Si chiama Esequibo, e tutto ciò che sta in superficie, sopra e sotto dei suoi 160.000 chilometri quadrati, è venezuelano. Checché ne dicano, a Miami e a Dallas, dove vige il convincimento che tutto ciò che vale a sud del Rio Bravo è proprietà di chi sta a nord dello stesso fiume. Esequibo è un territorio piccolo, ma ricco di ogni risorsa e proprio per questo oggetto di miserabili tentativi di spoliazione da parte di Exxon Mobil, che è una delle multinazionali e delle compagnie petrolifere che, dalla sua sede a Dallas, costruisce la politica energetica statunitense nell’area centro-sudamericana e caraibica. Alla compagnia statunitense, come ad altre società internazionali, il governo della Guyana ha dato frettolosamente ed illegittimamente autorizzazione allo sfruttamento minerario e ittico di un territorio che non è il suo. Senza se e senza ma.

Il vertice tra UE e Cina ha presentato poche sorprese e nessuna positiva. Tra queste, la ritrosia europea ad inserirsi nel mastodontico progetto conosciuto come Belt and Road Initiative, il piano di infrastrutture globali finanziato con investimenti per mille miliardi di dollari in linee ferroviarie, autostrade, porti, aeroporti, centrali elettriche e impianti industriali dall’Asia ex sovietica all’Europa, passando per l’Africa, ovvero in molti Paesi in via di sviluppo.

Eppure, motivi di interesse e ragioni per farne parte ce ne sono: a Giugno del 2023, ben 154 Paesi e 30 organizzazioni internazionali avevano sottoscritto accordi di partecipazione e la Nuova Via della Seta ha già generato contratti per 2.000 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Il presidente turco Erdogan ha lanciato nel fine settimana un durissimo attacco contro gli Stati Uniti per la complicità dell’amministrazione Biden nella guerra genocida che Israele sta conducendo a Gaza. L’uscita pubblica di Erdogan non è la prima a sostegno della causa palestinese dall’inizio dell’offensiva dello stato ebraico nella striscia il 7 ottobre scorso. Le frequenti denunce pubbliche del regime di Netanyahu e delle complicità occidentali si scontrano tuttavia con i fatti, visto che Ankara continua a permettere il traffico di materie prime e merci verso Israele, lasciando intatti i profitti di importanti compagnie private turche, incluse alcune legate direttamente allo stesso presidente e ad altri leader del suo partito.

La diffusione di notizie false costituisce sempre più un ingrediente essenziale delle politiche imperialiste. In tal modo le centrali propagandistiche votate a mantenere ad ogni costo il predominio degli Stati Uniti e della NATO su un pianeta in rapida trasformazione politica, economica e sociale, intendono calibrare la loro offensiva in relazione alle nuove caratteristiche assunte dal sistema dei media, specie con la nascita e la rapida propagazione dei cosiddetti social media.

Obiettivo privilegiato di tale offensiva propagandistica è, ancora una volta, in primo luogo il governo cubano. Alcune fonti anonime statunitensi denunciano in effetti il tentativo di danneggiare i rapporti esistenti tra Cuba e Panama, accreditando l’idea che vi sarebbe una regia cubana dietro i movimenti sociali che contestano lo sfruttamento di risorse minerarie panamensi da parte di imprese canadesi. Casi di rilievo anche maggiore si sono verificati nei confronti della Bolivia, al tempo del colpo di Stato di Jeanine Añez e, più di recente, in Perù, dove alcune rappresentanti parlamentari del partito Avanza País hanno lamentato, senza alcun fondamento, pretese intromissioni di diplomatici cubani negli affari interni di tali Paesi.

L’amministrazione democratica americana starebbe studiando un piano per ristabilire una qualche forma di “governance” a Gaza dopo che le forze armate israeliane avranno terminato il massacro in corso di civili palestinesi. L’opzione che la Casa Bianca e il dipartimento di Stato giudicano come la migliore o, più precisamente, la meno peggio è l’assunzione delle responsabilità di governo nella striscia da parte dell’Autorità Palestinese (AP). Questa soluzione, per stessa ammissione di molti esponenti del governo USA, è tutt’altro che semplice e sembra al momento osteggiata anche dal primo ministro Netanyahu e dal suo gabinetto di fanatici sionisti. Il fatto che a Washington si continui a nutrire l’illusione di una via d’uscita alla crisi palestinese puntando sull’ultra-screditato organo guidato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) dimostra a sufficienza lo stato comatoso della diplomazia americana, assieme alle ragioni della rapida perdita di influenza degli Stati Uniti nella regione mediorientale.


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