di Luca Mazzucato

NEW YORK. “I musulmani hanno lo stesso diritto di praticare la loro religione come chiunque altro in questo paese. E questo include il diritto di costruire un luogo di culto e un centro culturale su proprietà privata a Manhattan.” Così Barack Obama alla cena ufficiale alla Casa Bianca per celebrare l'inizio del Ramadan, il mese musulmano di digiuno e preghiera. Il Presidente dà il via libera alla costruzione del centro islamico che ha creato un polverone sui media americani.

Il giorno dopo, in visita nel Golfo, Obama precisa di non aver commentato sull'opportunità o meno di costruire la moschea, che dipende esclusivamente dalle amministrazioni locali, ma semplicemente di aver ribadito il diritto fondamentale alla libertà religiosa. La precisazione è stata letta come un parziale passo indietro dalla sinistra e come segno di vulnerabilità dai repubblicani, che hanno subito attaccato a testa bassa il Presidente.

L'estrema destra del Partito Repubblicano sta giocando una carta molto pericolosa per le elezioni di Novembre: soffiando sul fuoco del risentimento anti-islamico, forte nella fascia di popolazione bianca e cristiana. Per far questo, con la complicità iniziale dei media come Fox News (che in seguito ha ritrattato), è stato creato il caso della “moschea a Ground Zero,” sotto la voce “attacco all'America.”

Questi i fatti. Mentre i lavori di ricostruzione dell'isolato di Ground Zero nel cuore di New York proseguono alacremente, si è scoperto un piano da cento milioni di dollari per la costruzione di un importante centro culturale islamico, denominato "Pack51" o "Cordoba House": un palazzo di tredici piani che include piscina, palestra, auditorium e, infine, una moschea. Il punto più interessante è che il centro non sorgerà a Ground Zero, ma a due isolati di distanza. E nel raggio di due isolati sono già presenti altre due moschee, su cui Sarah Palin e Newt Gringich non hanno apparentemente nulla da ridire.

“Musulmani amanti della pace, per favore capite, la moschea a Ground Zero è una provocazione inutile; ci pugnala al cuore.” Così l'ex-governatore dell'Alaska Sarah Palin su Twitter. Secondo Newt Gringich, “l'America sta subendo un'offensiva politica e culturale da parte islamica, disegnata per distruggere la nostra civiltà. Finché l'Arabia Saudita non permetterà la costruzione di sinagoghe e chiese, noi non possiamo lasciare che i musulmani costruiscano una moschea a Ground Zero.” Come dire, finché i Nazi continueranno ad uccidere gli ebrei perché noi non possiamo sterminare i giapponesi?

Gli attivisti dell'Iniziativa in Difesa della Libertà Americana, tragicamente privi di senso dell'umorismo, hanno comprato le pubblicità sugli autobus della municipalità di New York e fra una settimana cominceranno ad apparire cartelli con degli aerei in volo contro le Torri Gemelle, accompagnati dalla scritta “WTC Mega Moschea” e “Perché lì?”

In rotta di collisione frontale con il Primo Emendamento, che sancisce la libertà di religione come un pilastro della Costituzione americana, i Repubblicani negli Stati del Sud e del Midwest stanno lanciando una campagna senza quartiere contro la costruzione di centri culturali islamici. Siccome la battaglia contro i matrimoni gay è ormai perduta, la nuova stella polare repubblicana è l'intolleranza contro musulmani da una parte e contro gli immigrati sudamericani dall'altra.

Anche se servirà a rastrellare qualche voto tra gli estremisti, è ovvio che questa volgare messinscena alienerà tutto l'elettorato moderato (per non parlare dei milioni di americani musulmani o di lingua spagnola). Ma i Repubblicani ormai sono un'armata brancaleone senza leader né programma.

