di Eugenio Roscini Vitali

Sono più di due secoli che gli antichi bazar della domenica animano la vita di Kashgar, la città oasi che sorge ai limiti del deserto del Taldamakan, a quattromila chilometri da Pechino, ultima tappa cinese dell’antica via della seta che dal 1° ottobre 1949 vive all’ombra della statua di Mao Zedong. Uzbeki, kazaki, tagiki, kirghizi, pakistani e afgani; centinaia di carovane che ogni settimana arrivano nel più importante centro commerciale dell’odierna provincia autonoma dello Xinjiang, nel vecchio Turkestan orientale: dal Kirghizistan, superando la catena del Tien Shan e il passo Torugart; dal Tagikistan, attraverso il Pamir e il passo Kulma; dal Pakistan, scavalcando il Karakorum lungo il passo Khunjerab. Popoli che s’incontrano in una terra antica, nella terra degli uiguri, la minoranza turcomanna che lotta contro le conseguenze dell’onda distruttiva di quella che un giorno fu la Rivoluzione popolare e che oggi è la nuova politica di “ripopolamento” targata Pechino.

di Rosa Ana De Santis

Catherine Ajok venne rapita dall’Esercito di Resistenza del Signore (LRA) la notte del 10 Ottobre 1996, quando era poco più di una bambina. Frequentava allora la scuola delle missionarie comboniane St. Mary, ad Aboke, nella diocesi di Lira. Catherine è tornata, con un figlio di soli 21 mesi avuto dal ribelle sanguinario Kony. Approfittando di un’imboscata che ha distratto l’esercito dei ribelli, questa giovane, che oggi ha 25 o 26 anni, è riuscita a fuggire. E’ comparsa qualche settimana fa dalle foreste del Congo. In quel ricamo di paradiso terrestre che segna a ovest uno dei confini della piccolissima Uganda. Una rete fittissima di vegetazione e suoni che incute ancora oggi un misto di timore e riverenza nelle persone del luogo, come di sacro rispetto. Così è tornata Catherine, come un fantasma dal passato.

di Eugenio Roscini Vitali


Dopo aver occupato per oltre tre settimane la Casa del governo, ormai accerchiate da centinaia di soldati ed agenti della polizia schierati in assetto anti-sommossa, le “camice rosse” si sono arrese e in Thailandia ha preso il via l’ennesima resa dei conti: Abhisit Vejjajiva, primo ministro sostenuto dalla coalizione di destra, Alleanza Popolare per la Democrazia (PAD), rimane al suo posto; mandato di arresto e revocato del passaporto per l’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto nel settembre 2006 con un golpe incruento ed attualmente in esilio tra Londra, Dubai ed Hong Kong; fermati tre leader dell’opposizione e ordinato l’arresto di altri 13 membri del Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura (UDD), due dei quali, Jakrapob Penkair e Jatuporn Pompan, sarebbero già fuggiti all’estero; mandato di cattura per Jatuporn Promphan, leader politico delle “camicie rosse”. Le forze di sicurezza e mezzi blindati rimangono schierati nei punti nevralgici della capitale; lo stato d'emergenza non viene revocato; il bilancio finale degli scontri parla di due morti di oltre 100 feriti; migliaia gli arresti.

di Carlo Benedetti

Sono proprio contate le ore di Michail Saakashvili, l’autocrate fascista che ha cercato sino ad oggi di dominare la Georgia forte dell’appoggio di quella che fu l’America di Bush. Il paese è in ebollizione. A Tbilisi partono strali acuti e mortali contro il palazzo del potere. La contestazione è più che mai forte e decisa. Non si accettano più le manovre del presidente e decine di migliaia di persone manifestano per chiederne le dimissioni. Nella piazza del Parlamento si radunano circa 25.000 manifestanti mentre cominciano a formarsi i comitati regionali per la disobbedienza civile. A Saakashvili si contestano una serie di insuccessi. A partire dalle operazioni militari della scorsa estate contro la Russia che hanno portato alla perdita del 20% del territorio georgiano per giungere all’accusa di non aver rispettato le regole democratiche e i diritti umani.

di Michele Paris

Pochi giorni fa, la Corte Suprema del Perù ha emesso una sentenza esemplare nei confronti dell’ex presidente Alberto Fujimori, condannandolo a 25 anni di carcere per omicidio, sequestro aggravato, percosse e crimini contro l’umanità. Le accuse mosse contro Fujimori si riferiscono ad assassini e rapimenti commessi dal gruppo paramilitare La Colina tra il 1991 e il 1992 con l’esplicita autorizzazione presidenziale. Lo storico verdetto rappresenta la prima condanna di un presidente democraticamente eletto ed estradato dall’estero verso il proprio paese per essere processato per crimini di tale gravità. Oltre alle testimonianze schiaccianti di ex membri dello squadrone della morte peruviano, impegnato in operazioni militari contro i gruppi ribelli maoisti Sendero Luminoso e Tupac Amaru (MRTA), fondamentali nel processo contro “El Chino” - così soprannominato, nonostante le origini nipponiche - sono stati decine di documenti desecretati dal governo americano.


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