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di Mario Braconi
Come ogni telenovela che si rispetti, anche in quella che ruota attorno al sito Wikileaks e al suo fondatore Julian Assange, non poteva mancare un coté pruriginoso. Assange, australiano di circa quaranta anni, è un ex studente di Fisica e Matematica all’Università di Melbourne, ed ex-white-hat hacker (cioè, hacker “buono”) riciclatosi nell’ultimo lustro come “apostolo della trasparenza”. E’ il fondatore e responsabile ultimo di quanto viene scritto su Wikileaks, un sito che pubblica informazioni segretate.
Julian si è recentemente trasferito dalla Gran Bretagna in Svezia, a suo dire per poter sfruttare meglio le tutele che il sistema giuridico di quel Paese offre ai cosiddetti whistleblowers (da noi si direbbe, con incongruo neologismo porno-cinefilo, “gole profonde”, o anche “spifferatori”). Peraltro, al fine di poter restare con una certa tranquillità in quel Paese, Assange (un extra-comunitario) ha avuto bisogno dell’”aiutino” di Aftonbladet, un tabloid di sinistra di Stoccolma che, secondo il New York Times, gli avrebbe offerto un posto di columnist al fine di poter provare davanti alla occhiuta burocrazia svedese, l’esistenza di un regolare impiego retribuito nel Paese.
Sfortunatamente la nuova patria di Julian non non si è rivelata molto generosa con lui: la notte dello scorso venerdì, infatti, un giudice svedese gli ha notificato l’equivalente di un avviso di garanzia per due presunti stupri commessi ai danni di un’attivista trentenne e di un’artista poco più che ventenne. In un’intervista all’Aftonbladet, (una fonte del tutto neutrale nei suoi confronti, visto che è anche il suo attuale datore di lavoro) Assange ribadisce che, in Svezia ed altrove, egli si è limitato ad avere rapporti sessuali solo in circostanze in cui fosse indiscutibile il pieno consenso di entrambi (?) gli interessati. E spinge l’acceleratore, già premuto da blogger e simpatizzanti vari, di un possibile “sporco trucco” ordito ai suoi danni dal Pentagono (che indubitabilmente non lo deve amare molto, dopo il discutibile exploit della pubblicazione a fine luglio su Wikileaks di 77.000 documenti “top-secret” redatti dall’esercito americano sulla guerra in Afghanistan).
Certo, la teoria del complotto paga sempre, specialmente se la (presunta) vittima si è autoattrobuita la patente di Giusto tra i Giusti, ma questa volta sembra che la realtà sia un po’ diversa: non solo il giudice incaricato del caso, la signora Eva Finne, sentita dal New York Times ha escluso alcuna interferenza “esterna” nel caso, ma una persona che il NYT descrive come caro amico svedese di Assange, si è detta “più che sicura” che alla radice della denuncia delle due donne vi siano sopratutto questioni personali tra i tre interessanti - altro che complotto internazionale, qui si tratterebbe, di una storia di letto e gelosia finita nel peggiore dei modi. Fortunatamente per Assange, l’accusa di stupro è stata ritirata quasi immediatamente, anche se, per la cronaca, non sono ancora cadute le accuse per molestie sessuali - un reato che in Svezia può comunque comportare anche un anno di carcere.
Bisogna riconoscere che, senza Wikileaks, non sarebbe stato possibile conoscere le agghiaccianti immagini di un attacco aereo effettuato nel luglio 2007 da un elicottero USA in un quartiere di Baghdad, costato la vita a 12 persone (10 civili inermi e due giornalisti della Reuters sui quali si sono abbattuti migliaia di colpi senza alcuna ragione: il video dimostra chiaramente come il cosiddetto “ingaggio” con i presunti “insurgent” è stato poco meno di eccidio a sangue freddo). Furono infatti le persone di Assange a pubblicare lo scioccante documento sul sito www.collateral.murder.com, che a tutt’oggi costituisce il più grande e prezioso successo del sito.