Ma vediamo cosa ne pensano i diretti interessati. Secondo i sondaggi, i newyorchesi si dividono a metà tra favorevoli e contrari al progetto, anche se i residenti a Manhattan sono in maggioranza a favore. Michael Bloomberg, il miliardario sindaco di New York, ha fatto del progetto della moschea una bandiera della sua amministrazione, rilanciando i valori di tolleranza e ospitalità, che non sono negoziabili nemmeno in cambio della sicurezza. Non resta alcun dubbio che la moschea verrà infine costruita, se non altro perché a Wall Street (il quartiere in questione) comanda il denaro e i cento milioni di dollari di investimento non si toccano.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. È stata chiusa in questi giorni ad Amburgo la moschea Taiba, entrata nelle cronache di tutto il mondo qualche anno fa per essere stata frequentata dagli attentatori delle Torri Gemelle. La polizia amburghese ha sigillato l'edificio ufficialmente lunedì, sospendendo senza indugio l'associazione islamica cui il luogo di culto faceva capo. Per quanto drastica, la misura di sicurezza non ha causato nessuno shock nella comunità islamica: già da tempo, in effetti, la maggior parte dei musulmani tedeschi aveva preso le distanze della comunità Taiba proprio in ragione delle sue ideologie troppo radicali.

E Taiba, da parte sua, non voleva avere nulla a che fare con la maggior parte dei fedeli all'Islam tedeschi. Rimangono ora da chiarire gli effetti concreti della chiusura della moschea, soprattutto in relazione alla mancanza di una strategia più profonda nella guerra al terrorismo.

La moschea Taiba è nata come moschea Al Quds più di dieci anni fa: Al Quds è il nome arabo dato a Gerusalemme, la città simbolo dei conflitti arabo-israeliani. Fondata nel 1996 nel quartiere di St. Georg, la moschea ha acquisito la sua “cattiva reputazione” nel 2001, in seguito all'attacco al World Trade Center di New York: tre dei dirottatori dell'11 settembre - Mohammed Atta, Marwan al Shehhi e Ziad Jarrah - la frequentavano  quotidianamente e risultavano iscritti alla comunità cui fa capo la moschea, l'associazione islamica Al Quds.

Presso il luogo di culto pregavano anche altri presunti complici dell'attentato alle Torri Gemelle, tra cui Ramsi Binalshibh, uno dei capi e ideatori dell'azione terroristica, arrestato nel 2002 in Pakistan, e diversi sostenitori diretti dei dirottatori. Sono tante le figure controverse legate alla moschea, forse troppe, e, proprio per questo, ha destato l'attenzione del mondo: dal 2001 la moschea Al Quds è stata sempre e immancabilmente messa in relazione all'ala più estrema dell'Islam.

Tra gli oratori della moschea si conta  in realtà qualche personaggio dalle ideologie tanto rigide da toccare l'estremismo. Come il predicatore marocchino Mohammed al Fasasi, che avrebbe addirittura fomentato gli stessi attentatori  dell'11 Settembre e avrebbe fornito loro le basi ideologiche per l'attacco del terrore. Secondo quanto riporta il quotidiano tedesco Tagesspiegel, al Fasasi avrebbe istigato i suoi fedeli con parole come "avete il compito di cancellare la dominazione degli infedeli, ucciderne i bambini, conquistarne le donne e distruggerne le case".

Frasi che, purtroppo, lasciano parecchio campo a interpretazioni e fraintendimenti in ogni direzione. Al momento, al Fasasi sta scontando una pena di 30 anni in un carcere in Marocco: le autorità autoctone segnalano un allontamento del predicatore dall'estremismo ideologico, ma ciò non ha impedito alla moschea Al Quds di conservare la sua fama di terrore.

Nel 2008 la moschea di Al Quds è diventata la moschea Taiba. In arabo, Taiba significa "la bella":  con il nuovo nome, pulito e innocente, si è cercato forse di dare aria nuova a un luogo di culto ormai schiacciato dal pregiudizio. Anche se, in realtà, non è cambiato nulla: il centro ha continuato a costituire un punto di ritrovo per islamisti particolarmente rigidi e presunti estremisti. Nel marzo 2009, l'ultimo episodio della serie. Un gruppo di fedeli è partito da Amburgo per arruolarsi in un campo di addestramento per terroristi al confine tra Afghanistan e Pakistan: tutti aspiranti militanti che, secondo le autorità tedesche, avrebbero frequentato assiduamente la moschea Taiba.

