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di Michele Paris
Alla fine del 2004, l’esercito americano occupante in Iraq, sferrò una durissima offensiva sulla città di Falluja con metodi che rientrano abbondantemente nella definizione di crimini di guerra. Il prezzo pagato dalla città irachena, oltre alle migliaia di civili massacrati, continua a farsi sentire pesantemente ancora oggi, come ha messo in luce un recente studio epidemiologico condotto da tre ricercatori britannici, con un’incidenza di tumori, malattie genetiche, deformità e mortalità infantile addirittura superiore a quella rilevata tra i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.
A condurre il primo studio di questo genere su quasi cinquemila residenti della città di Falluja, sono stati i medici Chris Busby, Malak Hamdan ed Entesar Ariabi, i quali assieme ad un team di ricercatori, tra gennaio e febbraio di quest’anno, sono stati in grado di tracciare finalmente un quadro esaustivo delle conseguenze a lungo termine della battaglia scatenata dalle forze statunitensi. Il rapporto, intitolato “Cancro, mortalità infantile e rapporto tra i sessi alla nascita a Falluja, Iraq 2005-2009”, è stato pubblicato qualche giorno fa sull’International Journal of Environmental Studies and Public Health (IJERPH).
La causa principale dell’emergere di dati così preoccupanti tra la popolazione di Falluja è l’impiego di uranio impoverito da parte degli americani. Utilizzato come componente per granate e munizioni, l’uranio impoverito risulta particolarmente efficace per la sua elevata densità. Dopo l’impatto con l’obiettivo, l’esplosione determina la fuoriuscita di uranio nell’area circostante, dove può rimanere anche per molti anni provocando danni irreparabili alle persone. L’uranio impoverito attacca i linfonodi e il DNA, causando tumori e gravi malformazioni genetiche.
Proprio la percentuale di malati di cancro a Falluja da cinque anni a questa parte è aumentata di quattro volte e le forme in cui esso si sviluppa appaiono molto simili a quelle riscontrate nelle due città giapponesi dopo il lancio delle bombe atomiche nel 1945. La drammaticità della situazione è evidenziata anche dal rapporto con i paesi circostanti. Nella città irachena, a una settantina di chilometri a ovest di Baghdad, il numero di malati di leucemia è 38 volte superiore rispetto all’Egitto, alla Giordania e al Kuwait.
Il numero di bambini affetti da cancro é poi dodici volte più alto, così come la diffusione del cancro al seno è dieci volte superiore. I livelli d’incidenza di linfomi e tumori al cervello tra la popolazione adulta sono ugualmente al di sopra della media. La mortalità infantile tocca gli 80 decessi ogni mille nati, un numero cinque volte maggiore di quello normalmente registrato in Egitto e in Giordania e otto volte più grande rispetto al Kuwait.
Possibilmente ancora più preoccupante è l’inversione del rapporto tra i sessi alla nascita. Normalmente, nascono 1050 maschi per ogni 1000 femmine, mentre a Falluja tra il 2004 e il 2009 si è scesi ad un rapporto di 860 maschi per 1000 femmine. Un’alterazione quest’ultima già manifestatasi a Hiroshima al termine del secondo conflitto mondiale e che indica il verificarsi di un grave evento mutageno. Mentre i maschi hanno un solo cromosoma X, le femmine ne posseggono due, così da poter rimediare alla perdita di un cromosoma X in seguito ad un danno genetico come quello causato dagli effetti dell’uranio impoverito.
Prima della pubblicazione di questo studio, erano stati parecchi i segnali d’allarme lanciati da Falluja. Nell’ottobre dello scorso anno, ad esempio, alcuni medici iracheni e britannici avevano chiesto all’ONU di avviare un’inchiesta sulla diffusione di malattie collegate all’esposizione a radiazioni nella città. In quell’occasione veniva rivelato come le donne erano terrorizzate dall’idea di partorire figli a causa dell’aumento di deformità segnalate negli ospedali di Falluja. Nel settembre 2009, l’ospedale più grande della città contava 170 neonati, dei quali il 24 per cento morti entro i primi sette giorni di vita. Di questi, ben il 75 per cento presentava una qualche deformità.