Alle misteriose entità che si nascondono dietro al collettivo Wikileaks si devono anche altri scoop di grande importanza sociale e politica, come la pubblicazione dei manuali operativi delle truppe americane nel campo di detenzione di Guantanamo, un corposo dossier sulla corruzione del governo kenyota, un ampio dossier sottratto alla setta Scientology, e le prove del coinvolgimento della banca svizzera Julius Baer in attività di riciclaggio di denaro sporco.
Assieme ad altri materiali di relativa utilità, quali la lista delle installazioni militari americane in Iraq (utile se si voglia scoprire il numero di pianoforti a coda, di PlayStation e di BMW 735 in dotazione alle forze di occupazioni statunitensi), alcune e-mail personali di Sarah Palin e le prove dell’evasione fiscale dell’attore afroamericano di pellicole d’azione, Wesley Snipes.
Tuttavia, vi sono almeno altrettante ragioni per emettere un giudizio severo sugli standard professionali dell’organizzazione dell’ex-hacker australiano. Ad esempio, dopo la pubblicazione del dossier sull’uccisione di 500 membri dell’opposizione in Kenya a fine 2008, due avvocati legati a Wikileaks sono stati freddati nel centro di Nairobi in pieno giorno: segno che le garanzie di non tracciabilità delle fonti, tanto sbandierate dalla organizzazione di Assange, non sempre funzionano come dovrebbero.
Ancor prima, Wikileaks, in un accesso di trasparenza, ha ritenuto di pubblicare la lista nera dei siti internet bloccati della polizia australiana: molti di questi ultimi, si è scoperto, erano dedicati alla pedopornografia. Al di là dell’assurdità dell’accusa con cui è stato incastrato il ventiduenne tedesco, titolare formale del dominio Wikileaks (diffusione di pornografia infantile...), conseguenza di un grottesco sillogismo giuridico, resta il fatto che, nel raggiungimento di un difficile equilibrio tra trasparenza e deontologia, qualcosa nei processi interni della creatura di Assange non ha funzionato come avrebbe dovuto...
La pubblicazione dei 76.000 documenti top-secret sulla guerra in Afghanistan, poi, è stata un vero autogol: innanzitutto, è stata venduta ai media come una operazione congiunta tra Wikileaks e i giornali The Guardian, The New York Times e Der Spiegel, cosa che non è vera e che ha irritato i giornalisti delle tre testate: a loro è spettato infatti un duro lavoro di analisi e di editing finalizzato a rimuovere dai documenti i nomi dei civili citati nelle fonti come simpatizzanti delle forze di occupazione, cosa di cui Assange non si è minimamente preoccupato.
In effetti, secondo un report del Wall Street Journal, diverse organizzazioni umanitarie (Amnesty International, Campaign for Innocent Victims in Conflict, Open Society Institute, Afghanistan Independent Human Rights Commission e l’ufficio di Kabul dell’International Crisis Group) avrebbero firmato un documento di protesta destinato a Wikileaks che contiene il seguente invito: “Preghiamo caldamente i vostri dipendenti di analizzare con attenzione tutto il materiale messo online, al fine di rimuovere tutti i riferimenti ad informazioni che possano condurre all’identificazione di persone”.
Sempre secondo la ricostruzione dei fatti data dal WSJ, Assange ha replicato candidamente chiedendo alle organizzazioni che hanno protestato di dargli una mano a purgare i documenti che lui ha messo online.. Questa risposta sarebbe forse sufficiente per calare una pietra tombale sulla professionalità di Assange. ma non è tutto: quando Amnesty gli ha chiesto di organizzare un colloquio telefonico per discutere della questione, pare che Assange abbia risposto sprezzante: “Ho altro da fare che perdere tempo con gente che preferisce non fare altro che pararsi il culo”.