Uno del gruppo, in particolare, è apparso nel video di propaganda terroristica di Al Qaida che ha fatto il giro del mondo nell'ottobre 2009. Sotto il nome di Abu Askar, armato di kalashnikov e spada, il ragazzo incitava alla guerra santa contro gli infedeli. Per quel che riguarda le autorità amburghesi, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e le conseguenze non hanno tardato ad arrivare.

La reazione delle autorità tedesche non si é fatta attendere. La polizia ha perquisito la moschea Taiba e quattro appartamenti di proprietà di membri del consiglio direttivo dell'associazione che le fa capo: l'edificio è stato chiuso e l'associazione Taiba è stata messa ufficialmente al bando. Il comune di Amburgo si è detto soddisfatto dell'azione: "Abbiamo chiuso la moschea perché qui si educavano i giovani al fanatismo religioso", ha spiegato  in  Christoph Ahlhaus (CDU), il senatore per gli affari interni di Amburgo. "Reclamizzando la guerra santa", ha aggiunto, l'associazione Taiba ha "vergognosamente sfruttato la libertà concessa dalla democrazia".

Resta da capire ora fino a che punto la misura di sicurezza abbia effettivamente un senso. La politica ha avuto ottimi motivi per chiudere la moschea, questo è fuor di dubbio, concedendo anzi all'associazione Taiba parecchio tempo per "redimersi". Per gli estremisti la moschea aveva "assunto un alto valore simbolico" e, secondo l'ente per la tutela della Costituzione di Amburgo, rischiava di incentivare le persone a "diventare eroi".

E ora anche la chiusura della moschea Taiba rischia di assumere un ruolo del tutto simbolico e di dare risultati poco concreti. Tanto per cominciare, d'ora in poi sarà più difficile tenere sotto controllo la scena radicale di Amburgo: la moschea poteva servire alle forze di sicurezza da spioncino per osservarne gli associati considerati pericolosi. Senza dimenticare l'importanza che vanno assumendo internet, appartamenti privati, palestre e prigioni stesse per la propaganda degli estremisti, dove però le forze di sicurezza non agiscono in maniera strategica.

In Gran Bretagna, ad esempio, si cerca di affrontare la questione in maniera "propedeutica":  agli ex-predicatori radicali ravveduti il compito di salvare i giovani dall'illusione di una propaganda sbagliata. Ed è così che, nel mondo anglosassone, si rendono inutili la chiusura di una moschea o la proibizione di una associazione religiosa.

 

di Carlo Musilli

Una mamma gorilla che abbraccia teneramente il suo cucciolo, una fossa comune. Quale delle due immagini vi fa venire in mente il Ruanda? Sulla risposta che darete, è stato costruito un business da milioni di sterline. Lo chiamano ‘riciclaggio della reputazione’. Secondo un’inchiesta del Guardian, Londra è diventata la capitale del “reputation laundering”, punto di riferimento per tutti quei dittatori che hanno bisogno di migliorare l’immagine del loro Paese all’estero. E da dove iniziare se non dai media inglesi?

L’assunto di base è questo: gli uomini ricchi e potenti del pianeta leggono l’Economist e il Financial Times. Sono loro la platea da convincere. Così, le aziende britanniche di public relations negli ultimi anni hanno visto lievitare il proprio fatturato grazie alla generosità di governi che violano sistematicamente i diritti umani, come quelli di Arabia Saudita, Russia, Cina, Sudan, Madagascar, Ruanda, Kazakistan e Sri Lanka. Gli esperti di comunicazione di sua maestà stipulano contratti da 2 milioni di sterline l’anno per dare utili suggerimenti a paesi ufficialmente denunciati dalle Nazioni Unite per pratiche come tortura, corruzione, censura. L’associazione britannica dei consulenti di pubbliche relazioni (Prca) ha definito il fenomeno “un mercato in crescita”. Ha ragione: il giro d’affari raggiunge i sette miliardi di sterline l’anno.