Alle presenti e passate accuse, il Dipartimento della Difesa americano ha sempre sostenuto che non esistono studi qualificati che dimostrino il legame tra l’elevata incidenza di malattie genetiche con le azioni delle proprie forze armate. Una carenza di dati scientifici dovuta in larga parte anche all’ostruzionismo delle stesse autorità statunitensi e dei regimi da esse sostenuti. Proprio l’attività di ricerca condotta a Falluja, era stata infatti ostacolata dai media e dai rappresentati locali del governo di Baghdad che avevano bollato i medici britannici come terroristi.
Nonostante la prevalenza di cittadini sunniti, legati al regime di Saddam Hussein, la città di Falluja era stata una delle aree relativamente più pacifiche dell’Iraq dopo l’invasione americana. Il malcontento iniziò tuttavia a diffondersi dalla fine di aprile del 2003 dopo che l’esercito statunitense sparò indiscriminatamente su una folla di cittadini che protestavano contro la trasformazione di una scuola locale in una base USA uccidendo 17 persone. La reazione degli abitanti di Falluja trasformò la città nel centro di resistenza sunnita all’occupazione americana.
Il 31 marzo del 2004, poi, quattro dipendenti della famigerata compagnia privata di sicurezza Blackwater, alla guida di un veicolo, vennero bloccati e fatti scendere per poi essere picchiati e uccisi. I loro corpi dati alle fiamme sarebbero stati successivamente trascinati per le vie della città e appesi ad un ponte sull’Eufrate. L’uccisione dei quattro cittadini americani scatenò la reazione dell’esercito occupante, che nel mese di maggio fu però costretto ad abbandonare l’assedio di Falluja malgrado l’imbarazzante superiorità militare.
Nel novembre dello stesso anno, dietro autorizzazione del governo-fantoccio iracheno, guidato dall’allora primo ministro Ayad Allawi, venne scatenata una nuova e più violenta offensiva contro quella che era stata definita la roccaforte degli insorti iracheni. La città venne circondata e tutti gli abitanti rimasti vennero dichiarati “combattenti in armi”. Numerose famiglie furono uccise dagli americani nel tentativo di fuggire da Falluja, mentre durante l’attacco le forze USA fecero largo uso di fosforo bianco e, appunto, uranio impoverito.
L’operazione militare contro Falluja - nella quale 36 mila case delle 50 mila dell’intera città vennero rase al suolo - rappresentò per stessa ammissione dei vertici statunitensi, una punizione esemplare e collettiva per piegare la resistenza sunnita in tutto l’Iraq occupato. Una condotta perciò contraria al dettato stesso della Convenzione di Ginevra, la quale all’articolo 51 del Protocollo 1 proibisce “le punizioni collettive e qualsiasi misura di intimidazione o terrorismo”.
I crimini americani commessi a Falluja rappresentano uno degli episodi più dolorosi della recente storia militare nei confronti della popolazione civile di un paese occupato. Gli effetti su una città tuttora in rovina tuttavia, a differenza di altre stragi, come quelle quasi quotidianamente perpetrate in Afghanistan o in Pakistan, peseranno ancora per molti anni sulle generazioni future.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Da anni, ormai, la vita politica di Bodo Ramelow, capo della frazione Die Linke della Turingia (Germania centrale), è continuamente sottoposta all'attenta osservazione dell'Ufficio tedesco per la salvaguardia della Costituzione. Articoli, comunicati stampa, volantini, insieme a qualsiasi altra forma di comunicazione pubblica che abbia a che fare con Ramelow, vengono raccolti e analizzati dall'Ufficio federale: obiettivo dichiarato è la prevenzione di eventuali movimenti sovversivi che possano scaturire dal partito di sinistra tedesco cui Ramelow appartiene o, meglio, dalla sua la più estrema.
