di Emanuele Vandac

Downgrade di tre tacche per il debito sovrano italiano: questo l’esito delle lunghe riflessioni di Moody’s sul merito creditizio del nostro Paese, che tra l’altro avevano causato l’estensione di un mese del periodo di review sull’Italia. Un declassamento del debito italiano era nelle cose, se non altro perché da organismi che si sono arrogati il diritto di dare un’opinione autorevole ai mercati sulla qualità degli emittenti ci si attenderebbe quanto meno un po’ di coerenza.

In effetti, dopo il downgrade deciso il 19 settembre da Standard & Poor’s, il “voto” assegnato da Moody’s all’Italia era di tre notch più alto rispetto a quello dato dall’altra agenzia: adesso i due concorrenti sono allineati su una valutazione di cosiddetta “singola A” (rispettivamente A2 e A). Va segnalato in ogni caso che Moody’s doveva avere una certa fretta di adeguarsi al S&P: infatti aveva a suo tempo dichiarato che avrebbe atteso fino al 15 ottobre per completare la sua review sull’Italia.

A giustificare la decisione dell’agenzia di rating sono tre ordini di motivazioni: primo, il rischio concreto di una crescita ancora più debole del previsto provocata da una crisi globale; secondo, la scarsa credibilità (nel quantum e nel quando) delle cosiddette misure di austerità varate dal governo italiano negli ultimi mesi; terzo, la “erosione non ciclica della fiducia dei mercati degli investitori istituzionali negli Emittenti Sovrani dell’Eurozona, spinta dall’attuale crisi del debito”.

Sul secondo tema, quello della tenuta dei conti di Tremonti, nulla da obiettare alla cruda bocciatura di Moody’s. Anche se un’agenzia di rating tanto attenta alla temperie politica dei Paesi valutati dovrebbe considerare l’effetto di misure inique sul sentiment generale di milioni di Italiani onesti e depressi da un sistema che ignora - quando non tende ad aggravare - i loro problemi primari (lavoro, servizi, condizione femminile e giovanile), salvo spremerli come limoni al momento in cui si tratti di fare cassa. Un’ipotetica misura qualitativa in grado di stimare l’impatto di questa rabbia impotente sulla possibilità del Terzo Stato italico di sentirsi pienamente parte di un “sistema” e, quindi, di generare reddito e ricchezza potrebbe aggiungere valore impensato alle loro analisi.

Per quanto riguarda invece il primo ed il terzo argomento di Moody’s, non si può fare a meno di notare che si tratta di elementi in qualche modo esogeni. C’è una crisi globale? L’Italia ne soffrirà. Gli speculatori e i fondi (tra cui, per inciso si contano non pochi azionisti rilevanti di Moody’s, tra cui Warren Buffet, Blackrock, State Street, Vanguard Group) hanno deciso che l’euro ha i giorni contati? L’Italia è in prima fila a subirne le conseguenze. Sembra abbia centrato il punto Nicholas Spiro, proprietario dell’omonima società di consulenza londinese specializzata sul debito sovrano, sentito ieri mattina da Reuters: “L’Italia viene punita non perché la sua sia improvvisamente peggiorata la situazione delle sue finanze, ma perché gli investitori sono diventati più sensibili alle sue debolezze strutturali”.

E, aggiungiamo, tendono a diventarlo sempre di più quando le agenzie di rating, che per inciso sono sotto il controllo azionario di speculatori, soffiano sul fuoco, in un grottesco circuito vizioso. "I mercati obbligazionari sono più preoccupati dell’incapacità di crescita dell’Italia più che della riduzione dei disavanzi primari dell’Italia, che sono tra i più bassi dell’area Euro”.

E’ questo l’argomento chiave del dibattito: peccato che interessi poco alle rating agency. Ed ancor meno al governo, che ritiene di venir incontro a questa indubbia necessità semplificando le procedure di licenziamento anziché lavorare a misure che rendano più appetibili per le imprese (e dignitose per la forza lavoro) le nuove assunzioni. Ma questo, nelle condizioni attuali, sarebbe pretendere troppo.

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