Vediamo i professionisti all’opera. In vista delle elezioni politiche in Ruanda (le seconde in sedici anni), il ministro degli Esteri del Paese, Louise Mushikiwabo, ha indetto una conferenza stampa nell’ambasciata di Londra. Qui entrano in gioco i Pr della Racepoint. Mettetevi comodi, inizia lo spettacolo. Giornalisti di tutto il mondo vengono accolti in un finto villaggio ruandese. In una mano sfavillanti brochure piene di gorilla e montagne, nell’altra una tazza di delizioso caffè. Ruandese, naturalmente. In sottofondo la voce del ministro: “Abbiamo più donne in Parlamento di qualsiasi altro paese”. E funziona. “Il Ruanda ha un eccellente macchina di pubbliche relazioni, si legge in un rapporto dello scorso anno dell’Iniziativa per i diritti umani del Commonwealth. E’ riuscita a convincere la comunità internazionale che nel Paese vige una stabile democrazia basata sulla separazione dei poteri e sul totale rispetto dei diritti umani. Tuttavia - conclude il rapporto - è vero esattamente il contrario”.

Una delle aziende leader del settore è la Chime plc, guidata da Lord Bell, ex consulente della lady di ferro Thatcher. “Non mi occupo di etica, ma di comunicazione - spiega Bell - chiunque voglia comunicare qualcosa, dal mio punto di vista è libero di farlo”. Nel 2009 la Chime ha così messo in cascina quasi 67 milioni di sterline, con una crescita del 37% rispetto al 2008. Fra i vari clienti, l’azienda annovera il governo dello Zambia, che neanche tre mesi fa è stato accusato da varie associazioni per i diritti umani di dare rifugio a sospetti responsabili del genocidio in Ruanda.

Nonostante tutto, un codice di condotta per le aziende di Pr esiste. Secondo la Prca, bisognerebbe rifiutarsi di lavorare per clienti le cui attività sono manifestamente illegali o contrarie all’etica, professionale o umana che sia. La Chime ha risolto il problema creando una divisione per i rapporti con i paesi stranieri, la Bell Pottinger, che non ha sottoscritto il codice. Altre aziende sembrano farsi degli scrupoli. La Portland Pr, guidata da Tony Allen, ex vice capo dell’ufficio stampa di Blair, e la Hill & Knowlton, che ha fra i suoi clienti Adidas e Nissan, hanno rifiutato un’offerta milionaria dal governo kazako, attualmente sotto inchiesta da  parte della commissione investigativa delle Nazioni Unite (sembrerebbe che laggiù i poliziotti abbiano una certa propensione alla tortura).

“Noi rispettiamo il codice e non condividiamo nessun tipo di comunicazione contraria alla legalità o all’etica, né ci è mai stato chiesto dai nostri clienti”, spiega un portavoce della Portland, mentre la società si consola gestendo l’immagine britannica di un pezzo grosso come la Russia. Alla fine il contratto kazako è stato sottoscritto dalla Bgr Gabara, impresa londinese che non solo non ha firmato il codice, ma nemmeno fa parte della Prca, a scanso di equivoci sulla politica aziendale in fatto di principi etici. Curiosamente, sul sito web dell’azienda, nella sezione “representative clients”, il governo del Kazakistan non compare. Proprio non se la sono sentita di farne un vanto.

Eppure la collaborazione aperta col mostro da prima pagina non conviene nemmeno ai Pr più spregiudicati. Per questo Omar Bashir, dittatore sudanese accusato dal Tribunale penale internazionale di crimini contro l’umanità per il genocidio in Darfur, si è visto rifiutare dalla Bell Pottinger un contratto da due milioni di sterline. Peccato che la stessa azienda lavori per il governo dello Sri Lanka, che pare abbia bombardato civili e praticato esecuzioni nelle fasi finali della guerra contro i separatisti del Tamil, appena un anno fa.

Il governo di Colombo non fa mancare ai suoi cittadini nemmeno la tortura e la violazione dei diritti dell’infanzia, pratiche che hanno indotto l’Unione Europea, nel luglio scorso, a minacciare il blocco del canale preferenziale per le esportazioni verso il vecchio continente di cui lo Sri Lanka gode. Bashir si deve essere sentito ingiustamente escluso dalla festa e ha trovato il modo per entrare dalla porta sul retro. Una società petrolifera cinese attiva in Darfur ha preso contatti con i Pr londinesi in sua vece.