Inutile dire che Ramelow non è d'accordo: le presunte motivazioni non sussistono e il funzionario della Turingia ha sporto denuncia contro quei "servizi segreti" che, in nome della Costituzione tedesca, vanno a intaccare la sua privacy. Il processo, che continua ormai da anni, ha riservato al funzionario de Die Linke in questi giorni un'amara sorpresa.
La quérelle è nata a causa di alcune correnti politiche germogliate di recente in seno a Die Linke, tra cui l'iniziativa de Die Kommunistische Plattform, il forum virtuale che si propone di "conservare e sviluppare il patrimonio intellettuale marxista" e che raccoglie l'1% degli iscritti a Die Linke, e Cuba sì, il circolo che si impegna a fornire "solidarietà concreta e politica" alla nazione dei fratelli Castro.
Tra le frasi che non sono piaciute all'Ufficio, in particolare, c'é l'auspicio di una rivoluzione che porti a "una dittatura del proletariato". Parole magiche e controverse che, a quanto sembra, non passano mai inosservate. Agli occhi dell'accusa, tali propositi sono sembrati troppo estremi per essere considerati completamente democratici: tanto estremi, in verità, da poter essere sospettati di estremismo e anticostituzionalità.
E se Die Linke costituisce un punto di partenza per gruppi politici anticostituzionali, allora l'intero partito deve essere tenuto sotto osservazione, poiché i cittadini hanno il diritto di conoscere "i visi di coloro per cui vota una fazione anticostituzionale". Queste le conclusioni del tribunale di Lipsia (Est), che ha giudicato sensate le indagini condotte su Bodo Ramelow. Secondo il giudice, l'Ufficio federale per la salvaguardia della costituzione ha il diritto - se non il dovere - di raccogliere tutte le informazioni necessarie alla garanzia della "vera democrazia": in altro modo, ha spiegato il giudice, sarebbe difficile provare la verità su eventuali movimenti sbagliati. Va da se' che il permesso di indagine va esteso a tutti gli altri funzionari del partito di sinistra tedesco.
Alle orecchie di Ramelow, il verdetto suona come una pesante sconfitta nei confronti della sua intera fazione e rappresenta una "svalutazione distruttiva de Die Linke come partito politico". "Non può finire così", ha commentato Ramelow, "vogliono dare un'apparenza d’illegalità sovversiva all'intero partito a causa delle presunte attività anticostituzionali di alcuni suoi gruppi marginali". Gruppi, tra l'altro, che Ramelow ritiene assolutamente estranei a qualsiasi attività antidemocratica.
Il tribunale di Lipsia, in realtà, è stato il primo a esprimersi contro Ramelow nel corso di tutto il lungo procedimento legale che è corrisposto alla questione. Le prime due istanze, emesse dai tribunali di Colonia (Centro Ovest) e Muenster (Nord Ovest), gli avevano dato ragione: Ramelow è un funzionario pubblico e, in tale veste, non ha mai portato avanti nulla di anticostituzionale o antidemocratico che giustifichi qualsiasi tipo di osservazione particolare nei suoi confronti. Le indagini del'Ufficio, in altre parole, non risultano necessarie né mirate e devono essere cancellate dai registri.
La delusione recente, comunque, non ha ucciso la voglia di giustizia di Ramelow. La sua battaglia legale continuerà; prima di fronte alla Corte Suprema Costituzionale federale di Karlsruhe, che si occupa di valutare l'operato dei tribunali tedeschi e, se necessario, verrà portata anche di fronte alla Corte di Giutizia Europea di Strasburgo.
Perché la questione, per Die Linke, è molto più ampia del processo individuale di Ramelow. Il partito viene già tenuto sotto osservazione dall'Ufficio in diversi Laender tedeschi, e cioè in Baviera, Baden Württemberg, Assia, Bassa Sassonia e Renania Settentrionale, tutte regioni che si distribuiscono nella parte Ovest della Germania. Il provvedimento appare ad alcuni irrazionale e vergognoso: è il caso di Ruediger Sagel, vice capo de Die Linke nella dieta regionale di Duesseldorf, che accusa CDU e FDP di abusare dell'Ufficio per la salvaguardia della Costituzione come se fosse "un proprio organo di campagna elettorale".
