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- Scritto da Carlo Musilli
I destini del reddito di cittadinanza e della flat tax dipendono in larga parte da un solo numero: quello che il governo scriverà nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza - attesa per il 27 settembre - alla voce rapporto deficit-Pil 2019.
Nella bozza del Def che il Tesoro ha distribuito al Presidente del Consiglio e ai due Vicepremier, il numero magico è stato fissato all’1,6%. Oltre questa soglia il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, non ha intenzione di spingersi. Per un motivo preciso.
L’1,6% non è un dato casuale: rappresenta la flessibilità massima che l’Europa può concedere all’Italia senza essere costretta ad aprire una procedura d’infrazione. Cioè un intervento punitivo che abbatterebbe la fiducia dei mercati e innescherebbe la speculazione, facendo lievitare gli interessi sul debito pubblico e costringendo il nostro Paese, già a corto di soldi, a fare nuovi tagli per liberare nuove risorse. Tutto questo ha una motivazione tecnica.
Trattati alla mano, l’anno prossimo l’Italia dovrebbe ridurre il deficit strutturale (ossia il dato al netto del ciclo economico e delle misure una tantum varate dal governo) dello 0,6%. È già sicuro che non lo faremo, ma la procedura d’infrazione scatterà soltanto se la correzione non avverrà affatto. Basterà cioè un miglioramento dello 0,1% perché Bruxelles si limiti a un semplice richiamo nei confronti del governo di Roma (com’è accaduto quasi sempre negli ultimi anni). E il deficit-Pil all’1,6% corrisponde proprio a una correzione del deficit strutturale pari allo 0,1%. Un po’ come le bombe dei film, disinnescate sempre a un secondo dall’esplosione.
La strada dello scontro frontale con Bruxelles e con i fondi speculativi non è percorribile. A malincuore, Salvini e Di Maio se ne sono resi conto e – dopo aver “fatto danni” con “tante parole”, per dirla con Mario Draghi – da qualche settimana hanno moderato i toni, riuscendo a raffreddare lo spread. Il problema ora è capire quali saranno le conseguenze sulla prossima legge di Bilancio, visto che fra la cancellazione degli aumenti Iva (12,4 miliardi) e le spese correnti, lo spazio per rimanere entro l’1,6% non è molto.
La Lega ha già accantonato il progetto originario della flat tax. Il mostro da 50 miliardi che avrebbe permesso ai ricchi di pagare le stesse tasse dei poveri non vedrà mai la luce. Ora si punta a ridurre le aliquote Irpef da cinque a tre, ma solo nel 2020. I leghisti hanno rinunciato anche all’ipotesi di tagliare l’aliquota Irpef più bassa dal 23 al 22%, misura che sarebbe costata 4 miliardi e che avrebbe portato ai contribuenti in media 150 euro in più all’anno. Resta invece sul tavolo l’estensione del regime forfettario a tutte le partite Iva che fatturano fino a 100mila euro l’anno (il limite attuale è di 25-50mila euro, a seconda dell’attività). Il costo sarebbe di un miliardo e mezzo. Altro che 50.
Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, la situazione è più complessa. I grillini si sono rassegnati a restringere il perimetro della misura: la proposta iniziale prevedeva di concedere 780 euro al mese ai 2,8 milioni di famiglie italiane che vivono sotto la soglia di povertà relativa, ma poi Di Maio ha parlato in un’intervista di “5 milioni di persone”, cioè i singoli individui che vivono in condizioni di povertà assoluta.
Il costo dell’intervento scende così da 17 a 9 miliardi l’anno, che si ridurrebbero a 4-5 se la misura diventasse operativa da luglio (i pentastellati preferirebbero maggio, mese in cui si terranno le elezioni europee). Il governo ha già in tasca i 2,6 miliardi stanziati dall’esecutivo Gentiloni per il reddito di inclusione, perciò al Tesoro non resterebbe che racimolare un altro paio di miliardi.
La maggioranza ha valutato anche l’ipotesi di cancellare gli 80 euro renziani e di far scattare gli aumenti dell’Iva per avere a disposizione una ventina di miliardi in più. Ma entrambe le idee sono state accantonate: la prima perché colpirebbe 11 milioni di contribuenti, la seconda perché un rincaro della tassa sui consumi sarebbe percepita dagli elettori come alto tradimento. L’unica alternativa, perciò, è cambiare il contratto di governo fingendo che nulla cambi.
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- Scritto da Carlo Musilli
“No, per favore, questa roba degli 80 euro no. Sono una cazzata. Sono soldi pagati a chi lavora da chi non lavora. È il pensionato che paga gli 80 euro in busta paga”. Queste le parole pronunciate da Matteo Salvini nel marzo del 2015, durante un dibattito con Roberto Speranza a diMartedì, su La7.