A scanso di facili moralismi, conviene ascoltare anche chi si è mobilitato in difesa dei tanto criticati esperti di Pr. Molti sostengono che un lavoro ben fatto può portare nei paesi sottosviluppati nuovi investitori, clienti, turisti e partner diplomatici. Insomma, sviluppo. Magari perfino democrazia. Si ripete che lavorare per il bene di un intero paese non vuol dire favorire il dispotismo dei governi. Peccato che a pagare per il lavoro ben fatto siano proprio i governi. Certo non è giusto associare il Ruanda esclusivamente al genocidio. Un paese è una realtà complessa che merita di essere studiata in modo ampio, da più punti di vista. Ma studiare e vendere non sono esattamente sinonimi. 

di mazzetta

C'è ancora molto rumore negli Stati Uniti attorno a Wikileaks. Il sito, rilasciando recentemente miglia di comunicazioni militari statunitensi, ha provocato un discreto scandalo, ma ancora di più ne ha provocato la diffusione di un grosso file (della dimensione 1,4 gigabyte) denominato "Insurance", assicurazione. Il file è criptato con una chiave a 256 bit, una password di oltre cinquanta caratteri per forzare la quale, provando tutte le combinazioni possibili e mettendo al lavoro una decina di computer molto veloci, occorrerebbe un tempo molto superiore alla stessa età del pianeta terra.

Un'impresa che sembra al di sopra delle pur notevoli possibilità di computo a disposizione dei servizi segreti americani, che infatti hanno un diavolo per capello e che devono a questo punto trovare un sistema alternativo alla "forza bruta" per aprirlo, analizzarlo e comprendere cosa contenga e quanto sia pericoloso per gli Stati Uniti e la loro reputazione.

Il file, inoltre, è già stato scaricato da migliaia di utenti, rendendo vana ogni ipotesi d'intervento basata sul sequestro, il sabotaggio del sito, azioni di polizia o aggressioni militari ai danni di Wikileaks e dei suoi server. Per questo si sprecano le accuse al comportamento "irresponsabile" di Wikileaks e di chi lo gestisce, in particolare del suo fondatore Julian Assange.

Un'agitazione francamente difficile da comprendere, dato che la recente diffusione delle comunicazioni tra i militari americani è passata quasi inosservata e del tutto priva di conseguenze significative. Pur provando e dimostrando che i militari americani hanno commesso e occultato gravi crimini di guerra, che ne hanno discusso tranquillamente tra loro senza che nessuno sollevasse grosse obiezioni e perfino che i soldi dei contribuenti americani foraggiano i servizi pachistani che fanno il doppio gioco ai loro danni.

Nessuna conseguenza: ufficiali e media americani hanno reagito dicendo semplicemente che nei documenti diffusi non c'era niente che non si sapesse già, subito seguiti dai media occidentali che sostengono lo sforzo bellico, rapidi a dar voce a fidati editorialisti che si sono affrettati a confermare che non ci fosse niente di nuovo. Il tutto si è esaurito in una fiammata di un paio di giorni con gran parte dell'opinione pubblica che non è stata neppure  raggiunta dalla  notizia, visto che degli imbarazzanti dettagli si è discusso molto meno che del "pericolo" rappresentato da Wikileaks per i "nostri ragazzi" al fronte. Wikileaks è stata velocemente indicata come la parte criminale nella faccenda e dei crimini di guerra e delle prove rappresentate dalle stesse comunicazioni statunitensi non si è proprio discusso.

Stessa sorte per la clamorosa inchiesta che poche settimane prima aveva pubblicato il Washington Post, dimostrando che negli Stati Uniti è stato dato il nulla-osta per trattare dati segreti e quasi un milione di persone e che questi sono per la maggior parte dipendenti d'imprese private, arruolate dal governo per spiare principalmente gli americani e le loro comunicazioni. La scoperta di un tale outsourcing della sicurezza nazionale che; unito a una spesa mostruosa per tener su tutta la baracca e al fatto che tutto il sistema sia orientato più alla sorveglianza degli americani che verso eventuali minacce straniere; avrebbe in teoria dovuto scuotere la "terra degli uomini liberi" e invece è scivolato via come se niente fosse.