Per i più moderati, invece, un'eventuale sconfitta de Die Linke in tribunale non porterebbe che sviluppi positivi: sarebbe una lezione di vita per un partito che deve tornare con i piedi per terra e prendersi più sul serio per poter essere considerato in grado di far parte di una coalizione di governo, evitando di pestare i piedi come un bimbo capriccioso. Secondo questi ultimi, Die Linke si deve preoccupare di dare spiegazioni e di scendere a compromessi, omologandosi alla diplomazia tipica delle forze politiche.
Che la frecciata si riferisca, tra le altre cose, anche alla recente vicenda delle elezioni presidenziali, questo è fuor di dubbio. Die Linke avevano presentato una propria candidata, Lucrezia Jochimsen, rendendo la strada ancora più difficile a Joachim Gauck, il candidato socialdemocratico. E il risultato è stato la vittoria di Christian Wulff, l'uomo di Angela Merkel.
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di Eugenio Roscini Vitali
Iron Dome, il sistema di difesa aerea sviluppato ad Haifa dalla società israeliana Rafael Advanced Defense Systems, ha completato con successo i test di simulazione reale ed è stato dichiarato pienamente operativo. La notizia, diffusa con un comunicato ufficiale dal ministero della Difesa israeliano, precisa inoltre che il programma sta per passare alla fase di installazione delle prime batterie di lancio e che inizialmente la copertura riguarderà le città più vicine al confine libanese e alla Striscia di Gaza.
Nato nel 2003, il sistema antimissili Iron Dome é stato il primo vero progetto pensato e realizzato per difendere il sud di Israele dalla minaccia dei Qassam palestinesi. Nel 2006, dopo la guerra contro Hezbollah e i 4.000 razzi Katyusha caduti sulla Galilea, Tel Aviv ha deciso di imprimere una notevole accelerazione allo sviluppo del sofisticato sistema d’arma, ma la svolta decisiva è arrivata nel maggio scorso, quando su input dello stesso presidente Barak Obama, il programma ha ricevuto una iniezione straordinaria di fondi americani: 25 milioni di dollari che il Congresso ha concesso allo Stato ebraico per portare a termine i test di valutazione del programma Iron Dome.
Collaudato contro il lancio simultaneo di numerosi vettori, il sistema sarebbe in grado di neutralizzare i proiettili di artiglieria da 155 millimetri e i razzi di diverso calibro sparati in un range compreso tra i 5 e i 70 chilometri. Secondo i tecnici della Rafael, Iron Dome può intercettare vettori provenienti da diverse direzione e selezionare la minaccia, abbattendo i soli razzi destinati a centrare gli obbiettivi sensibili e le aree abitate; un’opzione che riduce notevolmente le spese di gestione e smorza il già pesante il rapporto sui costi con i Katyusha e i Qassam.
Se Iron Dome dovesse abbattere tutti i razzi sparati da Hamas ed Hezbollah, che hanno una capacità di lancio di circa 500 missili al giorno, Israele dovrebbe spendere non meno di 280 miliardi di dollari alla settimana, un costo sproporzionato anche in termini di sicurezza.
Anche se i vertici della difesa aerea israeliana sono certi che Iron Dome rappresenta per ora l’unica soluzione valida contro i razzi a corta gittata, in Israele il nuovo sistema d’arma ha già sollevato non poche critiche. Oltre che sui costi, c’è chi punta il dito contro l’incapacità del sistema di difesa di garantire la totale impermeabilità del territorio (Rafael prevede un successo non superire all’80%) e di intercettare i vecchi Qassam-1, vettori che hanno un range di 3-4,5 chilometri e che arrivano sull’obbiettivo in un tempo inferiore ai 20 secondi necessari al loro rilevamento e distruzione.