Nell’aprile del 2014, sulla stessa rete, Luigi Di Maio era intervenuto a Bersaglio Mobile per dire che gli 80 euro erano “una grande operazione elettorale, altrimenti non si spiegherebbe perché tu trovi un tot di miliardi e decidi di destinarli con questo bonus alle buste paga. Abbiamo un Presidente del Consiglio che aggiunge una voce in busta paga che si chiama bonus e ci mette 80 euro, a una categoria di persone che, per fortuna, ha una busta paga. Facevano prima a scrivere, al posto di bonus, Vota PD”.
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- Scritto da Carlo Musilli
“I dati sono la risposta migliore: non c’è modo di intimidirli”. Con queste parole Tito Boeri rilancia contro il vicepremier Matteo Salvini, che martedì aveva minacciato di rimuoverlo dalla presidenza dell’Inps. Nel presentare a Montecitorio la Relazione annuale dell’Istituto di previdenza, l’economista bocconiano non solo ribadisce le posizioni sui migranti che avevano fatto saltare i nervi al leader leghista, ma rincara la dose, attaccando il governo anche su altri due fronti: il Decreto Dignità varato lunedì e il progetto di controriforma delle pensioni.
Questa settimana, Boeri ha detto e ripetuto che l’Italia ha bisogno di “aumentare l’immigrazione regolare”, altrimenti in futuro i contributi non basteranno a pagare le pensioni. Per due ragioni. Primo, “perché sono “tanti i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere”. Secondo, perché il nostro sistema previdenziale “non ha al suo interno meccanismi correttivi che gli permettano di compensare un calo delle coorti in ingresso nel nostro mercato del lavoro”.
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- Scritto da Carlo Musilli
L’ombrello di Francoforte sta per chiudersi, ma di pioggia non dovremmo morire. La settimana scorsa il presidente della Bce, Mario Draghi, ha annunciato che il 31 dicembre sarà interrotto il Quantitative easing, il programma di acquisto titoli che negli ultimi tre anni ha portato nella pancia della Banca centrale europea migliaia di miliardi di euro in obbligazioni pubbliche e private dell’Eurozona. Non solo: a partire dalla prossima estate torneranno a salire anche i tassi d’interesse.
Cosa significa tutto questo? All’orizzonte non ci sono invasioni di locuste o spari dai tetti, ma qualcosa cambierà.
Innanzitutto, per le casse dello Stato. Senza gli acquisti calmieranti della Bce, i rendimenti sui nostri titoli pubblici saliranno. Secondo l'economista Carlo Cottarelli, l’anno prossimo un aumento stabile dell’1% comporterebbe un costo aggiuntivo per finanziare il debito pari a 3,7 miliardi di euro.
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- Scritto da Michele Paris
Il dominio di Amazon e delle grandi corporation sulla politica degli Stati Uniti e non solo è cosa risaputa da tempo. Una recente vicenda che ha riguardato la città americana di Seattle, nello stato nord-occidentale di Washington, ha mostrato però nel concreto quale sia l’influenza di colossi simili e, dietro l’apparente impulso allo sviluppo economico e sociale che essi sembrano garantire, la loro portata distruttiva per intere comunità o, quanto meno, per le fasce più povere della popolazione.
La storia in questione si è chiusa martedì con un ripensamento umiliante e senza precedenti da parte del consiglio comunale di Seattle, protagonista di un voto a larga maggioranza che ha cancellato l’introduzione di una modesta tassa destinata a gravare sulle maggiori compagnie con sede in quest’area degli Stati Uniti.
Questa tassa è durata nemmeno un mese. Il sindaco della città, la democratica Jenny Durkan, aveva firmato la legge il 16 maggio scorso dopo che il consiglio comunale l’aveva approvata all’unanimità (9-0) due giorni prima. Dietro le pressioni e i ricatti di Amazon e delle altre più importanti compagnie dello stato, martedì l’imposta è stata abolita con il voto favorevole di sette consiglieri.
Il contributo (“head tax”) avrebbe dovuto essere di 0,14 dollari per ogni ora lavorata da ogni dipendente delle aziende con un fatturato annuo superiore ai 20 milioni di dollari. Complessivamente, il costo per ogni lavoratore sarebbe stato di circa 275 dollari all’anno. Il peso della tassa per Amazon, visti i suoi più di 45 mila dipendenti nell’area di Seattle, ammontava a un importo ridicolo per le dimensioni della compagnia: 12 milioni di dollari. Il fatturato totale di Amazon è stato di 178 miliardi di dollari nel 2017 e il suo numero uno, l’uomo più ricco del pianeta Jeff Bezos, detiene beni personali pari a 138 miliardi.