In un caso e nell'altro non c'è stato dibattito, nessun politico ha levato la sua voce per dirsi scandalizzato e i due scandali non hanno provocato nemmeno una modesta indagine del Congresso. Eppure i numeri e le spese in gioco sono di dimensioni impressionanti, ed è evidente che da un lato si è dimostrato che il governo degli Stati Uniti spia senza tregua i propri cittadini e dall'altro che i militari americani hanno commesso numerosi crimini di guerra e altri crimini per occultarli. Niente, nessuno scandalo; solo diffusa indifferenza a parlar d'altro. Le uniche reazioni emerse sono state quelle di fastidio verso chi ha diffuso le notizie e l'abbozzo di un processo pubblico nei loro confronti.

E se negli Stati Uniti funziona così negli altri paesi occidentali, il nostro su tutti, la situazione è ancora peggiore. Chi avesse confrontato i maggiori quotidiani d'oltreoceano e i nostri nei giorni scorsi non avrebbe potuto fare a meno di notare la clamorosa differenza nel trattare la notizia dell'uccisione di un gruppo di medici occidentali e non in Afghanistan. Per i quotidiani statunitensi sono stati uccisi dieci medici, dieci volontari impegnati nel portare cure nei luoghi meno accessibili dell'Afghanistan.

Chi li abbia uccisi non è chiaro e, visto che a rivendicare l'azione sono stati due gruppi diversi di guerriglieri, resta aperta ogni ipotesi. Per i maggiori quotidiani italiani invece è stato semplicemente un massacro di medici "cristiani". Nessuna delle testate che spesso criticano la presenza di Emergency in Afghanistan come presenzialismo incosciente, animato da motivazioni politiche che affondano nell'antiamericanismo ha osato scrivere nulla del genere.

Ecco perché anche l'innovativa e meritoria opera di Wikileaks non servirà a niente. Il controllo esercitato dal potere sui media occidentali e sul discorso pubblico è talmente pervasivo che alla "soppressione dell'informante nativo" (cit.) Spivak); che censura completamente le voci degli abitanti dei paesi travolti dalle "nostre" guerre o vittime delle "nostre" politiche; si aggiunge la garanzia del dirottamento del dibattito pubblico dove non può far danni, anche quando le notizie capaci di dare scandalo riescano a giungere ai media e a bucare la propaganda bellica spinti da fonti autorevoli e occidentali come il Washington Post o certificate da prove incontestabili come i documenti militari americani diffusi da Wikileaks. Non succede niente, neanche quando ci si trova di fronte a un fallimento epocale certificato, come la guerra in Iraq.

Una guerra della quale nel nostro paese non dibatte più nessuno ormai da anni e che, anche negli Stati Uniti, sembra un capitolo chiuso, nonostante la situazione sul terreno sia molto peggiore di quella che era a un anno dall'invasione e nonostante le truppe americane siano destinate a restarvi per anni, a dispetto degli assurdi proclami che hanno annunciato il disimpegno americano e a dispetto del fatto che tutte le cifre di pubblico dominio restituiscano il quadro di un paese distrutto che a distanza di mesi dalle ultime elezioni, definite ovunque in Occidente "un successo", è addirittura ancora privo di un governo.

Un'evidenza che dovrebbe portare gli esperti alla revisione della dottrina del "Nuovo Modello di Guerra Occidentale" (cit. Martin Shaw), che prevede il controllo di tre campi di battaglia perché l'Occidente possa andare alla guerra: quello bellico in senso stretto, quello economico e quello mediatico. Da quello che abbiamo visto dal 2001 in poi e da quello che possiamo trarre dall'esperienza empirica, bisogna invece concludere che l'Occidente può anche andare alla guerra e perderla, che può anche portare alla rovina le proprie economie a seguito dello sforzo bellico o di concomitanti politiche economiche fallimentari, ma che fino a quando il potere politico ed economico domineranno incontrastati il campo di battaglia mediatico, non ci sarà alcuno ostacolo alla continuazione delle guerre in corso o allo scoppio di altre guerre in futuro.

