La sentenza emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia ha suscitato reazioni diverse, come prevedibile e previsto. E’ innegabile che l’impatto politico complessivo della sentenza riguardi la condotta di Israele, che infatti ha duramente criticato la decisione dei giudici dell’Aja, non meno e non diversamente da quanto fatto verso le stesse Nazioni Unite, delle quali il tribunale internazionale è importante strumento. Alcuni l’hanno definita una sentenza salomonica, ma lo si può dedurre solo da una lettura frettolosa.

 

Il dato decisivo è la responsabilità evidenziata e reiterata quale premessa e sostanza, perché a seguito delle pressioni occidentali sarebbe anche potuto venir fuori il rigetto dell’istanza presentata da Johannesburg. Se ciò fosse avvenuto, come chiedeva la difesa di Tel Aviv, si sarebbero rimandati gli eventi criminosi ad una logica difensiva da parte di Israele, sposando così la tesi di Tel Aviv e dell’intero Occidente collettivo.

Così non è stato e il dispositivo stabilisce due cose della massima importanza. La prima è che la richiesta di pronunciamento da parte del Sudafrica per genocidio è fondata e l’ammissibilità, appunto, non era scontata. La seconda, conseguenziale alla prima e di assoluto peso politico, è che si ordina ad Israele di garantire che il genocidio non si compia, individuandone la possibile titolarità dello stesso e responsabilità certe nel determinarlo e persino nel non prevenirlo.

In sostanza la Corte Internazionale di Giustizia, pur caratterizzando le sue decisioni come provvisorie, stabilisce che per quanto le accuse andranno provate, nel caso di specie di genocidio si può parlare e invita quindi i possibili autori (Israele) a prevenirlo e ad astenersi da condotte che vanno in quella direzione. Impone altresì al governo Netanyahu di agire per impedire pratiche genocide.

E’ vero, la Corte non ordina il cessate il fuoco e chiede anche ad Hamas il rilascio dei prigionieri israeliani, ma non era obiettivamente ipotizzabile una lettura a senso unico del conflitto; se Hamas non avesse ricevuto menzione alcuna si sarebbe inficiato l’equilibrio giuridico della sentenza. E ad ogni modo chiedere di fermare atti che colpiscano la popolazione civile è in qualche modo una richiesta di cessate il fuoco.

Si tratta insomma di una vittoria giuridica importante per i ricorrenti, Sudafrica e molti altri paesi in appoggio e di una decisione storica avversa ad Israele. Che, per la prima volta nella sua storia di 75 anni, viene messo sotto accusa e subisce un forte ammonimento dall’organismo che rappresenta la massima espressione della giurisprudenza internazionale riconosciuta dai 194 paesi membri delle Nazioni Unite, il 98% dell’intero pianeta.

Il che interrompe l’unanimità del coro dei laudatores sulla “unica democrazia del Medio Oriente” e di una narrazione pilotata mediaticamente che illustra il suo agire improntato sempre e solo sulla necessità di difendersi. Così non è, e adesso la Corte Internazionale di Giustizia chiede conto e ammonisce.

Che la sentenza sia intervenuta nelle 24 ore precedenti alla giornata internazionale della memoria, dedicate all’orrore nazifascista della Shoah, assegna valore simbolico e politico alla condotta di chi chiede - giustamente - alla comunità internazionale ed all’opinione pubblica mondiale, di non smarrire il ricordo della pagina peggiore della storia del genere umano. A maggior ragione in un quadro politico europeo che vede gli eredi del nazifascismo e del franchismo affermarsi, non sono consentite amnesie. La conservazione della memoria di ciò che fu il male assoluto non può e non deve intervenire, mai e per nessun motivo.

Ma, nello stesso tempo, proprio perché memori del silenzio che consentì l’affermarsi dell’atrocità sulla normalità, non si può oggi indugiare o tacere sui crimini di guerra israeliani in Palestina; va interrotta la narrativa occidentale sulla presunta superiorità etica di Israele e va indicata l’insostenibilità della memoria di un orrore patito con l’attualità di un orrore inflitto.

Non importa che le proporzioni numeriche siano incomparabili e nemmeno che il contesto (leggi razziali e persecuzioni) sia diverso. Si pone con contezza la questione della politica genocida nel momento in cui si scatena una guerra criminale ed asimmetrica avendo come obiettivo l’annientamento della popolazione civile, la distruzione del suo territorio , la deportazione del suo popolo e l’occupazione della sua terra.

Quanto stabilito dalla Corte ha il merito di tenere la barra dritta sul Diritto Internazionale anche in un tribunale che non può ragionevolmente essere completamente scevro dai rapporti di forza presenti nel Consiglio di Sicurezza. Oltre non poteva spingersi, tanto perché si doveva pronunciare sulla denuncia del ricorrente (Sudafrica), quanto perché un ipotetico ordine di cessate il fuoco avrebbe posto all’ordine del giorno sin dalla prossima settimana alla riunione d’urgenza del Consiglio richiesta dall’Algeria, la decisione di interventi politici e militari non ipotizzabili nella realtà.

Non sfugga poi il valore politico e persino simbolico dell’iniziativa del Sudafrica: la patria di Nelson Mandela, simbolo vivente della lotta contro l’apartheid, interviene in un conflitto che per diversi aspetti ricorda le politiche razziste che Pretoria mise in atto per garantirsi il mantenimento dei Boeri al potere. E non è nemmeno un caso il fatto che Israele sia stato il miglior alleato politico e militare del regime segregazionista sudafricano, espressione orribile del colonialismo europeo alleato con gli Stati Uniti.

Non appare fortuita la coincidenza della sentenza della Corte con l’ipotizzata complicità dell’organismo ONU a salvaguardia dei palestinesi con l’attacco di Hamas del 7 Ottobre scorso. Siamo di fronte ad accuse ad orologeria, prive di ogni riscontro probatorio ma subito sposate dai media del mainstream occidentale. Appare, con tutta evidenza, il tentativo messo in piedi da Israele di delegittimare l’organismo delle Nazioni Unite per denigrarne e delegittimarne così l’istituzione in quanto tale e i suoi strumenti, a cominciare dalla Corte Internazionale dell’Aja.

Vedremo ora se il Diritto Internazionale verrà confortato dalla politica internazionale. Vedremo cioè se la sentenza della Corte dell’Aja influirà sulle posizioni politiche dei rispettivi membri nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu convocato per i prossimi giorni. La situazione sul terreno racconta dell’ennesimo viaggio del Capo della CIA, Burns, e dell’ennesimo finto sdegno di Biden verso Netanyahu, del solito lavorio diplomatico del Qatar e della solita, infame, conta dei morti palestinesi. Le ipotizzate divisioni interne ad Israele sono una sostanziale fuffa, l’ennesima fake news utile a dipingere l’orrore come esclusivo patrimonio della destra, religiosa o politica che sia; in realtà non c’è traccia di dissensi politici, di mobilitazione di laburisti o pacifisti, perché la guerra ai palestinesi piace a tutti.

Si assiste solo alla protesta, legittima, dei parenti degli ostaggi. I quali non vorrebbero pagare con il sangue dei loro familiari le decisioni di Netanyahu, il quale peraltro, nella speranza si salvarsi dal giudizio che lo attende, continua a sostenere non solo il proseguirsi del genocidio per costruire su esso la sua identità politica che dovrebbe salvarlo ma anche l’indisponibilità totale all’unica soluzione politica della guerra, ovvero il reciproco riconoscimento dei due stati per due popoli e due paesi.

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