Gli amministratori di Seattle intendevano raccogliere, grazie alla tassa, 47 milioni di dollari all’anno da destinare alla lotta contro l’emergenza senzatetto nella città. Il sindaco aveva preannunciato un piano imponente di investimenti in abitazioni popolari, rifugi provvisori e strutture sanitarie, ma, in realtà, le risorse raccolte in questo modo sarebbero state nettamente insufficienti a far fronte alla crisi.
Una crisi che è in larga misura da attribuire proprio all’espansione di giganti come Amazon o del settore tecnologico, la cui presenza su un determinato territorio genera un’impennata dei costi degli immobili e degli affitti che ha conseguenze devastanti sui redditi più bassi. Soprattutto per questa ragione, Seattle è oggi la terza città americana - dopo New York e Los Angeles - con il maggior numero di senzatetto. Nella città dello stato di Washington, più di seimila persone ogni notte non hanno un posto dove dormire. Secondo i dati ufficiali, nel solo 2017 sono morte ben 169 persone senza fissa dimora nella contea di King, che include Seattle.
Da parte loro, i membri del consiglio comunale della metropoli hanno chiarito che non esistono altri modi per reperire il denaro necessario ad adottare almeno qualche provvedimento per provare a contenere l’emergenza. Nonostante l’ostentata impotenza, ciò dipende esclusivamente da ragioni politiche e di classe, come dimostra la vicenda della tassa appena revocata.
Nell’area di Seattle hanno sede alcune tra le grandi compagnie americane più remunerative per i loro investitori. Oltre ad Amazon ci sono ad esempio Starbucks, Vulcan, cioè la società di investimenti del co-fondatore di Microsoft, Paul Allen, e svariate compagnie operanti nel settore alimentare.
Una minima parte dei loro profitti, o della ricchezza dei proprietari e top manager, sarebbe sufficiente a risolvere la crisi abitativa della città e dell’intera contea. Non solo, il sistema fiscale dello stato di Washington è considerato come il più regressivo di tutti gli Stati Uniti, ma una tassa sul reddito dei contribuenti più benestanti di Seattle è stata recentemente bocciata da un tribunale statale.
Per Amazon e gli altri, qualsiasi iniziativa a qualsiasi livello che intacchi i loro profitti, anche in maniera minima, viene tuttavia considerata come una minaccia inaccettabile da annientare sul nascere e, per raggiungere questo obiettivo, vengono impiegati tutti i mezzi disponibili e l’enorme influenza che le corporation hanno sulla classe politica.
Nel caso di Seattle, il comportamento della compagnia di Bezos è stato particolarmente cinico. La tassa sui dipendenti delle grandi aziende era inizialmente più incisiva di quella approvata nel mese di maggio, ma è stata in seguito annacquata proprio a causa delle pressioni o, meglio, dei ricatti di Amazon.
Malgrado il consiglio comunale della città avesse alla fine acconsentito a dimezzare l’entità della tassa, Amazon aveva subito avviato una campagna per boicottare la nuova legge, promuovendo in primo luogo un referendum che intendeva abolirla al prossimo appuntamento elettorale nel mese di novembre. In parallelo, Amazon aveva anche sospeso i lavori per la costruzione di una nuova sede a Seattle, in attesa che la questione della tassa venisse risolta a proprio favore.
Alla fine così è stato e l’epilogo si è consumato in un’atmosfera di farsa, con il sindaco e i membri del consiglio comunale di fatto prostrati di fronte ai grandi interessi economici della città. In maniera patetica e di fronte alle proteste dei residenti che hanno presenziato al voto di martedì, alcuni dei consiglieri hanno ribadito il loro sostegno alla tassa ma hanno affermato di essere stati costretti a votare per la revoca sia per evitare il protrarsi della polemica con le corporation nel periodo pre-elettorale sia perché la legge sarebbe stata comunque sconfitta nel referendum di novembre.
La questione della mancata tassazione di Seattle è infine un avvertimento a tutte quelle località americane in competizione per ospitare la costruzione del cosiddetto “secondo quartier generale” di Amazon. I vertici della compagnia intendono ottenere le migliori condizioni fiscali, logistiche e di sfruttamento dei loro dipendenti e per fare ciò opereranno senza alcuno scrupolo per le conseguenze sociali che si riverseranno sulle comunità interessate.
Le città “finaliste” selezionate da Amazon sono una ventina e praticamente tutte, pur di essere scelte, hanno già promesso sostanziosi incentivi fiscali che, assieme agli effetti sul mercato immobiliare della presenza del colosso di Bezos, contribuiranno a generare un impoverimento di massa dietro l’illusione di nuove opportunità di lavoro e di crescita economica.