 

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Le elezioni di mediotermine sono alle porte e i Democratici sono terrorizzati dall'astensione a sinistra. Che sconfiggeranno, ritengono, portando a votare in massa i consumatori di marijuana. Una trovata paradossale, che in caso di successo varrà come exit strategy dalla “guerra alla droga” e, perché no, potrebbe fare scuola in altri Paesi. Rastrellare un paio di punti in più dell'avversario è quello che serve per vincere le elezioni. Mai come quest'anno i sondaggi sono incerti e l'elettorato polarizzato, in un'America in crisi, facile preda della strategia della paura perseguita dai Repubblicani.

Quel paio di punti in più valsero a Bush la vittoria nel 2004, grazie alla geniale intuizione del suo stratega Karl Rove, che trasformò le elezioni in un referendum contro i matrimoni omosessuali. Bush riuscì così a portare alle urne l'estrema destra cristiana, che non avrebbe altrimenti votato.

La popolarità di Obama è in caduta libera, sotto la pesante propaganda dei Repubblicani. Il GOP infatti può attingere a finanziamenti illimitati da parte di Wall Street, dei petrodollari e delle grosse corporations, che puntano a paralizzare il Congresso e bloccare con ogni mezzo le pur blande riforme che i Democratici hanno in cantiere.

L'ondata di entusiasmo popolare per Obama è ormai svanita e gli strateghi democratici devono portare a votare quella parte dell'elettorato liberale che votò una tantum nel 2008, ma che non pare intenzionato a ripresentarsi a novembre. Si tratta in particolare delle donne single sotto i quarant'anni e degli ispano-americani. I sondaggi mostrano che, nel caso il quesito sulla legalizzazione della marijuana fosse sulla scheda, la metà di questo elettorato astensionista tornerebbe alle urne. E nei due terzi dei casi voterebbe a favore della legalizzazione.

Gli americani favorevoli alla legalizzazione delle droghe leggere sono in aumento stabile di anno in anno, soprattutto dopo aver scoperto che la legalizzazione ad uso medico in molti Stati non ha portato all'Apocalisse che tutti temevano, anzi ha aperto nuove opportunità. In un periodo di recessione, le tasse provenienti dalla vendita di marijuana sono una manna dal cielo per le amministrazioni locali in bancarotta.

La legalizzazione ad uso medico ha portato alla luce una grossa fetta di consumo e rappresenta anche un notevole risparmio per la polizia e il sistema carcerario. Persino i maggiori network televisivi, tra cui CNN e NBC, dedicano speciali in prima serata alle mille possibilità di fare affari legalmente con la canapa. Per non parlare del colpo mortale ai sanguinari cartelli messicani della droga, che controllano il traffico di marijuana (e di tutte le altre droghe).

Martedì è stata lanciata la campagna nazionale "Just say now", che mette insieme un'inedita coalizione di attivisti, giudici e poliziotti con l'intenzione di legalizzare la marijuana. Con l'appoggio bipartisan della ultra-destra conservatrice dei "Tea parties", la cui bandiera è la riduzione dell'invadenza del governo nella vita dei cittadini e dunque anche per quanto riguarda l'uso di droghe. L'organizzazione “Forze dell'ordine contro il proibizionismo,” formata da poliziotti e giudici, daranno la copertura tecnica ai politici che decideranno di fare outing in favore della legalizzazione.

In Arizona, Oregon, California, Colorado e South Dakota, "Just say now" appoggerà i referendum che accompagneranno le elezioni del 2010. Anche se i Democratici stanno lavorando per portare la marijuana sulla scheda, la strategia del partito nel merito del referendum resta però ambigua, evitando di schierarsi apertamente a favore della legalizzazione e usando i referendum come trucco per portare a votare gli astensionisti. Assumendo che questi, in maggioranza, voteranno a sinistra. E soprattutto, con la speranza che gli amanti dello spinello si ricordino di andare a votare...

Se il trucco escogitato dal Partito Democratico funzionerà, Obama ha già pronto il bis per le presidenziali del 2012. Per andare sul sicuro, questa volta le schede elettorali saranno stampate su cartine King Size...


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