di Mario Braconi

Molti dei giornalisti italiani convinti di raccontare verità scomode per il potente di turno dovrebbero fermarsi un attimo. E riflettere sull’immenso valore della testimonianza che stanno dando al mondo i loro colleghi russi che continuano a fare il proprio lavoro, spesso rimettendoci la pelle. La libertà di stampa e di espressione in Russia sono a rischio da anni: oltre ai quotidiani, basta scorrere il report pubblicato a febbraio da Amnesty International su questo argomento: in un anno ben cinque giornalisti sono stati assassinati (tra di essi Anastasia Baburova, praticante presso la ’Novaia Gazetà, uccisa il 19 gennaio scorso dal killer a volto coperto che aveva appena eliminato l’avvocato ed attivista per i diritti umani Stanislav Markelov, che rappresentava Anna Politkovskaia). Alla stampa, in generale vengono regolarmente riservate minacce, quando non percosse, dalla polizia, che si fa beffe dei cartellini identificativi che i giornalisti portano per farsi riconoscere. Il processo ai presunti assassini della giornalista Anna Politkovskaya è stato trasformato in una barzelletta, non si capisce bene se per incapacità investigativa, per dolo o per tutte e due le cose assieme.

di Michele Paris

Il giudice spagnolo Baltazar Garzón, salito agli onori della cronaca internazionale nell’ottobre del 1998, quando spiccò un mandato di cattura nei confronti di Augusto Pinochet Ugarte, allora convalescente in Gran Bretagna, ha ottenuto dal tribunale di Madrid l’affidamento di un’indagine nei confronti di sei esponenti di spicco dell’amministrazione Bush. Le persone coinvolte - tra le quali spicca l’ex Ministro della Giustizia Alberto Gonzales - sarebbero responsabili della violazione delle leggi internazionali sulla tortura in riferimento al trattamento dei prigionieri nel carcere di Guantánamo. Un caso poco più che simbolico, secondo alcuni, ma che potrebbe contribuire a fare chiarezza su alcune responsabilità del precedente governo americano sugli abusi compiuti in nome della lotta al terrorismo e che Obama invece continua a ritenere non debbano essere investigate.

di Mario Braconi


Il due aprile, presso l’ExCel Center di Londra si terrà il G-20: almeno nelle intenzioni degli organizzatori, l’evento (dal costo di 19 milioni di sterline) consentirà ai rappresentanti delle venti nazioni che sviluppano complessivamente il 90% del prodotto interno lordo, l’80% del commercio e i due terzi della popolazione globali di accordarsi sulle azioni da intraprendere per “stabilizzare i mercati finanziari, consentire a famiglie ed imprese di attraversare la recessione, riformare ed irrobustire i sistemi della finanza e dell’economia globali per impedire nuove crisi finanziarie ed orientare l’economia globale verso lo sviluppo sostenibile.” Stabilità, Crescita e Lavoro, dunque, saranno al centro delle riflessioni dei Grandi, come del resto recita il claim della conferenza. Se l’implosione di un sistema finanziario intossicato dalla idolatria del debito ed eccitato oltre ogni ragionevolezza dalla furia speculativa non avesse prodotto la più grave recessione della storia, quello di Londra, forse, sarebbe stato l’ennesimo appuntamento a porte chiuse tra potenti, apparentemente lontanissimo dalla vita quotidiana dell’uomo della strada.

di Ilvio Pannullo

Il presidente Barak Obama batte i pugni: "Non vogliamo, non possiamo e non lasceremo scomparire l'industria automobilistica americana". E' categorico l’inquilino della Casa Bianca nell'annunciare che il suo governo non accoglie i piani di rilancio presentati dalle grandi compagnie che "non si stanno muovendo nella giusta direzione". È dunque tempo di terremoti a catena nel mondo dell'auto: mentre Rick Wagoner, presidente e amministratore delegato della General Motors, si è dimesso dopo le critiche del presidente Usa, in Francia è stato estromesso Christian Streiff, presidente del comitato di sorveglianza di Peugeot-Citroen. A ciò si aggiunga che, se entro trenta giorni non sarà raggiunto un accordo con la Fiat, il governo americano lascerà che anche la Daimler-Chrysler fallisca. Immediati i contraccolpi dei titoli automobilistici nelle Borse mondiali: Renault -6%, Peugeot -5,6%, Daimler -5,1%, Fiat -9,1%. Ancora peggiore, se possibile, la reazione di Wall Street: in apertura di contrattazioni il titolo GM apriva in calo del 29,83%, per poi limitare le perdite a quota 25,97%.

di Michele Paris

L’ondata di violenza legata alla guerra tra i cartelli della droga e il governo federale che travaglia il Messico da oltre un anno sta coinvolgendo in maniera sempre più pesante anche gli stati americani del confine meridionale. La recente visita a Città del Messico del Segretario di Stato Clinton ha contribuito alla presa d’atto che la situazione attuale non può essere liquidata semplicemente come un problema interno messicano. Soprattutto alla luce del fatto che gli USA rappresentano il mercato principale degli stupefacenti provenienti dal Centro e dal Sud America e che il 90% delle armi da fuoco impiegate in un conflitto che ha causato oltre sette mila morti tra il 2008 e i primi mesi del 2009 proviene proprio dagli Stati Uniti. Il diverso approccio dell’amministrazione Obama rappresenta indubbiamente un passo avanti rispetto al recente passato. Allo stesso tempo tuttavia, ogni miglioramento della questione messicana rischia di essere ostacolata dai contrasti che persistono tra i due paesi nell’ambito delle loro relazioni commerciali.


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