In definitiva, sembra appropriato il commento di Steven Aftergood, firma del blog della Federation of American Scientists' Secrecy News: “Dal mio punto di vista, la trasparenza è solo uno strumento per ottenere qualcos’altro, ovvero una vita politica più robusta, istituzioni responsabili e censurabili, occasioni di impegno sociale e politico. Per loro (le persone di Wikileaks) la trasparenza e l’esposizione di informazioni sembrano essere il fine ultimo”. Amen.
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di Carlo Musilli
Ti daremo 300 euro per andare via da qui, non sei un bello spettacolo. Questo elegante invito, finora, è stato accettato da 371 persone. Novantatré sono partite il 19 agosto, altre 130 il giorno successivo. Le rimanenti si leveranno di mezzo il 26. Entro fine settembre arriveremo a quota 700. Dov’è che vanno tutte queste persone? Bucarest, principalmente. Sofia, in alternativa. Continuiamo a chiamarle persone, ma per qualcuno la definizione suonerà imprecisa. Sono rom.
E’ probabile che il presidente francese Nicolas Sarkozy la notte fatichi a dormire. Nei sondaggi è ai minimi storici. Le elezioni presidenziali del 2012 si fanno sempre più vicine e lui deve trovare un modo per risollevarsi. Le scarpe col tacco non bastano, Sarkò si sente ancora addosso la patina appiccicosa lasciata dal caso Bettencourt. Quello che ci vuole è un’arma di distrazione di massa. Non una qualsiasi, ma la più antica ed efficace. Nicolas si gioca la carta “sicurezza e disciplina”, trattando i francesi come bambini che hanno ancora paura del buio.
A fine luglio l’obiettivo è chiaro, bisogna prendere provvedimenti contro “il comportamento di taluni appartenenti alle comunità rom e nomadi”. Pare che il 79% dei francesi appoggi la crociata. Brice Hortefeux, il ministro degli Interni, riceve l’incarico di smantellare nel più breve tempo possibile 300 campi ritenuti illegali. Agli ordini, mon président: in tre settimane ruspe governative e poliziotti mandano all’aria più di 50 campi rom.
A questo punto possono iniziare i “rimpatri volontari”, un teatrino che preoccupa l’Unione Europea. La Francia “deve rispettare le regole sulla libertà di circolazione e di residenza dei cittadini europei - è il monito di Matthew Newman, portavoce del commissario europeo alla Giustizia - vigileremo molto attivamente per verificare che tutte le norme siano rispettate”. Gli risponde Bernard Valero, portavoce del ministro degli Esteri francese, sottolineando che si tratta di “misure pienamente conformi alle regole europee”, che prevedono specifiche “restrizioni al diritto di libera circolazione”. Incredibilmente, ha ragione lui.
Quando tre anni fa Romania e Bulgaria entrarono nell’Unione Europea, la Francia, avvalendosi di una deroga concessa da Bruxelles fino al 2014, mantenne alcuni vincoli all’accoglienza dei cittadini provenienti dai due Paesi. Bulgari e romeni possono tranquillamente entrare in Francia e restarci per tre mesi senza dover rendere conto a nessuno. Ma, scaduto il periodo, per restare devono essere iscritti a una cassa di assicurazione malattie e dimostrare di avere un lavoro o di essere studenti. Chi intendesse assumerli come dipendenti deve poi ottenere una “autorizzazione di lavoro”, che viene rilasciata per soli 150 tipi di impiego. Quelli che i francesi gradiscono meno. Se disgraziatamente alla fine del trimestre non soddisfano questi requisiti, bulgari e romeni devono tornare a casa. Con le buone o con le cattive. Se evitano di fare storie, hanno diritto all’ “aiuto al ritorno umanitario” (300 euro per gli adulti, 100 per i minori), ma devono lasciarsi prendere le impronte digitali.