In una conferenza organizzata dai detrattori del progetto, l’analista militare Reuven Pedatzur, docente all’Università di Tel Aviv, ha definito Iron Dome costoso e poco efficiente, un inganno che colpisce solo il portafoglio degli israeliani. Pedatzur ha spiegato che “il tempo di volo di un Qassam lanciato contro Sderot è di 14 secondi, mentre per identificare il target e lanciare le contromisure, Iron Dome spende almeno 15 secondi. Questo significa che tutto ciò che viene sparato in un range di 5 chilometri non può essere distrutto e probabilmente non c’è nessuna difesa neanche contro tutto quello che arriva da una distanza inferiore ai 15 chilometri”.
Nonostante i proclami del ministero della Difesa, i più ottimisti pensano che per produrre ed installare le prime 16 batterie saranno necessari almeno dieci mesi e 1,25 miliardi di dollari, una cifra ragguardevole se si pensa che per assemblare un Qassam servono poche ore di lavoro e non più di 150 dollari di materiale. Inoltre, Iron Dome non è mai stato provato in condizioni reali e contro missili sparati da rampe di lancio in rapido movimento o sotto l’effetto di disturbi elettronici e di tecniche di guerra elettronica.
C’è poi il problema riguardante la selezione dei missili da abbattere, perché diretti contro obiettivi militari o aree densamente popolate: una questione difficile da risolvere, perché prevede l’assegnazione di una scala di priorità che in molte circostanze non sarebbe possibile, come nel caso di attacco simultaneo a più zone abitate e basi militari di rilevanza strategica (quale salvare e quale no).
Fonti militari israeliane affermano che ci vorranno anni prima che tutte le città israeliane vengano protette dalla minacce dei razzi a corta gittata, ma una volta dislocate in quantità sufficiente, le batterie dovrebbero difendere sia i grandi centri urbani che i kibbutz del nord e del sud del paese. Dal prossimo novembre, Iron Dome potrebbe affiancare un altro sistema di difesa aerea, l’Arrow ABM, missile antibalistico di teatro (TMD) ad alta accelerazione che, grazie alla ricezione di un supplemento di informazioni sul lancio iniziale del nemico (early warning), riesce ad intercettare e distruggere i vettori a lunga gittata con una efficacia stimata attorno all'80-90%.
Nel 2012 dovrebbero inoltre diventare operative le batterie Magic Wand, sistemi di difesa antimissili che potrebbero operare contro i vettori con un range che varia tra i 40 e i 200 chilometri. Ma per monitorare il cielo da possibili attacchi missilistici Israele avrà presto a disposizione un’ulteriore contromisura: l’Active Layered Theatre Ballistic Missile Defense System (ALTBMD), la rete stratificata di protezione della NATO che gli Stati Uniti hanno deciso di fornire allo Stato ebraico e grazie alla quale sarà possibile monitorare in tempo reale il punto di lancio, la traiettoria di avvicinamento e la destinazione d’impatto di qualsiasi missile balistico sparato in un raggio 3.000 chilometri.
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di Ilvio Pannullo
Il Cardinale di Santiago del Cile, Francisco Erraruriz, e il Presidente della Conferenza Episcopale cilena, Alejandro Goic, devono avere un’idea davvero molto particolare dell’indipendenza. Perché proprio in occasione dei festeggiamenti per il bicentenario dell’indipendenza del Cile, hanno ritenuto appropriato esibirsi in una proposta indecente. Ritengono, gli alti prelati, che sarebbe opportuno un indulto per i militari pinochettisti condannati per violazione dei diritti umani.
Nel documento di cinque pagine, intitolato "Cile, un tavolo per tutti nel Bicentenario", inviato al nuovo presidente cileno, Sebastian Piñera (che di Pinochet fu ammiratore) il duo dei perdonatori a discrezione assoluta chiede, “per migliorare la convivenza e per il bene comune”, un “provvedimento d’indulto per persone private della loro libertà”, intendendo con esse anche i militari condannati per le loro malefatte in nome della “guerra al comunismo”. Ovviamente, chiedono “una riflessione che sappia distinguere il grado di responsabilità e di autonomia decisionale con i quali hanno agito”, nonché “il pentimento dimostrato”.
