di Sara Seganti

Sono ben 227 milioni gli ettari di terra venduti o affittati nei paesi in via di sviluppo dal 2001, pari a circa il 60% della superficie coperta dalla foresta amazzonica brasiliana. Questo il dato presentato da Oxfam nel rapporto: “La nuova corsa all’oro” sul fenomeno del land grabbing, espressione usata per descrivere la recente tendenza all’accaparramento di terre possibilmente fertili, a basso costo e in grandi quantità. Su più di 1.000 acquisizioni di terreni, corrispondenti alla compravendita di circa 70 milioni di ettari in giro per il mondo, il 50% avviene su territorio africano e gran parte di queste restano per adesso inutilizzate. Ma l’Africa non è l’unico terreno di conquista, né gli attori in scena sono identificabili per nazionalità: questo fenomeno è, a tutti gli effetti, un trend globalizzato.

“Land grabbing” è il anche il titolo del libro-reportage appena uscito, scritto dal giornalista Stefano Liberti, che ha il merito di raccogliere testimonianze e dati in modo organico e di restituire la complessità della questione senza cadere in facili soluzioni. Da un lato, il land grabbing costituisce una forma di neo-colonialismo. Grandi multinazionali, alleate di stati del sud alla ricerca di valuta straniera, si appropriano di grossi appezzamenti di terra senza consultare le popolazioni locali né indennizzarle, spesso cacciando dalle loro terre molte comunità. In genere, queste operazioni servono a produrre materie prime alimentari interamente destinate all’esportazione, aggravando le già precarie condizioni alimentari di molti stati africani.

Queste concessioni centenarie vengono date a privati per niente, a volte completamente gratis o dietro richiesta di un canone annuale di pochi dollari l’ettaro, da stati africani che cercano di stringere accordi commerciali con investitori stranieri per consolidare la loro posizione politica, come Liberti racconta dell’autoritario stato etiope.

Una particolarità rende questa situazione così priva di controlli: gli stati dell’Africa centrale possono disporre della terra che è di proprietà collettiva, dello Stato o del villaggio. Ufficialmente vengono dati in concessioni solo terreni inutilizzati, ma spesso si scopre che non è vero, che queste terre sono l’unica fonte di sostentamento di interi villaggi. I contadini non hanno però nessun titolo di proprietà da far valere e, se ce l’hanno, sono indotti a cederlo in cambio di sterili promesse.

Tutto questo avviene con il sostanziale avallo della comunità internazionale, a partire proprio da quelle istituzioni che avrebbero per missione la riduzione della fame del mondo, come la Fao. Il merito del contributo di Liberti è anche di fare luce su queste contraddizioni, per cui istituzioni come la Banca Mondiale si limitano a redigere linee guida di principio (e mai vincolanti) su come favorire gli investimenti privati nell’agricoltura senza innescare meccanismi di sottosviluppo e di violenze nei confronti delle popolazioni indigene.

Rischi di cui sono pure consapevoli, ma che non sembrano sufficienti a convincere le istituzioni internazionali a prendere una posizione più netta. Questo anche perché, dall’altro lato, non si può semplicemente invocare l’immobilità, coltivando la speranza di fermare le concessioni di terre: il mondo globalizzato ha un problema alimentare e deve comunque pensare a risolverlo.

La questione ha inizio con la crisi finanziaria del 2007-2008, quando i mercati hanno intravisto nelle compravendite di commodities alimentari, e di conseguenza di terra, ottime possibilità di guadagno e la stabilità che era venuta a mancare negli scambi finanziari, provocando un forte aumento dei prezzi degli alimenti di base. Ma questa non è l’unica spiegazione; bisogna tenere conto anche di dati endemici come la maggiore quantità di alimenti necessari a sfamare una popolazione mondiale in continua crescita, della richiesta in aumento di terre (e di mangimi) per l’allevamento e degli incentivi su scala mondiale per la produzione di agro carburanti, a partire da materie prime alimentari come il grano o la canna da zucchero.

Questo quadro poi non è completo senza le questioni politiche che lo attraversano come in un gioco di rimandi. I paesi del Golfo come l’Arabia Saudita stanno investendo in modo massiccio in Africa per garantirsi le sovranità alimentare, come se il continente fosse una dépandance da cui importare tutto quello che si produce. Una scelta nata dopo che nel 2008, con il rialzo dei prezzi alimentari, la paura aveva generato fenomeni protezionistici in molti paesi, che hanno ridotto le loro esportazioni di alimenti di base - come il riso - di cui i paesi del Golfo non sono riusciti ad acquistare il quantitativo necessario.

Simmetricamente, d’altra parte, c’è anche la strategia americano-brasiliana di puntare sui biocarburanti, (anche con forti incentivi pubblici nel caso statunitense) per liberarsi dalla dipendenza dal greggio di quegli stessi paesi del Golfo.

Come in un cerchio che si chiude, Liberti racconta come la terra e l’agricoltura diventino luogo della contrapposizione ideale tra due modelli di sviluppo alternativi: da un lato grandi piantagioni coltivate efficientemente per l’esportazione verso i paesi ricchi, utilizzo degli ogm e meccanizzazione;  dall’altro piccoli appezzamenti, produzione destinata ai mercati interni, valorizzazione delle campagne come argine all’urbanizzazione disperata, trasferimento di conoscenze e tecnologie, coinvolgimento delle comunità locali.

Il fatto che adesso questo sviluppo venga portato dall’estern, omettendo di connettersi alla realtà locale, rappresenta un’ipoteca sullo sviluppo agricolo del sud del mondo di cui bisognerà ricordarsi allo scoppio della prossima crisi alimentare. Quando in un mondo in cui potenzialmente tutti potrebbero avere di che mangiare, saranno ancora in molti a non avere accesso alla mera sussistenza.

 

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