Aldilà dal ritorno elettorale, tutta questa iniziativa volta alla purificazione del suolo francese è completamente inutile. La maggior parte dei rom incasserà graziosamente l’assegno, si lascerà riportare in patria con un aereo pagato dai contribuenti francesi, e tornerà in Francia via terra. Per questo Hortefeux da giorni chiede la collaborazione della Commissione Europea per organizzare un “programma d’integrazione” dei rom espulsi nel loro paesi d’origine. La questione non è sfuggita al quotidiano bulgaro Sega, che fa notare un paradosso: i governi di Bucarest e Sofia potrebbero trattenere con la forza i cittadini rimpatriati solo se scegliessero di tornare al regime comunista. Bei tempi, quando c’era il visto d’uscita.
In Romania forse sono meno sarcastici, ma piuttosto espliciti: “Esprimo la mia inquietudine sui rischi di una deriva populista - afferma Teodor Baconschi, ministro degli Esteri romeno - e sul generarsi di reazioni xenofobe, con la crisi economica che fa da sfondo. Se continuiamo a criminalizzare a titolo collettivo dei gruppi etnici, non andiamo da nessuna parte. Resuscitiamo solo spiacevoli ricordi storici”. Da notare che Baconschi, in passato, è stato ambasciatore di Bucarest a Parigi e che a sua volta, qualche mese fa, è stato accusato di razzismo per improvvide affermazioni sulla delinquenza fra i rom. Il destino di Teodor ha il senso dell’umorismo.
Intanto il suo presidente, Traian Basescu, ha un bel da fare. In nessun caso vorrebbe rovinare i rapporti fra Romania e Francia, ma nemmeno si lascia sfuggire l’occasione per ripetere ad una platea mai così ampia una proposta che continua a fare dal 2008: “Quello che succede a Parigi dimostra la necessità di un programma europeo per l’integrazione dei rom”.
Un ultimo dato. Il 95% dei nomadi residenti in Francia sono francesi. Con loro come la mettiamo? Dove li possiamo spedire? Tecnicamente, le parole “nomade” e “rom” non sono affatto sinonimi, ma pare che nemmeno nei discorsi ufficiali si faccia caso a questa sottigliezza. In realtà, non fa tanta differenza. Tieniti stretta la borsa se uno di loro ti cammina accanto in strada. Metti una mano sulla tasca dove tieni il portafogli. Noi siamo quelli che hanno inventato i diritti civili. Loro sono rom.
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di Eugenio Roscini Vitali
La storica visita in Abkhazia del presidente russo, Dmitrij Medvedev, è stata l’ennesima dimostrazione di forza con la quale Mosca vuole riaffermare la sua influenza politica sul Caucaso e fermare le ambizioni di rivincita diTbilisi sulle regioni georgiane auto-proclamatesi indipendenti. L’8 agosto scorso, nel discorso ai militari della caserma russa di Gudaula, 30 chilometri ad ovest della capitale georgiana Sukhumi, Medvedev ha ricordato l’aggressione subita dai fratelli abcasi e osseti e il sacrificio dei soldati russi morti per la loro libertà.
E poche ore dopo, con l’omologo Sergej Bagapsh, il capo del Cremlino ha parlato di collaborazione politica ed economica, di “territori occupati e liberati” ed in tema di sicurezza ha riaffermato la necessità di una strategia comune; una strategia che si è subito concretizzata con l’installazione nell’ex provincia georgiana di un numero non precisato di batterie missilistiche S-300PMU1, il modernissimo sistema di difesa aerea capace di ingaggiare simultaneamente 12 obiettivi e di abbattere non solo aerei ma anche missili balistici tattici.
