Nella nuova legge di Bilancio, la matassa più difficile da sbrogliare è senz’altro quella dell’Iva. I tecnici del Governo stanno valutando varie soluzioni, ma ormai il tempo stringe. Questa sera, alle 18.30, il Consiglio dei ministri si riunirà per varare la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, che conterrà lo scheletro della nuova manovra.

Per capire la traiettoria scelta dall’Esecutivo, bisognerà fare attenzione a una percentuale, quella del rapporto deficit-Pil. Grazie a un tesoretto da 7-8 miliardi messo insieme quest’anno in vario modo (risparmi su reddito di cittadinanza e quota 100, minori interessi sul debito con l’abbassamento dello spread, maggiori entrate fiscali grazie alla fatturazione elettronica) il disavanzo del 2020 dovrebbe attestarsi all’1,6%, contro il 2% programmato. Con questa carta giocare, il Governo chiederà quindi a Bruxelles ulteriore flessibilità. Il punto è capire quanta.

Se alzassimo l’asticella fino al 2,3% - come vorrebbe il M5S, che inizialmente puntava addirittura al 2,5% - l’aumento dello 0,7% varrebbe circa 12 miliardi e mezzo. Stando alle ultime indiscrezioni, però, il Tesoro non si spingerà oltre il 2,1% per non forzare la mano alla Commissione europea, che non pare orientata a concedere di più. Sembrano “numerini” - come li chiamava qualcuno - ma non lo sono: ogni decimale vale ben 1,8 miliardi, soldi fondamentali per far tornare i conti di una manovra molto costosa.

Il saldo finale della legge di Bilancio, infatti, dovrebbe aggirarsi intorno ai 30-35 miliardi: 23,1 per evitare l’aumento dell’Iva, cinque per il taglio del cuneo fiscale e altri 4-5 per le spese indifferibili come le missioni all’estero. Poi ci sono i fondi per la Sanità chiesti dal ministro Roberto Speranza (solo la cancellazione del superticket costerebbe 600 milioni) e quelli per la Pubblica Amministrazione reclamati dalla ministra Fabiana Dadone (serve un miliardo per rinnovare i contratti con aumenti non inferiori agli 85 euro della scorsa tornata, senza contare lo sblocco dei concorsi).

In cantiere c’è anche un poderoso piano anti-evasione, che però - oltre a essere scarsamente credibile, visti gli innumerevoli fallimenti dell’Italia su questo versante - non garantirebbe comunque un gettito certo da iscrivere a bilancio. Di conseguenza, a meno che l’Europa non ci conceda una flessibilità superiore alle aspettative (prospettiva improbabile), bisognerà tagliare altrove.

La prima vittima dovrebbe essere la riduzione  del cuneo fiscale caro soprattutto al Pd. Il segretario Nicola Zingaretti ha chiesto di “alzare gli stipendi, a partire da quelli bassi e medi”. Le risorse stanziabili per quest’anno rischiano però di dimezzarsi, passando da cinque a 2,5 miliardi.

Il fronte più incandescente rimane comunque quello dell’Iva. In assenza di correzioni, dal primo gennaio 2020 l’aliquota intermedia passerebbe automaticamente dal 10 al 13% e quella ordinaria dal 22 al 25,2%. Sterilizzare tutto, come detto, costa 23,1 miliardi. Negli ultimi tempi, però, si fa strada nel Governo l’idea di una soluzione alternativa: usare 17 miliardi per impedire l’aumento dell’aliquota ordinaria, alzare quella intermedia dal 10 al 13% solo su alcuni prodotti e infine accorpare in una nuova aliquota dell’8% una serie di altri generi attualmente esenti da Iva oppure tassati al 4 o al 10%. Non solo: nella fascia del 10% rientrano diverse attività a rischio evasione, su cui l’Iva aumenterebbe per chi paga in contanti e rimarrebbe stabile (con credito d’imposta a compensare la differenza) per chi paga con la carta o altri strumenti tracciabili. In questo modo, incentivando l’emersione del nero, il gettito per lo Stato dovrebbe aumentare.

Il progetto è complicatissimo ed espone l’Italia a una serie di rischi politici prima ancora che economici. Sul fronte interno, la Lega avrebbe buon gioco a far passare la rimodulazione delle aliquote più basse come un aumento mascherato e sembra proprio che Renzi e Di Maio non abbiano intenzione di esporsi a cannonate simili. Poi rimarrebbe da convincere l’Europa, che, al contrario, da anni ci chiede di aumentare le tasse su consumi e proprietà per abbassare quelle sul lavoro.   

Nessuno si aspettava i fuochi d’artificio, ma una partenza con meno entusiasmo di questa non si ricorda. All’Ecofin dello scorso fine settimana, i ministri finanziari non hanno imboccato affatto il sentiero che dovrebbe portare a una revisione del Patto di Stabilità. A Helsinki è andato inscena piuttosto un festival della prudenza.

Il più accorto è stato proprio Roberto Gualtieri, che in ambiente Ue è di casa, ma per la prima volta calcava le scene internazionali nei panni di numero uno del Tesoro. “Il governo si muove all’interno delle norme che comprendono un pieno uso della flessibilità, poi si discute del futuro delle regole europee”, ha detto il ministro italiano, chiarendo che - al momento - la priorità del nostro Paese è uscire indenne da una legge di bilancio complessa, il cui primo obiettivo è evitare l’aumento dell’Iva dal primo gennaio.

Il governo è fatto, la manovra ancora no. La sessione di bilancio che il neonato esecutivo M5S-Pd si appresta ad affrontare non sarà affatto semplice, ma per la prima volta dopo parecchio tempo il nostro Paese potrà contare sulla rinnovata benevolenza di Bruxelles. Non è solo la caduta di Salvini a rassicurare l’Europa.

Il governo giallorosso ha anche la fortuna d’iniziare il proprio mandato insieme alla nuova Commissione guidata da Ursula Von der Leyen (eletta grazie ai voti decisivi del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico), che ha già istaurato un clima diverso rispetto agli anni scorsi, più propenso a chiudere un occhio sui vincoli di bilancio per spingere sul pedale della crescita.

Il sogno americano del momento è di fiaccare l’economia europea, cominciando da quella tedesca che da anni viene portata a esempio agli altri Paesi europei. Ci stanno riuscendo. Ne è una conferma il terzo mese consecutivo di calo della fiducia dei consumatori tedeschi. Essi temono la contrazione del mercato mondiale, legata alle guerre commerciali intraprese da Trump che, con la Cina sta mettendo in forte difficoltà la prima economia del Continente europeo e a cascata l’intera Eurozona come dimostrano i dati sul Pil francese del secondo trimestre.

Dopo un triennio di debole ripresa del Mezzogiorno, nel 2018 si riapre la forbice col Centro Nord. Nel 2018, secondo l'annuale rapporto Svimez “L'economia e la società del Mezzogiorno”, il Sud ha fatto registrare una crescita del PIL di appena lo 0,6 per cento rispetto.all'1 per cento del 2017. Mentre il Centro Nord ha recuperato e superato livelli precisi, il Mezzogiorno risente ancora del calo dei consumi privati delle famiglie, che avevano più che compensato il crollo degli investimenti pubblici, i quali, nel 2018, avevo investito in opere pubbliche 102 euro procapite contro i 278 nel Centro Nord - e del mancato apporto del settore pubblico.


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