Possibile che l’esaltazione per il ritorno alla destra della guida del paese gli abbia preso la mano, ma davvero l’iniziativa dei due prelati appare come un pessimo esempio di esercizio pastorale oltre che si senso dell’opportunità e del tempismo. In un paese dove decine di migliaia di famiglie patiscono ancora nelle loro carni la tragedia del colpo di Stato dell’11 settembre 1973 e dei diciassette anni di regime ignominioso che ne sono seguiti, sono semmai molti a non aver pagato per quanto fecero o scelsero di non fare in adesione - aperta o tacita - a quanto la dittatura militare fece.
Quella dei prelati cileni (che, va detto, come gli argentini, rappresentano una gerarchia ecclesiale che non si oppose mai ai golpisti ma anzi, offrì loro ogni supporto) sembra ispirarsi a quanto avvenne in Argentina, con le due immonde leggi definite “Obediencia debida” e “Punto final”. In pratica due gigantesche operazioni di amnistìa per i militari autori della morte di trentamila persone, con l’assunto giuridico della non responsabilità oggettiva per chi obbedisce ad ordini e delinque nell’esercizio del suo dovere. Ci volle il Presidente Kirchner per azzerarle e rimettere la verità seduta al fianco della giustizia.
Il fatto significativo è che persino una parte della stessa detra cilena, l’UDI, ha rigettato la proposta indecente. “Se la chiesa vuole aiutare i detenuti malati o anziani - si legge in una nota del partito - esistono i benefici carcerari cui riferirsi”. Benefici di cui pare godano sin troppo i macellai del defunto Pinochet. A detta di molti dei militanti dei diversi gruppi per la difesa dei diritti umani che operano in Cile, infatti, proprio le condizioni della prigionia di molti dei gerarchi e dei torturatori del regime destano scandalo, dal momento che la loro detenzione la si può definire piuttosto blanda.
Risposta ancora più netta, naturalmente, da parte della Concertacìòn, la coalizione del centrosinistra oggi all’opposizione. La Democrazia Cristiana ha ricordato che il tema non può nemmeno essere messo all’ordine del giorno, vista la firma del Cile sui Trattati Internazionali: “sfortunatamente per i vescovi - ha detto il capogruppo DC al Parlamento - le violazioni dei diritti umani non sono soggette a prescrizione e non possono essere oggetto d’indulto, dunque la discussione non può nemmeno aprirsi”.
In attesa comunque di capire come il Governo di Piñera intenda sostenere la richiesta degli alti prelati, la portavoce del governo, Ena Von Baer, ha spiegato che “il presidente rifletterà su questa proposta e prenderà una decisione in base agli impegni presi dal governo nei confronti della verità, della giustizia, dell'unità nazionale, della sicurezza dei cittadini e delle considerazioni di carattere umanitario”.
Dichiarazione ambigua, come si capisce, che fa pensare ad una sorta di gioco di sponda tra Chiesa e governo per rimettere in libertà i fedeli funzionari del terrore pinochettista. A tale proposito, infatti, va registrato quanto detto dal Ministro della Giustizia Felipe Bulnes, per il quale “il perdono non fa parte del programma di governo e che Piñera, con questo gesto, risponderà solo a una richiesta avanzata dai vescovi”.
Mente il ministro e a smentirlo arriva proprio un suo collega, il Ministro della Difesa Jaime Ravinet: “Circa un mese fa, abbiamo inviato un rapporto confidenziale al presidente, che è colui che ha l’autorità legale per proporre o emanare indulti”.
Piñera per ora tace, ma l’Esecutivo ha reso pubblici i criteri in base ai quali verrà concessa la grazia: “i valori di unità nazionale, la sicurezza pubblica e la misericordia” tanto per non abbondare in fantasia, sono gli stessi termini contenuti nel documento dei prelati. Se non si sono messi d’accordo, l’alternativa è che la lunghezza d’onda sia la medesima. Non si sa quale ipotesi sia la più inquietante, ma è certo che non si tratterebbe di una novità.