La posizione di Mosca è chiara. Il comandante delle forze aeree russe, il Generale Alexander Zelin, legittima il dispiegamento dei sistemi di difesa aerea come parte del programma di cooperazione militare con l’Abkhazia e, attraverso l’agenzia Interfax, il Cremlino ha fatto sapere che gli S-300PMU1 sarebbero stati installati nella regione separatista già due anni fa e che quello degli ultimi giorni altro non è che un leggero ricollocamento delle batterie. Per il portavoce del Ministero degli Esteri, Andrey Nesterenko, i missili fanno parte intergrate degli equipaggiamenti militare dislocati nelle basi russe in Abkhazia e il loro utilizzo è di tipo strettamente difensivo: «Il loro spiegamento non può in alcun modo destabilizzare la situazione nella regione e quindi non viola gli impegni internazionali della Russia».
Completamente diverso è il punto di vita georgiano. Il presidente Mikhail Saakasvili considera l’atteggiamento russo una vera e propria provocazione, un’iniziativa pericolosa e preoccupante: «<I missili cambiano i rapporti di forza» e sono un motivo in più per puntare in tempi rapidi all’ingresso della Georgia nella NATO. Il vice ministro degli Esteri, David Jalagania, ritiene che la presenza degli S-300 in Abkhazia sia una minaccia per l’area del Mar Nero e per la sicurezza della stessa Europa: «Chiediamo ai Paesi amici e alla comunità internazionale di fare pressioni sulla Russia affinché demilitarizzi la regione e ritiri delle proprie truppe».
Un appello immediatamente raccolto dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'Unione Europea, Catherine Ashton, che considera il dispiegamento di un tale sistema di armi «una contraddizione con l’Accordo in sei punti di cessate il fuoco,una misura che potrebbe rischiare di aumentare ulteriormente le tensioni nella regione; le visite ufficiali in Abkhazia e Ossezia del Sud dovrebbe essere fatte nel pieno rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale della Georgia».
Sta di fatto che però tutti sapevano dell’esistenza vera o presupposta degli S-300. Lo scorso 17 febbraio l’Abkahzia e l’Ossezia del Sud hanno infatti sottoscritto con la Russia un accordo che prevede la presenza permanente di truppe russe nella base abcasa di Gudauta e in quella ossetta di Tskhinvali: 3.400 militari (1.700 per ogni comando), carri armati T-62, blindati leggeri, sistemi di difesa aerea, elicotteri da combattimenti e velivoli da trasporto.
L’intesa fa parte di un patto di cooperazione che risale al settembre del 2009 e che include un contratto di affitto dei siti militari che, previa rinnovo, dovrebbe scadere nel 2060. Agli uomini del Federal Security Service (FSB), i servizi segreti russi, è stato già affidato il controllo della frontiera (aprile 2009) e i militari hanno ormai in mano gran parte delle infrastrutture, inclusa la base navale abcasa di Ochamchira, situata a pochi chilometri dai porti georgiani di Poti e Supsa, importanti terminal per il trasporto di risorse energetiche.
Ma la protezione ha un costo ed oltre ai missili S-300, l’11 agosto sono arrivati da Mosca anche i tecnici della compagnia statale OAO Rosneft Oil Company, azienda di trivellazione impegnata nella ricerca e nell’estrazione di gas e petrolio che al largo della repubblica separatista georgiana ha già dato inizio ai lavori di prospezione di nuovi giacimenti.
Il Caucaso è sempre stata una regione in perenne ebollizione e si può dire che è stato così sin dall’epoca degli zar. Le rivolte e le guerre interne si fermarono con l’Unione Sovietica solo perché il Cremlino adottò la politica delle deportazioni di massa e lasciò mano libera alle elite locali, le stesse che dopo il crollo del muro di Berlino si misero a disposizione della nuova Russia o, come nel caso della Georgia, degli Stati Uniti.
Attraverso il dislocamento dei sistemi missilistici S-300, Mosca non vuole quindi ribadire il solo appoggio alla causa indipendentista dell’Abkhazia; cerca piuttosto di dimostrare che la Russia continua ad influenzare la politica sociale ed economica di quello che viene definito lo spazio caucasico post-sovietico, un’area dove gli Stati Uniti, e l’amministrazione Bush in particolare, hanno ottenuto vantaggi enormi, vantaggi che il Cremlino non vuole e non può più concedere.
