Giovinco ci sa fare con i piedi, ma ha dei limiti fisici per cui ad alto livello viene immancabilmente cancellato dalla partita.

Quanto agli altri reparti, sorvolando sull'infortunio di Barzagli, che non sarà mai sostituito adeguatamente né da Ranocchia né da Ogbonna, le preoccupazioni sono minori. Non si può dire che il ricambio generazionale sia mancato (basti pensare a gente come Darmian, De Sciglio e Florenzi), ma forse a questo punto sarebbe il caso di ufficializzare qualche fondamentale cambio della guardia. Dobbiamo trovare il coraggio di dire addio ai nostri totem.

Pirlo è stato senz'altro uno dei più grandi calciatori italiani di tutti i tempi, ma sarebbe arrivato il momento di dare qualche responsabilità in più a Verratti. Un discorso analogo vale per Sirigu al posto di Buffon. Stiamo giocando un torneo di qualificazione: è adesso che dobbiamo procedere all'investitura ufficiale dei numeri due, non quando ci ritroveremo a giocare contro Francia e Germania nella fase finale. Almeno i giovani calciatori meriterebbero un po' meno precariato.


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