Ma non è detto che il giochino risulti semplice. Perché va registrato comunque un parere sostanzialmente uniforme tra le forze politiche di centrosinistra (maggioranza in Parlamento) e gli organismi della società civile che della dittatura militare di Pinochet sono state le prime vittime.
Manifestazioni si sono tenute davanti a palazzo della Moneda, residenza del presidente della Repubblica cileno che Pinochet ordinò di bombardare per uccidere Salvador Allende, che mai del resto, si sarebbe arreso ai golpisti. Migliaia i partecipanti che, agitando le bandiere cilene e gli striscioni accusatori, hanno avvertito circa le possibili conseguenze cui andrebbe incontro la convivenza civile nel caso il delirio dei prelati trovasse udienza presso il Governo.
Mireya Garcia, vice presidente del Gruppo delle famiglie dei prigionieri e dei dispersi, ha affermato che i detenuti condannati per crimini durante la "sporca guerra" che potrebbero essere liberati sono circa 35, aggiungendo però, con parole che più chiare non potrebbero essere, che "la giustizia non ha nulla a che vedere con la clemenza, ma solo con ciò che è giusto".
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di Michele Paris
Con la recente approvazione della riforma delle norme che regolano Wall Street, Barack Obama sembrerebbe aver brillantemente mandato in porto un’altra delle ambiziose promesse lanciate due anni fa in campagna elettorale. Nonostante a quest’ultimo presunto successo vadano aggiunti almeno quelli della riforma sanitaria e del pacchetto di stimolo all’economia, che pare abbia creato o salvato tre milioni di posti di lavoro, il livello di gradimento del presidente tra gli elettori a meno di quattro mesi dalle elezioni di medio termine appare comunque in caduta libera.
Nell’ultima settimana, sui media liberal d’oltreoceano si sono moltiplicati gli interventi dei commentatori progressisti, i quali si interrogano sul mistero dei pessimi numeri evidenziati dai sondaggi di opinione per l’inquilino della Casa Bianca. E le spiegazioni fornite quasi mai centrano il problema. La colpa sarebbe da attribuire alla stampa che non ama Obama e il suo entourage o, al più, a una fallimentare strategia di comunicazione da parte di questi ultimi.
Ciò che manca è invece la vera natura della questione e cioè la crisi irreversibile in cui versa il sistema rappresentativo statunitense, all’interno del quale il presidente democratico ha completamente disatteso quel desiderio diffuso di cambiamento che gli aveva permesso di conquistare un clamoroso successo elettorale nelle elezioni del 2008.
L’allarme più recente per l’amministrazione Obama è suonato con la pubblicazione del sondaggio periodico condotto da Washington Post e ABC News lo scorso 13 luglio. Secondo questa consultazione, Obama sarebbe sceso a circa il 50 per cento nel livello complessivo di approvazione tra gli elettori, un record negativo dall’inizio del suo mandato. Sul fronte dell’economia le cose vanno anche peggio, con il 43 per cento che apprezza la sua gestione e il 54 per cento che la disapprova. Addirittura un terzo dei sostenitori del Partito Democratico assegna ora un voto negativo al presidente nel rispondere alla crisi economica. A conferma della delegittimazione del sistema politico di Washington, poi, c’è un significativo 36 per cento di intervistati che dichiara di non nutrire alcuna fiducia sia in Obama che nei membri del Congresso, siano essi democratici o repubblicani.
Le ragioni dello sconforto di buona parte degli americani, a ben vedere, si possono facilmente comprendere da una rapida analisi dei principali provvedimenti o “riforme” che hanno segnato i primi diciotto mesi dell’attuale amministrazione democratica. Un esame che parallelamente rivela anche quali siano le vere forze e gli interessi che muovono gli ingranaggi di Washington, ai quali i rappresentanti di entrambi i partiti rispondono pressoché esclusivamente. Una dinamica a tratti inquietante che la maggioranza degli elettori sembra aver compreso perfettamente.