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di Mario Braconi
Hanno fatto il giro del mondo le due disgustose foto che la ex soldatessa israeliana, Eden Abergil, ha postato lo scorso fine settimana sul suo profilo di Facebook. In una di esse, la giovane, in divisa, posa per l’obiettivo sullo sfondo umano di tre palestinesi bendati ed ammanettati con le tristemente note stringhe di plastica, uno dei marchi di fabbrica delle Forze di Forze di Difesa Israeliane (IDF); nell’altra, più difficile da reperire in Rete, Eden, seduta accanto ad un prigioniero palestinese, sembra rivolgersi con atteggiamento ironicamente seduttivo verso un poveraccio, seduto con le mani legate dietro la schiena, la vista impedita da uno straccio legato alle tempie, il capo piegato da un lato nella posizione internazionale dello sconforto e della disperazione.
Entrambe le immagini sono fastidiose, ma la seconda è un involontario capolavoro. Vi si scorgono da un lato odio, disprezzo, arroganza, sarcasmo; dall’altro dolore, miseria, rassegnazione, umiliazione. Un documento disturbante quanto utile a comprendere il livello di dis-umanizzazione cui inevitabilmente conduce la guerra. Come giustamente sottolinea il portavoce dell’Autorità Palestinese, Ghassan Khatib, “questo episodio mostra la mentalità dell’occupante, che é fiero di umiliare i Palestinesi; l’occupazione non è solo ingiusta ed immorale, ma, come dimostrano queste immagini, é moralmente corrosiva”.
Il vergognoso comportamento della soldatessa ha scatenato reazioni sdegnate in Israele, cosa che solleva e conferma la necessità morale (e giornalistica) di distinguere con nettezza il popolo israeliano dalle scelte spesso criminali ed controproducenti del suo governo. Va riconosciuto che anche l’Esercito israeliano ha stigmatizzato con ammirevole nettezza il comportamento della soldatessa: “Queste foto sono una disgrazia - ha dichiarato alla TV della Associated Press il Capitano Barak Raz, un portavoce delle forze armate - a prescindere da considerazioni relative alla sicurezza; qui si sta parlando di gravi violazioni ai principi morali e alle linee guida etiche dell’Esercito. Non v’è dubbbio che - ha proseguito il portavoce dell’esercito - se la signora Abergil fosse ancora un militare (purtroppo si è congedata nel 2008... ndr), sarebbe sottoposta al giudizio di una corte marziale.” Forse farà sorridere quel richiamo all’etica e alla morale, ma va riconosciuto che di censura inequivocabile si tratta. Piuttosto sarebbe interessante capire se la condotta della Abergil costituisca una violazione alla legge civile, visto che quella militare la lascerà impunita...
L’unica persona apparentemente inconsapevole della gravità dei fatti documentati sul social network è la diretta interessata, che, nel corso di un’intervista ad una radio israeliana, si è detta molto delusa dalla scarsa comprensione dell’esercito per quella che lei continua a considerare una leggerezza, una ragazzata: “Ho servito il mio Paese per due anni nella West Bank ed ora l’esercito mi scarica a causa di quelle stupide foto. Sono molto delusa”. Come nota sul blog del giornale Yael Lavie, capo della Redazione Medio Oriente di Sky News, “é proprio l’incapacità di Eden a comprendere il significato delle sue stesse azioni il dato con cui l’intera nazione dovrà fare i conti. Sarà pur vero che si tratta di una ragazza con poca esperienza di vita e con ancor meno sale in zucca, però bisogna anche riconoscere - sostiene la Lavie - che è in qualche modo il prodotto malato di quaranta anni di occupazione: è proprio quella sua prima reazione a caldo (“non capisco proprio cosa ci sia di male, li [i Palestinesi fermati] ho usati come sfondo per le mie foto”) ad esemplificare tragicamente come “non solo l’occupazione ci corrompa, ma finisca per erodere anche quelli che dovrebbero essere i valori fondamentali per le nuove generazioni”.
