Il teatro nel cinema, la tradizione e l'innovazione, il genio e l'uomo. Agli inizi del ‘900, nella Napoli della Belle Époque, splendono i teatri e il cinematografo. Il grande attore comico Eduardo Scarpetta è il re del botteghino. Parte da qui il film di Mario Martone, Qui rido io, con Toni Servillo nei panni di una delle icone indiscusse del teatro italiano.

Grazie alle sue commedie e alla maschera di di Felice Sciosciammocca, Eduardo Scarpetta diventa ricco e famoso.

Il teatro è la sua vita e attorno al teatro gravita anche tutto il suo complesso nucleo familiare, composto da mogli, compagne, amanti, figli legittimi e illegittimi tra cui Titina, Eduardo e Peppino De Filippo.

Venezia e le sue meraviglie sono le protagoniste del documentario Venezia. Infinita avanguardia, in arrivo nelle sale italiane l’11, 12 e 13 ottobre, su soggetto di Didi Gnocchi, con sceneggiatura di Sabina Fedeli, Didi Gnocchi, Valeria Parisi, Arianna Marelli, e con la regia di Michele Mally.

Il film documentario prende avvio dall’immenso patrimonio veneziano per raccontare i palazzi che ospitano capolavori e oggetti storici, le connessioni artistiche e culturali, i nessi visivi che, viaggiando tra le epoche, vanno a comporre il ritratto di una città futuribile.

Un percorso musicale e visivo, attraverso immagini di lotte sociali, concerti dal vivo, memorie storiche, memorie familiari e filmati inediti. Roberta Lena firma DeAndré#DeAndré. Storia di un impiegato, il nuovo tributo a Fabrizio De Andrè.
È l’omaggio musicale e personale di un figlio all’eredità politica, artistica e umana di un grande poeta, testimonianza di un rapporto d’amore profondo. Cristiano De André ha riproposto al pubblico italiano, in un tour durato due anni, il concept album Storia di un impiegato, capolavoro quanto mai attuale di De André, scritto nel 1973 con Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani.

Diverse le storie che si alternano e si intrecciano, dove aspirazioni e aneliti di libertà dell’impiegato convivono con quelli della vita personale e musicale di Cristiano in un discorso sul nostro contemporaneo.

Sullo sfondo la Sardegna, che è soprattutto luogo del cuore dove emergono i ricordi del passato e le voci del presente.

“Quando nel 2018 mi è stata affidata la regia teatrale dell’opera rock Storia di un impiegato – racconta la regista - mi sono resa conto della potenza contemporanea delle parole contenute nell’album. La storia è una metafora della società di allora, ma sembra un monito al rimanere umani, valido e necessario anche nella nostra epoca. Faber diceva: 'Voi non avete fermato il vento / gli avete fatto perdere tempo'. Nella parabola narrativa dell’impiegato, che ho spesso mescolato metaforicamente alla vita di Cristiano, sono compresi conflitti e risoluzioni del carattere umano e della nostra società. Cristiano De André è l’erede di questo patrimonio e in questo passaggio di testimone è insito quel rapporto padre/figlio in cui ognuno può specchiarsi.

Al centro il rapporto speciale tra padre e figlio, il loro comune sentire, dove la musica rappresenta un filo rosso saldo e impossibile da spezzare.

DeAndré#DeAndré. Storia di un impiegato (Italia 2021)

Regia: Roberta Lena

Interpreti: Cristiano De André, Dori Ghezzi, Filippo De André

Produzione: Intersuoni (Ettore Caretta), Nuvole Production, Nexo Digital

Sceneggiatura: Alfredo Covelli, Roberta Lena

Fotografia: Martino Pellion Di Persano

Montaggio: Claudio Cormio

Scenografia: Ioannis “CIUF” Vafidis

Costumi: Anna Bonardello

Musica: Fabrizio De André, Cristiano De André, Nicola Piovani, Giuseppe Bentivoglio, Stefano Melone

Suono: Silvia Moraes, Alessandro Bonfanti

Effetti visivi: I Cammelli, Emanuele Segre, Domenico de Fazio, Anna d’Urbano

Un film intimo e personale, quello presentato alla Mostra del cinema di Venezia da Paolo Sorrentino. È stata la mano di Dio è la storia di un ragazzo che vive nella tumultuosa Napoli degli anni Ottanta.

Fabietto Schisa è un diciassettenne piuttosto impacciato che lotta per trovare il suo posto nel mondo, ma che trova gioia in una famiglia straordinaria e amante della vita. Fino a quando alcuni eventi cambiano tutto. Uno è l’arrivo a Napoli di una leggenda dello sport simile a un dio: l’idolo del calcio Maradona, che suscita in Fabietto, e nell’intera città, un orgoglio che un tempo sembrava impossibile. L’altro è un drammatico incidente che farà toccare a Fabietto il fondo, indicandogli la strada per il suo futuro.

Un film evento, quello firmato da Giorgio Verdelli, per entrare nel mondo del direttore d'orchestra, compositore e pianista Ezio Bosso, scomparso nel 2020, a 48 anni.

Ezio Bosso. Le cose che restano è un documentario musicale, presentato in anteprima nella sezione Fuori Concorso della 78. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, prodotto da Sudovest Produzioni, Indigo Film con Rai Cinema e in uscita nelle sale italiane con Nexo Digital solo il 4, 5, 6 ottobre.

Al centro della carriera e dell’esistenza di Ezio Bosso, che è stata quanto di più atipico si possa immaginare, sia per le vicende personali che professionali, c’è sempre stato l’amore per l’arte, vissuta come disciplina e ragione di vita.

Un carisma unico, quello che contraddistingueva Bosso, il quale sapeva trasmettere la passione per la musica e in generale per la vita. Soffriva di una malattia neurodegenerativa da anni, ma questa non lo aveva mai fermato.

Il racconto all'interno del film è affidato allo stesso compositore, attraverso la raccolta e la messa in fila delle sue riflessioni, interviste, pensieri in un flusso di coscienza che si svela e ci fa entrare nel suo mondo, come in un diario.

La narrazione è stratificata, in un continuo rimando fra immagine e sonoro. Le parole dell’artista si alternano alla sua seconda voce, la musica, e alle testimonianze di amici, famiglia e collaboratori che contribuiscono a tracciare un mosaico accurato e puntuale della sua figura.

Portatore di un potente messaggio motivazionale nella sua vita e nella sua musica, Ezio Bosso è stato e sarà sempre una fonte d’ispirazione per chiunque vi si avvicini. “Una presenza, non un ricordo”, come racconta lo stesso regista del film, Giorgio Verdelli.


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