di Michele Paris

Mentre in California si attende di conoscere la sorte definitiva dei matrimoni gay, una sentenza della Corte Suprema dell’Iowa pochi giorni fa ha ufficialmente cancellato il divieto di celebrare nozze tra persone dello stesso sesso. Lo stato del Midwest, da dove prese il via quindici mesi fa la trionfale corsa nelle primarie democratiche di Barack Obama, è tradizionalmente riconosciuto per l’indipendenza della popolazione e del proprio sistema giudiziario. Nondimeno, la decisione del supremo tribunale statale ha colto di sorpresa quanti ritenevano possibile un’evoluzione favorevole al riconoscimento delle unioni gay solo nelle consolidate roccaforti liberal del New England o della costa occidentale. All’Iowa ha fatto seguito pochi giorni dopo il Vermont, giunto allo stesso risultato tramite un’iniziativa della legislatura locale e diventando così il quarto Stato americano che riconosce il diritto di matrimonio a due persone dello stesso sesso - assieme a Massachusetts e Connecticut - anche se ben presto altri stati potrebbero seguire lo stesso percorso.

di Mariavittoria Orsolato

Si dice spesso che l’erba del vicino è sempre più verde e, nel caso della nostra miserrima nazione, ci sono buoni motivi per pensarla così: scuola, welfare, sistema politico, tutto quello che è europeo ci sembra infinitamente migliore se visto dallo stivale. C’è però un campo delle competenze statali in cui le brillanti distinzioni di leadership europee e internazionali sembrano omologarsi perfettamente, per riunirsi in quella zona grigia e sfocata che è la tutela dell’ordine. Sui giornali di questi giorni, oltre all’immane tragedia abruzzese, si è letto che due agenti della Polfer milanese sono stati accusati per l’omicidio (a botte) di un clochard a cui avevano preso le generalità, e che l’uomo morto per un malore al G20 londinese è stato in realtà assalito e picchiato dalla polizia inglese. Due storie sicuramente diverse, ma che fanno riflettere sull’atteggiamento che le forze dell’ordine tengono nei confronti dei cittadini inermi.

di Mario Braconi

Davanti al palazzo in cui, nel luglio del 2008, si è tenuto un Summit sui cambiamenti climatici organizzato da The Guardian, un gruppo di persone ha manifestato contro E.On, mostrando divertenti cartelli (E.On/F-Off, con un gioco di parole efficace ma purtroppo intraducibile, pressappoco: “E.On, va a farti fottere”, oppure, più bonariamente, “sfida E-On!”). La multinazionale dell’energia, infatti, pur essendo sponsor della manifestazione, aveva in programma (e non sembra abbia cambiato idea) di rimpiazzare la vecchia centrale a carbone di Kingsnorth, a Medway, nel Kent, con una nuova struttura, sempre a carbone. Secondo gli ecologisti (ma anche secondo ogni persona di buon senso, se correttamente informata) questa di Kingsnorth è una pessima idea: la ONG World Developement Movement ha dichiarato che la centrale rilascerà in atmosfera una quantità di CO2 superiore a quella prodotta dal Ghana; della stessa idea è James Hansen, capo del NASA Goddard Institute of Space Studies: “Un solo stabilimento con una vita utile di diverse decine di anni distruggerà gli sforzi di milioni di cittadini per ridurre le loro emissioni”.

di Michele Paris

Il dato più rilevante della prima apparizione al di fuori dei confini americani del neo-presidente Obama risiede senza dubbio nell’abbandono dei toni manichei espressi negli ultimi anni dal suo predecessore sui temi dei conflitti internazionali e di quelli paternalistici riguardo alla necessità di una maggiore apertura al mercato da parte dei paesi europei. Certo, gli sconvolgimenti prodotti dalla crisi economica negli ultimi mesi rendevano inevitabile una sorta di mea culpa del nuovo inquilino della Casa Bianca per il perseguimento di una deregulation sfrenata dall’altra parte dell’oceano. E, allo stesso modo, ampiamente prevista era l’inversione di rotta rispetto all’unilateralismo nella gestione della politica estera di Washington durante i due mandati di George W. Bush. Nondimeno, il sollievo provato dagli americani per l’accoglienza tutto sommato positiva ricevuta finalmente in Europa dal loro presidente, è stato tale da far quasi passare in secondo piano i risultati non del tutto soddisfacenti della trasferta e le divisioni anche profonde emerse nei rapporti con gli alleati.

di Eugenio Roscini Vitali

Non era difficile prevedere che dalla nascita di questo nuovo governo la svolta a destra sarebbe stata assoluta, come assoluto sarebbe stato il silenzio di Benyamin Netanyahu sul processo di pace israelo-palestinese e sulla teoria del doppio Stato. Un silenzio al quale ha invece dato voce il nuovo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che non ha esitato a riaffermare quanto già sostenuto in campagna elettorale, cioè che Israele non è assolutamente legato alle intese sottoscritte da Ehud Olmenrt ad Annapolis e che nel vicino Medio Oriente non c’è spazio per uno Stato palestinese: “Anche se dovessimo ripetere la parola pace venti volte al giorno non avremo la pace, più faremo rinunce e più la situazione peggiorerà”. Una destra sorda quindi, sia all’appello del presidente Shimon Peres, che ha chiesto a Netanyahu i massimi sforzi per continuare il progetto di stabilizzazione sostenuto da Usa ed Europa, sia alle proteste dell’Autorità palestinese che, per bocca di Mahmoud Abbas, ha denunciato le affermazioni di Lieberman come una sfida agli Stati Uniti: “La comunità internazionale dovrebbe rispondere a queste provocazioni che minacciano la sicurezza e la stabilità della regione”.


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