Il ben noto ideologo del neoliberismo Friedrich Hayek affermò, durante una sua visita in Cile a sostegno di Pinochet nel 1981, che era totalmente contrario alle dittature come istituzioni a lungo termine, ma che una dittatura poteva risultare necessaria durante un periodo di transizione e che, in ultima analisi, era preferibile un dittatore liberale a un governo democratico illiberale.

Raramente fu espressa con tanta chiarezza e spudoratezza la contraddizione tra neoliberismo economico e democrazia politica. Quest’ultima, per quanto sbandierata molte volte a sproposito, come caratteristica identitaria di fondo delle sedicenti democrazie occidentali, viene rapidamente abbandonata al suo destino se viene in qualche modo messo in discussione il regime economico dominante.

 

Al di là delle superficiali chiacchiere di giornalisti e governanti guidati dall’unico proposito di confondere le idee alla gente, convincendola ad ogni costo che viviamo nel migliore dei mondi possibili - il che è platealmente contrario all’esperienza quotidiana di chiunque, specie di questi tempi – c’è una fredda e raziocinante ispirazione golpista del capitalismo, specie nella sua versione neoliberista.

Ogni tanto la storia si incarica di ricordare, anche ai più fessi, questa elementare verità. Basti pensare a quanto sta avvenendo in Perù. Sono passate ormai oltre due settimane dalle elezioni presidenziali e ancora non viene proclamato il nuovo Presidente nella persona di Pedro Castillo. Il margine è stato esiguo (44.000 voti), ma più che sufficiente ad assicurare la vittoria di Castillo e della sua coalizione di sinistra, anche in presenza di vari reclami (molti pretestuosi) avanzati dalla sua antagonista, Keiko Fujimori. La quale, scimmiottando il peggior Trump, grida da tempo ai brogli.

Sullo sfondo si ode un sinistro rumore di sciabole, con la lettera di vari alti ufficiali delle Forze armate in pensione contro Castillo, che ha sollevato le giuste reazioni indignate di molti esponenti delle istituzioni peruviane. Prima ancora dei vegliardi in uniforme si erano del resto espressi altri vegliardi, altrettanto e forse più reazionari, nelle persone di ventitré ex presidenti latinoamericani. Tutti chiedono che sia sbarrato il cammino a Castillo, nel nome della sacra lotta contro il “castrochavismo” e della necessità di salvaguardare comunque i residui pilastri dell’imperialismo statunitense nella regione.

Ma il problema non è geopolitico. Si tratta invece di consentire finalmente l’espressione a settori sociali, contadini e/o indigeni, da sempre emarginati in Perù ed altrove. Oltre che golpista, la destra raggruppata attorno a Keiko e Vargas Llosa risulta in questo senso profondamente razzista. Parlano di “brogli”, ma vorrebbe che fosse cancellato totalmente, dal punto di vista elettorale e tendenzialmente da ogni altro punto di vista, il popolo peruviano che vive, a causa delle scelte neoliberiste dei governi che si sono finora alternati alla guida del Paese, con il terrorismo di Stato di Fujimori padre e, da ultimo, con la pandemia, in condizioni estremamente disagiate. E qui si coglie un’ulteriore, profonda e insanabile contraddizione tra democrazia occidentale, del tutto di facciata, e democrazia reale.

Nelle colonie, come il Perù è stato fino ad ora, non è accettabile che il voto dei nativi valga quanto quello di coloro, membri di una classe media peraltro sempre più ridotta, o delle classi privilegiate che possono partecipare al banchetto, ottenendone una porzione sia pure relativamente scarsa, che sono da tutti i punti di vista, sociale, culturale, politico, economico, emissari e fiduciari del potere imperiale. Del resto ci avevano provato anche in Bolivia, non più di un anno e mezzo fa. Lì il golpe c’è stato, ma tutto sommato è durato poco, sia pure provocando molte vittime e realizzando crimini indegni che attendono ancora la giusta punizione.

Non sappiamo come andrà ora a finire in Perù. Ma la grande forza tranquilla di Perù Libre e degli altri partiti che sostengono Castillo, prima ancora che delle formazioni politiche è l’espressione di un popolo organizzato, nelle campagne e specie sugli altipiani andini.

Occorre che Castillo sia lasciato lavorare in pace per modificare il sistema a vantaggio degli umili e dei diseredati, che la Fujimori junior paghi il debito colla giustizia per i gravi fatti di corruzione che le vengono imputati, che i vegliardi in alta uniforme siano finalmente rinchiusi nei mausolei che li attendono, che Vargas Llosa torni ad occuparsi esclusivamente di letteratura e che il signor Almagro sia finalmente cacciato dall’Organizzazione degli Stati Americani. Sarebbe ora. Più che un auspicio, un programma.

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