Commenta da par suo la vicenda il giornalista Max Blumenthal in un post del suo blog personale, efficacemente titolato “Eden Abergil, il risultato di una società bendata”: “Non occorre andare [come ha invece fatto lui ndr] nella West Bank o in una prigione israeliana per comprendere che comportamenti come quelli della Abergil sono il frutto di una società profondamente militarizzata”. Blumenthal invita i suoi lettori a vedere il documentario “To see when I’m smiling” (“Da guardare quando sorrido”) diretto da Tamar Yarom. Sono 60 minuti agghiaccianti nei quali alcune ex soldatesse israeliane, pescando a piene mani dal proprio vissuto, danno conto dei cambiamenti di personalità, della sovversione dei valori e della costruzione di maschere psicologiche sperimentati sulla propria pelle a causa della cultura di guerra nella quale ogni donna israeliana di 18 anni è obbligata (volente o nolente) ad immergersi.
Particolarmente sconvolgenti due episodi: quello di di una donna che a suo tempo ha posato per una “foto ricordo” in cui sorride radiosa vicino al cadavere di un palestinese cui il destino non ha voluto risparmiare nulla, essendo egli passato a miglior vita con addosso i chiari segni di un’inutile erezione. Racconta Blumenthal che, nel corso del documentario, alla donna viene proposta quella orribile immagine vecchia di due anni: “L’espressione contorta del suo volto sembra non volersi identificare con quel mostro ritratto: ero veramente io?”.
L’altro episodio vede protagonista una sergente che improvvisamente sente il bisogno irrefrenabile di sputare addosso ad un palestinese, la cui unica colpa era quella di trovarsi sulla strada percorsa dalla sua pattuglia: un adolescente che, oltre allo sputo, si è buscato pure qualche schiaffone, più il trattamento standard (benda e manette). Il fatto è, prosegue la sergente, che era innocente: altro che terrorista, era solo un ragazzo che ronzava un po’ troppo vicino alla base e ha finito per farsi acchiappare.
E’ interessante il modo in cui il senso dell’umanità abbia, sia pur tardivamente, fatto breccia in quel cuore ottenebrato: “Sì, mi è capitato di pensarci il giorno della Memoria, tipo, ci pensi e dici: ehi, ma noi ci siamo passati prima di loro, ci sono successe cose molto simili, sono esseri umani dopo tutto...”. La speranza è che la società israeliana faccia tesoro di questi documenti brutali e abbia uno scatto di orgoglio: se non ai “nemici” palestinesi, lo deve senz’altro ai suoi figli, quelli i cui corpi e la cui anima stanno sacrificando da decenni.
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di Carlo Musilli
Dopo minacce, provocazioni e sanzioni punitive, alla fine qualcosa di concreto sul fronte del nucleare iraniano è accaduto. Rosatom, l’agenzia nucleare russa, ha fatto sapere che il 21 agosto trasporterà 64 tonnellate di uranio arricchito nel reattore nucleare della città-porto di Bushehr, Iran del sud. La centrale è nata negli anni 70 per mano dell’azienda tedesca Siemens, che è fuggita dal Paese dopo la rivoluzione islamica di Khomeini del 1979. I russi sono subentrati nel 1995, impegnandosi a ricostruire la centrale, reattore incluso, e a formare il personale. I lavori si sono trascinati a lungo, rallentati da continue sospensioni dovute a non meglio precisate “ragioni tecniche”.
Sembra che per anni Mosca abbia sfruttato la costruzione dell’impianto come arma diplomatica: non appena gli amici mediorientali facevano qualcosa di sgradito alla Grande Madre Russia, saltava fuori una bella “ragione tecnica”. Al contempo, i rinvii tornavano utili anche per placare momentaneamente i bollenti spiriti degli Stati Uniti, i nemici più agguerriti dell’arroganza iraniana verso l’Onu. Ma ormai ci siamo, la centrale è finita. Fra pochi giorni taglieremo il nastro.