La storica presidenza Obama era iniziata nei primi mesi del 2009 con l’approvazione di un piano di spesa da 787 miliardi di dollari per rianimare un’economia sull’orlo del baratro dopo il tracollo finanziario dell’autunno precedente. Se il discusso pacchetto ha contribuito in minima parte ad alleviare le conseguenze della crisi, molti economisti si sono trovati concordi nel ritenerlo insufficiente, tanto da non essere stato in grado di ridurre sensibilmente il livello di disoccupazione che oscilla infatti attorno al dieci per cento da oltre un anno a questa parte.
La gran parte del primo anno di Obama alla Casa Bianca è stata però monopolizzata dalla discussione attorno alla riforma sanitaria, obiettivo al centro dei programmi di tutti i candidati democratici fin dal fallito tentativo dell’amministrazione Clinton nei primi anni Novanta. Approvata finalmente lo scorso marzo, la nuova legge nulla ha fatto per implementare un sistema pubblico e universale che avrebbe potuto garantire la copertura sanitaria a tutti i cittadini americani. Il provvedimento si è risolto piuttosto in un colossale trasferimento di denaro pubblico alle compagnie di assicurazione private sotto forma di contributi ai redditi più bassi per l’acquisto di nuove polizze, che non sempre risulteranno accessibili né garantiranno la qualità dei servizi erogati.
La vittoria dei giganti delle assicurazioni private in ambito sanitario, inevitabilmente, ha fatto il paio con quella dei colossi di Wall Street dopo la recentissima firma posta da Obama sulla travagliata normativa che avrebbe dovuto fissare regole rigorose per i principali responsabili del disastro economico e finanziario del 2008. Anche in questo caso, ciò che i media hanno propagandato come la più comprensiva riforma del sistema finanziario dai tempi del New Deal, si è risolta in centinaia di regolamenti sostanzialmente dettati dai lobbisti di Wall Street che verranno puntualmente elusi in fase di attuazione della legge stessa.
Con le grandi banche che finanziano in larga misura i membri del Congresso, così come la conquista della presidenza da parte di Obama, non è sorprendente il fatto che gli autori della cosiddetta riforma abbiano cercato in tutti i modi di consentire loro di continuare ad operare in totale libertà, indebolendo quei provvedimenti che avrebbero potuto mettere al sicuro i cittadini dai comportamenti più rischiosi.
Perciò, ad esempio, il testo finale non prevede la possibilità di smembrare le mega-banche a rischio di fallimento che minacciano la tenuta del sistema, così come non è stata ristabilita la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento - un caposaldo della legislazione degli anni Trenta, smantellato durante la presidenza Clinton - né è stato fissato un tetto ai compensi dei dirigenti delle istituzioni finanziarie e, nemmeno, limiti significativi al mercato dei derivati.
Per quanto queste iniziative, così come molte altre, abbiano di fatto favorito i grandi interessi economici e finanziari, l’amministrazione Obama si è vista recapitare da subito accuse di pseudo-socialismo, d’irresponsabilità nel gonfiare il deficit pubblico e di essere irriducibilmente anti-business. Critiche assurde, com’è ovvio, vista l’influenza smisurata dei poteri forti anche sull’establishment democratico, ma che hanno permesso ai repubblicani di plasmare il dibattito politico negli Stati Uniti. In questo modo, ogni provvedimento della maggioranza e della Casa Bianca è stato dipinto come una pericolosa espansione dei poteri del governo federale o una dispendiosa nuova voce di bilancio volta ad allargare pericolosamente i cordoni della spesa pubblica.
Se a tutto ciò si aggiunge il crescente malcontento per una guerra in Afghanistan senza prospettive e le ripercussioni causate dagli effetti della marea nera nel Golfo del Messico (i vertici della BP, tra l’altro, hanno contribuito massicciamente al finanziamento della campagna elettorale di Obama nel 2008), gli scarsi indici di gradimento del presidente non rappresentano una sorpresa. Una situazione che con ogni probabilità produrrà una sonora sconfitta per il suo partito nelle elezioni per la Camera e una parte del Senato il prossimo novembre e, di conseguenza, un’ulteriore svolta a destra per poter attuare il resto del programma con il consenso di un rinvigorito Partito Repubblicano.