Ali Akbar Salehi, capo dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica, ha invitato alla festosa cerimonia anche gli ispettori dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica di Vienna. Una bella soddisfazione, dopo le recenti sanzioni Onu e Ue contro il programma nucleare dell’Iran. Ma, soprattutto, una dimostrazione d’autonomia e di forza da parte della Russia. “L’attivazione di Bushehr - spiega la Ria Novosti, un’agenzia russa - rispetta totalmente le norme internazionali vigenti e il regime di non proliferazione”, ma il fatto che arrivi a così breve distanza dal duplice atto di sanzione non può non avere un significato.
In realtà, quello del 21 agosto sarà solo il primo dei tre passi che porteranno al vero avviamento della centrale. Ci vorranno infatti ancora tre mesi prima di iniziare a produrre energia elettrica: 160 barre di combustibile da 700 chili l’una andranno caricate nel nocciolo, quindi si potrà iniziare con la fissione, che per le prime settimane sarà tenuta a livelli minimi in modo da consentire i test di sicurezza. Quando finalmente inizierà a funzionare, la centrale produrrà plutonio, che potrebbe essere usato per realizzare armi atomiche. Per questo motivo la Russia ha posto una condizione agli iraniani: se volete l’uranio, dovete riconsegnarci il plutonio.
Nonostante questa lodevole accortezza, il Cremlino è stato accusato di anteporre i propri interessi commerciali alla sicurezza dell’Europa e di Israele. Da Mosca hanno risposto che il contratto da un miliardo di dollari per la centrale di Bushehr è stato firmato addirittura nel 1995 e ormai non ha più alcun interesse per loro. L’avvio del nuovo impianto pone invece le premesse perché un giorno tutte le attività nucleari iraniane si svolgano sotto l’egida dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
C’è da credere che l’atteggiamento collaborazionista della Russia abbia fatto venire l’orticaria all’intero corpo diplomatico Usa, che da mesi cerca di isolare l’Iran per costringerlo a trattare. Nel marzo scorso, quando Vladimir Putin ha rivelato che la centrale di Bushehr sarebbe entrata in funzione ad agosto, Hilary Clinton ha definito la decisione “prematura”, chiedendo a Mosca di rimandare l’avvio del reattore mediorientale a tempi meno sospetti. Voleva esser sicura che Tel Aviv non rischiasse di far la fine di Nagasaki. Purtroppo il segretario di Stato convive ancora con le sue angosce.
Eppure, formalmente, gli Stati Unti non hanno problemi con la centrale di Bushehr. E’ vero, quindici anni fa erano contrari alla collaborazione Russia - Iran, ma nel 2006 hanno avuto modo di ricredersi. A colpi di bianchetto, ogni riferimento a Bushehr è stato cancellato dalle sanzioni dell’Onu contro la repubblica islamica. In cambio, Mosca ha sottoscritto il documento. Stessa storia anche per le tre successive risoluzioni delle Nazioni Unite contro Teheran.
Questo però non è bastato ad ammansire gli yankee nella loro crociata contro il nucleare iraniano. Secondo Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, “se la Russia si occupa di rifornire di combustibile la centrale e di ritirare poi le scorie, l’Iran non ha evidentemente alcun bisogno di sviluppare una propria capacità di arricchimento”. Il fatto che Teheran non interrompa il programma per l’arricchimento dell’uranio, quindi, alimenta sempre più il dubbio: gli iraniani stanno sfruttando il programma nucleare civile per coprire lo sviluppo di armi atomiche? Loro continuano instancabilmente a negare, “il nucleare - dicono - ci serve per l’elettricità”, ma in pochi sono disposti a credergli sulla parola. Ahmedinejad non somiglia per niente a Enrico Mattei.